Lavoce.info

Riflessioni sulla Pex

Nel regime di esenzione da partecipazione, i dividendi e le plusvalenze realizzati dalle società di capitali sono esenti da imposte. La giustificazione è che riflettono utili già tassati in capo alla società partecipata. Ma le plusvalenze possono avere altre origini, ed essere anche il frutto di attività speculative, per le quali l’esenzione sembra difficilmente giustificabile. I rimedi proposti appaiono però finalizzati ad aumentare il gettito. Mentre dovremmo chiederci se Pex e simili non debbano considerarsi sleali forme di concorrenza fiscale fra paesi Ue.

Nel regime di esenzione da partecipazione (Pex) vigente in Italia dal 2004, i dividendi e le plusvalenze realizzati dalle società di capitali sono esenti da imposte. La giustificazione è che riflettono utili (distribuiti e non) già tassati in capo alla società partecipata. Ma le plusvalenze possono avere altre origini, ed essere anche il frutto di attività speculative.
Il tema è salito agli onori della cronaca con riferimento alle plusvalenze realizzate dai cosiddetti immobiliaristi, per le quali l’esenzione è ritenuta difficilmente giustificabile. I rimedi proposti appaiono però più finalizzati ad aumentare il gettito che ad affrontare razionalmente il problema.

La Pex 1: esenzione dei dividendi infrasocietari

La Pex è stata introdotta per sostituire il credito d’imposta sui dividendi (che evita la doppia tassazione dello stesso profitto). Se applicato fra imprese, il credito d’imposta creava infatti discriminazioni per i non residenti non compatibili col quadro Unione europea. La Pex non presenta, invece, controindicazioni di sorta visto che dà luogo alla pura e semplice esenzione del dividendo, se ricevuto da imprese, indipendentemente da altre caratteristiche del socio.
La circostanza, poi, che l’esenzione non sia integrale, ma limitata al solo 95 per cento del dividendo ricevuto, è frutto di mera semplificazione nei rapporti fra contribuente e fisco. Con l’esenzione totale, infatti, il contribuente non avrebbe potuto dedurre i costi di gestione della partecipazione (ad esempio, le spese di viaggio sostenute dai rappresentanti della società socia per la partecipazione alle assemblee della società partecipata). Il fisco, d’altro canto, avrebbe dovuto accertare quali spese del socio afferivano alla gestione della partecipazione in questione. E ciò non solo nell’anno di percezione del dividendo, ma in un qualsiasi momento di possesso della partecipazione incriminata. La forfettizzazione di tali spese nel 5 per cento del dividendo, pur opinabile, risolve, quindi, il problema.
Sennonché l’esenzione garantita al dividendo (che chiamerò Pex 1) avrebbe potuto facilmente risultare, nei fatti, insufficiente ove la società che consegue un profitto non distribuisca lo stesso in toto. Avrebbero potuto, cioè, residuare riserve di utili che mai avrebbero potuto godere della Pex, perché mai distribuite (vedi la riserva legale) e che avrebbero inevitabilmente concorso ad aumentare il valore delle azioni della società che le detiene. Ne sarebbe derivata la tassazione di un importo corrispondente a dette riserve in caso di cessione delle azioni in questione per un prezzo che (com’è naturale) ne tenesse conto. Per ovviare all’inconveniente si è ritenuto, dunque, di estendere anche alle plusvalenze derivanti da cessione di partecipazioni il meccanismo dell’esenzione. Questa seconda esenzione (che chiamerò Pex 2), però, è stata accordata alle plusvalenze tout court, indipendentemente dalla provenienza delle stesse. Indipendentemente, cioè, dal loro derivare da riserve di utili non distribuiti, oppure da avviamento, oppure ancora da momentanei apprezzamenti borsistici, o da quant’altro.

Leggi anche:  Dopo la revisione, un'Irpef ancor più complicata

La Pex 2: esenzione delle plusvalenze

La Pex 2 pare, quindi, un po’ troppo ampia rispetto all’affermato puro meccanismo di coordinamento con la Pex 1, e per evitare la doppia imposizione degli utili societari. Non a caso, la Pex 2 è vista con un certo sospetto da tutti i sistemi che l’hanno introdotta, tant’è che ciascuno di essi ha aggiunto qualche limitazione. Si va dalla durata del possesso delle partecipazioni variabile fra i dodici e i ventiquattro mesi, al quantitativo minimo di partecipazioni possedute variabile, perlopiù, fra il 5 e il 25 per cento. Taluni discriminano, infine, in funzione dei redditi conseguiti dalle società le cui azioni potrebbero essere oggetto di Pex 2 (escluse se conseguono prevalentemente passive income).
Anche la Pex 2 nostrana si muove nello stesso solco e porta, com’è ovvio, limitazioni più aderenti alla nostra realtà (e mentalità). Sono escluse le partecipazioni in società immobiliari (ma non se sono quotate); quelle in società domiciliate in paradisi fiscali; quelle detenute per attività di trading e iscritte in bilancio come tali; quelle possedute da meno di dodici mesi (elevati a diciotto col decreto legge 203/2005 in corso di conversione). Nessuna limitazione opera, invece, per l’impresa che realizza la plusvalenza da esentare (ecco perché Ricucci, via Magiste, ha potuto goderne sulle azioni Bnl).
Sostengono taluni che la Pex 2 allarga la base imponibile visto che a fronte dell’intassabilità delle plusvalenze sta l’indeducibilità delle minusvalenze. Questo argomento, tuttavia, è davvero privo di pregio. Le minusvalenze, infatti, possono derivare da svalutazioni o da trasferimenti con realizzo di perdite. Nel primo caso, l’indeducibilità delle svalutazioni trova corrispondenza nell’intassabilità delle plusvalenze (da rivalutazione) iscritte in bilancio. Nulla a che spartire, quindi, neppure concettualmente, con la Pex 2. Nel secondo caso, invece, è sensato collegare l’intassabilità delle plusvalenze realizzate con le minusvalenze altrettanto realizzate. Non vedo, tuttavia, perché la Pex 2 (cioè il binomio intassabilità/indeducibilità) dovrebbe risultare in un ampliamento della base imponibile rispetto al suo opposto (tassabilità/deducibilità).

