Una modifica degli studi di settore è senz’altro opportuna. Deve però essere discussa apertamente, coinvolgendo oltre alle categorie l’opinione pubblica specializzata e gli esperti dei diversi settori. Unoperazione che potrà essere messa a punto solo se il prossimo Governo renderà pubblici i dati sull’andamento degli studi di settore dal 1998 al 2004. La discussione sulla riforma di questo fondamentale strumento di politica fiscale, potrà così partire da una base conoscitiva adeguata e condivisa. Il ministro Tremonti ha dichiarato durante l’annuale appuntamento con Telefisco, organizzato da Il Sole 24-ore, che gli studi di settore dovranno essere riformati “partendo dal basso” e ha giustificato questa affermazione con l’assunto secondo cui “quanto guadagna un panettiere di Mantova lo sanno solo a Mantova”. D’altronde, gli studi di settore sono spesso citati anche nei programmi del centrosinistra: ad esempio, in quello dei Ds si dice che dovranno avere “particolare rilevanza e significatività” e si auspica una serie di modifiche. È una ì buona notizia che su questo si apra una riflessione più ampia. Si parla molto di evasione, ma raramente si considera che gli studi di settore rappresentano, da dieci anni a questa parte, il principale strumento di lotta all’evasione cui si è fatto ricorso nel nostro paese. A cosa servono gli studi di settore Alla base degli studi di settore, applicati in misura massiccia dal 1998, c’è l’idea che è possibile, quantomeno per le attività svolte su scala piccola e media, individuare i contribuenti che più probabilmente evadono, confrontando, attraverso tecniche statistiche avanzate, i dati da loro dichiarati, in particolare i ricavi e un insieme di variabili a essi correlate, con quelli medi dichiarati dai contribuenti simili ed economicamente coerenti. L’azione di controllo e di accertamento dovrebbe quindi concentrarsi sui soggetti segnalati dagli studi, cioè quelli con ricavi “incongrui” e quelli con dati economici “incoerenti“. Un contribuente è definito congruo se dichiara ricavi non inferiori a quelli puntuali come determinati dal relativo studio. In caso contrario, il contribuente è incongruo, sebbene esista una soglia di tolleranza (l’intervallo di confidenza). Un contribuente è definito “incoerente” se presenta valori di determinate variabili che risultino molto diversi da quelli dichiarati da un insieme di contribuenti con analoghe caratteristiche, considerato sufficientemente affidabile. È necessaria unoperazione trasparenza Ma è bene chiarire che nessuna seria riforma degli studi di settore potrà essere compiuta dal prossimo Governo senza che prima venga effettuata un’operazione di trasparenza sugli impatti effettivi che gli studi hanno avuto in questi primi anni della loro applicazione. Come già ricordato da Alberto Zanardi, le informazioni ufficiali sono praticamente inesistenti. Questo e vero non solo per i dati relativi alla stima dellevasione e agli effetti specifici dellapplicazione degli studi di settore, ma anche, paradossalmente, per i dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, che vengono rese note solo in forma aggregata e con anni di ritardo: ora siamo fermi alle dichiarazioni del 2001. Eppure, lItalia si contraddistingue per essere uno dei paesi al mondo in cui più ampia è la trasmissione telematica delle dichiarazioni, cosa che renderebbe possibile la costruzione di banche dati, accessibili agli studiosi, di grande ricchezza e interesse. (1) Fonte Il Sole 24ore del 27 ottobre 2004.
A oggi risultano in vigore circa 206 studi che coinvolgono oltre 4 milioni di contribuenti, tra società (di capitali e di persone), imprese individuali e professionisti, ma non vi sono dati aggiornati e ufficiali sulla quota di contribuenti “incongrui” e “incoerenti”.
Molti sono i rilievi critici formulati rispetto agli studi, sia per la loro elaborazione sia per il loro utilizzo che dovrebbe essere quello di guidare gli accertamenti e non di introdurre una forma generalizzata di tassazione a forfait.
Le proposte di riforma cui si è fatto cenno sono tutte meritorie di approfondimenti. È infatti vero che negli studi oggi la componente territoriale ha un peso molto ridotto e che potrebbe essere aumentato, seppure evitando forme di federalismo fiscale surrettizio e poco trasparente. È anche necessario superare definitivamente la diversità nei regimi di accertamento riservati a soggetti che adottino un diverso tipo di contabilità, ordinaria o semplificata. La legge finanziaria per il 2005 si è già mossa in questa direzione e dalle novità introdotte ci si attendeva un incremento di gettito (mancano però dati certi per potere verificare in quale misura tale obiettivo sia stato effettivamente raggiunto). Tuttavia, è ancora in vigore la distinzione tra società con contabilità semplice, che, se incongrue, possono subire un accertamento basato sugli studi, e società con contabilità ordinaria (per obbligo o per opzione) che possono subire un accertamento solo se risultano incongrue in due su tre anni consecutivi.
Più in generale, va preso atto che, a fronte della frammentazione del mondo produttivo italiano, sembra emergere una consapevolezza diffusa che una politica di contrasto allevasione non potrà certo, anche in futuro, prescindere da questo strumento, su cui molto si è investito negli ultimi dieci anni e che riguarda una platea di contribuenti su cui levasione sembra essere particolarmente concentrata.
Per quanto riguarda specificamente gli studi di settore, nella più classica (e deleteria) tradizione italiana sono filtrati solo alcuni dati diffusi da fonti giornalistiche oppure da pochi eletti che hanno avuto la possibilità di accedere alle fonti. Da questi dati, che arrivano peraltro fino al 2001, si evincerebbe che nel periodo tra il 1998 e il 2001 c’è stato un forte incremento dei contribuenti “congrui” (dal 50 al 63 per cento). Si tratta di un fenomeno che potrebbe addirittura essere spiegato in due modi contrapposti, cioè come effetto di una notevole emersione, oppure come conseguenza di una progressiva perdita di efficienza degli studi. Quest’ultima tesi sembrerebbe essere la più plausibile, a maggior ragione se si considera che laumento dei soggetti congrui non sembra essersi accompagnato a un aumento dei redditi e dei ricavi dichiarati. Per esempio, durante la discussione della legge finanziaria per il 2005 è emerso che nel periodo tra il 1998 e il 2001 i ricavi dichiarati dai contribuenti interessati dai primi quarantacinque studi di settore sono sì aumentati, ma di circa la metà rispetto allincremento della produzione stimato dallIstat per gli stessi settori sulla base dei dati di contabilità nazionale (7,3 per cento contro 14,5 per cento). (1)
In conclusione, non vi è dubbio che gli studi richiedano una serie di modifiche, anche altre ben più radicali di quelle qui richiamate. Data la complessità e l’importanza di questo strumento di accertamento, è poi sicuramente opportuno che ogni modifica sia discussa apertamente, coinvolgendo, oltre alle categorie, l’opinione pubblica specializzata e gli esperti dei diversi settori. Ma questa operazione potrà essere messa a punto solo seil prossimo Governo renderà pubblici, con urgenza, i dati concernenti l’andamento degli studi di settore dal 1998 al 2004. La discussione sulla riforma di questo fondamentale strumento di politica fiscale, potrà così partire da una base conoscitiva adeguata e condivisa. Lobiettivo meriterebbe di rientrare nellagenda dei primi 100 giorni.
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Fabrizio Francescone
Gentile Santoro,
mi complimento per la sua disamina sugli studi di settore: è riuscito a spiegare in poche righe il sistema e gli obiettivi che caratterizzano questo complesso strumento. Mi permetto solo di sottolineare un aspetto: gli studi di settore sono, secondo me, principalmente un metodo alternativo di accertamento a disposizione degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, che ricorrono massicciamente a tale strumento. E lo fanno sia aprendo direttamente proposte di accertamento con adesione con i contribuenti non adeguati, che sottoponendo a verifiche fiscali quelli che non risultano congrui e coerenti. Grazie per il suo intervento.