Ma la dimensione dell’esenzione è, oggi, oggetto di discussione. All’originario 100 per cento del decreto Ires, il Dl 203/2005 ha sostituito il 95 per cento. Emendamenti già approvati lo riducono al 91 per cento nel 2006 e all’84 per cento nel 2007. Queste modifiche normative, a fronte del mantenimento della totale indeducibilità delle minusvalenze, si configurano come meri strumenti, ancorché illogici, di ampliamento della base imponibile. Inoltre, fanno emergere la radicale estraneità della Pex 2 al meccanismo di tassazione del dividendo e pongono (correttamente) il quesito della sua funzionalità rispetto agli obiettivi di politica economica che con essa si vogliono perseguire. Proseguono ancora, i sostenitori della Pex 2 che, anche in caso di sua abrogazione, le imprese italiane potrebbero conseguire risultati analoghi facendo acquisire e gestire le partecipazioni in questione da proprie controllate domiciliate in altri paesi Unione europea dove vige un regime analogo alla Pex 2 (vedi Olanda o Lussemburgo). Queste realizzerebbero plusvalenze, anche su azioni di società italiane, non tassabili in Italia in virtù del relativo trattato contro le doppie imposizioni; godrebbero della locale Pex 2 e potrebbero, poi, rimpatriare il relativo profitto col regime cosiddetto “madre-figlia” con una tassazione limitata al 5 per cento del dividendo.
In questo scenario l’Italia perderebbe due volte: una prima vedendo sparire le holding italiane verso paesi Unione europea più compiacenti; una seconda perdendo quel tanto di base imponibile che si creerebbe, invece, con l’adozione delle (irrazionali) misure previste nel Dl 203. Quest’ultima ricostruzione è quella, purtroppo, più realistica e pericolosa. C’è solo da domandarsi se misure analoghe alla Pex 2 non debbano considerarsi sleali forme di concorrenza fiscale fra paesi Unione europea e invocarne la soppressione (o almeno una più restrittiva applicazione) da parte dei competenti organi comunitari.

Leggi anche:  La Zes unica cambia il credito d'imposta per il Mezzogiorno*

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  La Zes unica cambia il credito d'imposta per il Mezzogiorno*

Precedente

Ferrovie e dintorni

Successivo

I sindacati e le pensioni private

  1. Ludovico Miseso

    Allora professore lei si associa al volgo, perché non le piacciono gli speculatori e quindi la Pex non va bene. Mi sorprende perché da persona colta ed erudita come lei non mi aspetto l’utilizzo di una categoria economica inesistente. Ci sono infatti imprenditori, finanzieri, arbitraggisti, ma gli speculatori chi sarebbero? Quelli che che prendono rischi più nel breve che nel lungo termine, o che sopportano più alea nel risultato? A me sembra che questi soggetti siano preziosi perchè danno molta liquidità al mercato, ammesso che non infrangano la legge (su insider trading e opa negli ultimi casi). Ma tant’è, questo stato vorace e insaziabile, sarebbe capace di tassare al 40% le vincite dei giocatori di roulette se potesse.
    Dovremmo evitare di cadere nella trappola di fare leggi e tasse ad hoc e moralistiche, anche se il povero ricucci e gli imbecilli che lo finanziavano avrebbero adesso un bisogno disperato della deducibilità delle minusvalenze sulle rcs.
    La faccio io una speculazione ora: non è che l’avversione per la Pex, norma semplice ed equa, sia causata dalla diminuzione degli introiti degli studi tributaristi che lucravano enormi commissioni da complesse architetture fiscali esterovestite?
    O lei non sa nulla della lussemburghese Bell che durante il governo D’Alema si comprò l’italiana Telecom?
    La mia conclusione è: beata concorrenza fiscale, anche tra i paesi UE. Cordialmente.

    • La redazione

      “Gentile lettore,

      il suo commento mi attribuisce un’animosità alla quale non mi pare di essere soggetto. Un sistema fiscale, infatti, ed una specifica norma all’interno dello stesso, si valuta innanzitutto per gli obiettivi che si dà e, poi, per l’effettiva capacità tecnica di conseguirli. Nello specifico la Pex, nata in Olanda come reazione al sistema delle holding lussemburghesi
      del 1929, si pose – in quel contesto – l’obiettivo di assecondare il passaggio da economia basata sul connubbio manifatturiero-trasporti ad economia basata sulla filiera finanza-internazionalizzazione-trasporti. Non solo nulla di scandaloso ma “chapeau” per l’intuizione (correvano gli anni ’60). L’olanda, peraltro, ha 13 milioni di abitanti ed un territorio grande quanto il lombardo-veneto.
      Più di recente, l’adozione della Pex da parte della Germania è stata motivata dalla necessità di scongelare le cospicue partecipazioni in società industriali possedute da banche tedesche: partecipazioni che, al di là dell’eccessiva esposizione delle banche, si traduceva in un sostanziale
      freno al mercato delle partecipazioni nelle società industriali di quel paese per il carattere ingombrante che il socio-banca inevitabilmente esercita.
      L’ipotizzata adozione, per il 2007, della Pex da parte della Francia deriva dalla volontà di costruire, tra l’altro, un sistema di tassazione del capital gain che tenga conto della diversità dell’investimento effettuato da persone fisiche rispetto a quello effettuato nell’esercizio di attività imprenditoriali: ma con lo scopo di favorirli entrambi se di medio lungo
      periodo.
      Non mi pronuncio sulla bontà delle scelte in questione nè sulla loro efficacia tecnica. Mi limito a constatare che esse sono state fatte con precisi obiettivi di politica economica. Ma proprio per questo mi chiedo: qual è l’obiettivo che si vuole perseguire con la Pex nostrana? Confesso di non averlo capito. Posso aggiungere che i miei contraddittori (vedi articoli sul Sole 24 Ore dei mesi scorsi di Manzitti, Stevanato, Lupi ) si sono limitati a sostenere che: i) si superavano così i difetti del credito d’imposta su dividendi; ii) si ampliava così la base imponibile eliminando la deduzione delle svalutazioni di partecipazioni e le minusvalenze sulle stesse. Mi pare un pò troppo poco tenendo conto che il messaggio che ne deriva è, invece, dirompente. Il messaggio, infatti, è il seguente: fatto
      pari a 100 il risultato conseguito da due imprese, l’uno frutto di lavoro industriale in senso lato, l’altro di plusvalenze su partecipazioni, nelle tasche dei relativi azionisti persone fisiche nel primo caso entrano 56 euro; nel secondo 83. La questione non è morale: vuol dire che si ritiene che il motore dell’Italia possa diventare la finanza e non più l’industria o
      il turismo o il commercio o i servizi. La convince? A me no. Per questo la Pex non mi piace.

      P.S.
      La ringrazio per l’attenzione prestata alla mia attività
      professionale che, tuttavia, non ha subito diminuzioni di sorta a seguito dell’introduzione della Pex. Quanto alla Bell posso solo dire che non me nesono mai occupato ma che mi risulta se ne sia occupato il prof. Lupi nella fase di montaggio dell’operazione Telecom e lo studio Tremonti nella fase di
      smontaggio della stessa.
      Lieto dell’incontro. Tommaso Di Tanno”

  2. Alessandro Vallese

    Egregio Prof. Di Tanno,
    sono un “neofita” del Diritto Tributario e, come tale, ho potuto beneficiare del Suo contributo sulla tematica delle partecipazioni esenti.
    Premetto che l’impressione ricevuta dalle Sue osservazioni è che il legislatore, ancora una volta, abbia perso l’occasione – in tema di gestione delle finanze domestiche – di predisporre disposizioni volte a soddisfare esigenze fiscali di lungo termine e ad ampio respiro, soffocato invece da problematiche economiche contingenti.
    Fatta questa premessa, che condivido, Le chiedo la Sua opinione sui rischi conseguenti all’eventuale conversione in legge delle modifiche annunciate con il d.l. 203/05:
    1) è plausibile che l’eventule conversione in legge del d.l. 203/05 conduca altresì ad una prossima rivisitazione della norma anti-elusiva di cui all’attuale comma 5 dell’art. 87 Tuir, per esempio escludendo dal beneficio dell’esenzione le cessioni di partecipazioni in società italiane, seppure effettuate direttamente dalla sub-holding residente in uno Stato UE che sia a sua volta controllata da una società residente?
    2) è plausibile che una società di uno Stato UE che controlli una società italiana, anche per mezzo di una stabile organizzazione, adisca invece – in sede di contenzioso innanzi alle Commissioni Tributarie – ovvero attraverso segnalazioni alla Commissione UE, la Corte di Giustizia CE per incompatibilità della normativa italiana rispetto ai vincoli comunitari, in quanto indebitamente limitativa della libera concorrenza?
    La ringrazio sin d’ora per la disponibilità che vorrà accordare alle mie perplessità.
    Con i più cordiali saluti.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén