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Trasporto pubblico locale: si può spendere meno

Dopo la toccata (e fuga) nel settore dei taxi, verrà il turno del trasporto collettivo locale? A settembre, in occasione della riunione della cabina di regia sui trasporti, potremo verificare la volontà del governo di procedere sulla strada delle liberalizzazioni e della riduzione della spesa pubblica con l’apertura al mercato di un comparto economico che presenta un elevato livello di inefficienza.

Nella prima settimana di settembre si riunirà la cabina di regia sul sistema dei trasporti in Italia istituita lo scorso 14 luglio: all’ordine del giorno le problematiche connesse al trasporto pubblico locale. L’incontro potrebbe essere una buona occasione per verificare la volontà del Governo di procedere a 360° sulla strada delle liberalizzazioni. Nello scorso mese di luglio il ministro Bersani intervistato dall’Espresso disse: “Se riusciamo a dare come governo il senso che si può guidare il cambiamento, tante altre questioni possono essere affrontate. Riforme sui punti generatori della spesa pubblica”.

L’inefficienza del settore in Italia

Non vi è dubbio che, nel settore dei servizi pubblici locali, il maggior “generatore di spesa pubblica” sia quello del trasporto pubblico locale. Il divario fra costi di produzione e ricavi commerciali si attesta infatti intorno ai 4 miliardi di euro all’anno (esclusi i servizi su ferro: Trenitalia ha ricevuto nel 2004 sussidi dalle Regioni per un ammontare pari a 1,2 miliardi di euro). Per comprendere il livello di inefficienza del settore, può essere utile porre a confronto un’azienda italiana, ATAF di Firenze, ed una britannica, First Mainline di Sheffield. Le due aziende operano in aree urbane di dimensioni analoghe, circa 600.000 abitanti, con un organico simile intorno ai 1.300 dipendenti, e con condizioni di traffico paragonabili: la velocità commerciale dei mezzi si attesta in entrambi i casi intorno ai 16 km/h.
Il costo totale di produzione dei servizi di ATAF è pari a circa due volte quello di First Mainline mentre i ricavi commerciali dell’azienda di Sheffield sono superiori a quelli dell’azienda fiorentina in misura pari al 40%.
L’entità complessiva dei sussidi e del deficit annuale di ATAF è pari a circa 45 milioni di Euro a fronte degli 8 milioni di First Mainline.
La differenza dei costi è da ricondursi sia ad una maggiore efficienza tecnica dell’azienda britannica – 70mila km percorsi in media da ogni veicolo contro 40mila – che ad una più elevata efficienza del lavoro: a fronte degli oltre 31.000 km per addetto al movimento di First Mainline si ha un valore nell’intorno di 20.000 per ATAF. Analoghi divari di produttività si riscontrano nell’ambito dell’amministrazione e della manutenzione dei mezzi.
Assai elevata è, inoltre, la differenza del costo del lavoro: per l’azienda inglese il costo unitario del personale si attesta intorno ai 20mila Euro analogo a quello di un operaio italiano e pari a poco più della metà di quello di ATAF (37mila Euro).
Il costo del lavoro per unità di prodotto risulta quindi in Italia pari a tre volte quello del Regno Unito. Tale proporzione sussiste anche per il costo unitario totale di produzione del servizio pari a circa 3,8 Euro per bus-km a Firenze ed a 1,27 a Sheffield.
E’ come se un’azienda italiana producesse una vettura di media cilindrata con un costo di 60mila euro contro i 20mila di una concorrente britannica: non è difficile immaginare quali sarebbero le conseguenze per tale impresa.
Quali le ragioni di tale eclatante divario? Pur considerato il maggiore cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro nel nostro Paese, non sembra esservi dubbio che la differenza di efficienza fra le aziende sia da ricondursi principalmente al fatto che in Gran Bretagna la liberalizzazione del settore è riuscita mentre nel nostro Paese è sostanzialmente fallita. A seguito della deregulation in Gran Bretagna i costi di produzione sono stati quasi dimezzati; da noi, tranne rare eccezioni, i costi sono diminuiti di pochi punti percentuali.
Gli Enti locali ai quali, quasi un decennio fa, sono state trasferite le competenze in materia di trasporto pubblico locale sembrano finora aver avuto più a cuore le ragioni dei produttori che quelle dei consumatori–contribuenti (di questi ultimi in particolare: il prezzo pagato dagli utenti del tpl in Italia è tra i più contenuti in Europa). Rarissime le gare per l’affidamento dei servizi e nessuna vera privatizzazione delle aziende municipalizzate.
Quali azioni possono oggi essere messe in campo per superare l’attuale situazione di stallo?
Da un lato: starve the beast. Ridurre progressivamente o quantomeno congelare per un lungo arco di tempo, i trasferimenti alle Regioni obbligandole così, qualora vogliano perseverare nella “tutela dei produttori”, ad accrescere il livello di tassazione locale (nel caso di Firenze, i trasferimenti all’azienda di trasporto pubblico locale sono pari a circa un terzo del gettito ICI).
Dall’altro si potrebbe immaginare, come accaduto nel Regno Unito all’infuori di Londra, di rimuovere le barriere legali all’offerta di servizi di trasporto collettivo locale passando da un regime di competizione per il mercato ad uno di competizione nel mercato (un primo, timido, passo in tale direzione è del resto già contenuto nel decreto Bersani).
Occorre sottolineare al riguardo che, se dal punto di vista dell’efficienza la competizione nel mercato ha dato esiti migliori rispetto ai casi di mantenimento di una pianificazione unitaria ed affidamento dei servizi tramite gara, quest’ultima opzione si è mostrata preferibile in termini di domanda soddisfatta. A differenza di quanto accaduto a Londra ed in altre città del nord Europa, nelle città inglesi ove è stata posta in essere la deregulation è infatti proseguita dopo la riforma la riduzione del numero di utenti del trasporto collettivo.
Peraltro, tale evoluzione non ha comportato significative conseguenze negative né sotto il profilo dell’inquinamento atmosferico (la qualità dell’aria nelle aree metropolitane inglesi ha continuato a migliorare rapidamente ed è oggi conforme agli standard UE), né sotto il profilo della sinistrosità stradale (il numero di morti e di feriti gravi è stato dimezzato nel decennio successivo alla riforma del tpl pur in presenza di una forte crescita della mobilità privata ed è largamente inferiore a quello che si registra nei maggiori paesi europei) e neppure in termini di tempi di viaggio che, grazie allo spostamento di una quota di domanda dal trasporto collettivo a quello individuale, sono complessivamente diminuiti.
Per poter coagulare il necessario appoggio della popolazione, la politica sopra delineata dovrebbe essere accompagnata da una migliore informazione dei cittadini. Oggi, infatti, la stragrande maggioranza della popolazione è, non casualmente, inconsapevole del livello di inefficienza del settore e dell’entità di risorse pubbliche assorbite dallo stesso e tende a sovrastimare i benefici conseguibili grazie ad una ripartizione modale più favorevole al trasporto collettivo, argomentazione quest’ultima costantemente ripetuta dai produttori per acquisire ulteriori finanziamenti pubblici.

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20 commenti

  1. vito ayroldi

    “A differenza di quanto accaduto a Londra ed in altre città del nord Europa, nelle città inglesi ove è stata posta in essere la deregulation è infatti proseguita dopo la riforma la riduzione del numero di utenti del trasporto collettivo”
    Anche solo questa sarebbe, mi pare, una ragione sufficente a non perseguire la strada da lei sostenuta, vista la congestione da traffico privato nelle nostre aree metrolpolitane.

  2. carlo iannello

    Gentile Autore,
    ho letto con vivo interesse il Suo articolo sul trasporto pubblico locale. Condivido gli stimoli a introdurre maggiore efficienza nella gestione delle imprese di tpl. La tesi di fondo sostenuta tutttavia non mi convince: il settore dei servizi pubblici di trasporto locale non può essere né deregolamentato, né può essere aperto alla concorrenza nel mercato. Da un punto di vista teorico si potrebbe forse osservare che ci troviamo in un settore dove ha ancora valore la nozione di monopolio naturale (i casi in cui sarebbe possibile la concorrneza fra più imprese per le medesime tratte sarebbero limitati). Inoltre, la cocnorrenza nel mercato determinerebbe il cd. effetto di cream skimming, ossia la concentrazione delle imprese nelle tratte economicamente remunetarive e l’abbandono di quelle non remunerative. Se le politiche pubbliche devono anche porsi come obiettivo la della tutela dei cittadini svantaggiati, come quelli che abitano in aree meno sviluppate, con minore densità di popolazione, e in cui non sarebbe economicammente conveniente per un’impresa privata la garanzia di corse frequenti e di qualità, la soluzione sarebbe una sola: porre a carico del settore pubblico le tratte non remunerative. Ma questo contraddirebbe la motivazione di fondo di queste politiche, che si pongono come obiettivo la diminuzione del costo posto a carico della colletività. In alternativa, si potrebbe decidere di disenteressarsi di tali tratte ed abbandonare i cittadini alla loro capacità di auotorganizzazione; ma quali sarebbero gli effetti sociali di una simile scelta?
    Distinti saluti,
    Carlo Iannello

    • La redazione

      Gentile sig. Iannello,
      provo a rispondere alle sue osservazioni “teoriche” evidenziando alcuni elementi empirici che hanno caratterizzato l’evoluzione del trasporto collettivo locale in Gran Bretagna nel periodo successivo alla riforma.
      1) Quale che sia il livello di concorrenza nel settore, a seguito della deregulation l’efficienza della produzione è drasticamente aumentata. In particolare, nell’ambito delle maggiori aree metropolitane dove operava in precedenza un monopolista pubblico, i costi di produzione sono stati pressoché dimezzati.
      2) La deregulation non ha comportato tagli dell’offerta. Al contrario. Non sono state registrate significative variazioni sotto il profilo della “distribuzione territoriale” dei servizi. La variazione più significativa ha riguardato le aree rurali dove la quota di persone che abitano a meno di 6 minuti dalla più vicina fermata è cresciuta dal 74% al 77% tra il 1986 al 1998. Per quanto concerne la frequenza dei servizi, la percentuale di fermate con meno di un servizio per ora è diminuita dal 14% al 10% mentre è cresciuta dal 28% al 34% la quota di fermate con frequenza di passaggio maggiore di un bus ogni 15 minuti.
      3) Per quanto concerne la “tutela dei cittadini svantaggiati”, come ha scritto Marco Ponti: “La gran parte degli utenti [del trasporto pubblico] sono oggi studenti, anziani, casalinghe, impiegati nelle aree centrali delle città distolti dall’uso dell’auto dalla congestione. Queste categorie hanno redditi molto articolati al proprio interno; e certamente non contraddistinguono più le categorie “svantaggiate” sul piano strettamente economico. Inoltre sono molto frequenti effetti perversi della struttura fiscale del settore: basse tariffe pubbliche e alta pressione fiscale sull’automobile. Le categorie operaie, o del terziario meno remunerato, risiedono e lavorano in aree periferiche ai grandi centri; si muovono dunque non sulle linee radiali, ben servite (e servibili) dal trasporto pubblico, ma lungo percorsi tangenziali periferici, in cui l’uso dell’auto propria non ha alternative. Questi automobilisti di fatto sussidiano, con le loro tasse, i “commuters” che si recano nelle aree centrali, dove le retribuzioni (o i consumi) sono di livello più elevato”. Si potrebbe aggiungere che gli stessi blue collars finanziano con le tasse sui loro stipendi le generose retribuzioni dei dipendenti del settore del trasporto collettivo.
      4) L’attuale organizzazione del trasporto collettivo locale in Gran Bretagna prevede l’affidamento tramite gara con contribuzione a carico degli enti locali di alcuni servizi in area a domanda debole non remunerativi per le aziende (circa il 15% dell’offerta complessiva); sono inoltre previsti rimborsi alle aziende per la vendita di titoli di viaggio a prezzo ridotto per alcune categorie di utenti: l’applicazione di tariffe scontate per gli anziani e per gli studenti è garantita rispettivamente dal 97% e dal 48% delle autorità locali; prezzi ridotti per gli studenti sono inoltre praticati abitualmente dalle aziende su base commerciale. Hanno infine diritto all’acquisto di titoli di viaggio a prezzo ridotto tutti i disabili (circa 1,5 milioni di persone).
      5) Se i costi di produzione dell’azienda che opera nella città di Firenze fossero allineati a quelli della azienda di Sheffield, il deficit verrebbe azzerato senza ridurre di un solo chilometro il servizio prodotto e senza aumentare di un centesimo le tariffe praticate (e, ad esempio, riducendo di un terzo l’ICI pagata dai fiorentini).

  3. Gianni Cottogni

    “Peraltro, tale evoluzione non ha comportato significative conseguenze negative…”

    Che il passaggio del trasporto dal pubblico al privato possa avere ricadute positive sull’inquinamento, sugli incidenti e sui tempi di percorrenza mi sembra piuttosto improbabile. Se tali effetti sono stati riscontrati nelle realtà prese in esame, sono certo che il tutto sia dovuto a motivazioni altre (e.g.: modifiche della viabilità, leggi sulle emissioni) che l’articolo non considera.

    • La redazione

      Gentile sig. Cottogni,
      per quanto concerne l’inquinamento atmosferico, l’esperienza inglese mostra come la quota parte di domanda soddisfatta dal trasporto collettivo sia un fattore scarsamente rilevante ai fini dell’evoluzione della qualità dell’aria. Il fattore largamente prevalente risulta infatti essere il progresso tecnologico. Sebbene la maggior parte della popolazione sia convinta del contrario, la qualità dell’aria nelle nostre città è oggi nettamente migliore rispetto al passato grazie ai miglioramenti intervenuti sia nel campo dei trasporti che in quello industriale, della produzione di energia e del riscaldamento degli edifici.
      Analogamente, per quanto riguarda la sicurezza stradale, l’evoluzione nel lungo periodo vede come fattori più rilevanti il miglioramento tecnologico dei veicoli ed il controllo e la repressione delle violazioni del codice della strada. In Gran Bretagna, negli ultimi cinquanta anni, la pericolosità del trasporto su strada, misurata come rapporto fra n° di morti (o feriti gravi) e traffico complessivo, si è ridotta del 90%. Il numero di decessi è passato da un massimo di circa 8mila del 1965 a 3.200 nel 2004. Non si riscontrano risultati migliori nei Paesi ove il trasporto pubblico soddisfa una quota più elevata di domanda.

      Infine, con riferimento al tempo medio di percorrenza, all’interno delle maggiori aree urbane della Gran Bretagna nel decennio successivo alla deregulation, lo spostamento di una quota di domanda dal modo di trasporto collettivo, più lento, a quello individuale, più veloce, ha determinato una riduzione del tempo medio degli spostamenti per lavoro (da 21,3 a 20,1 minuti) pur in presenza di un aumento del tempo di percorrenza in auto.

  4. beppe gamba

    Dati e analisi molto interessanti. Sarebbe anche utile conoscere, per completezza, il livello di prezzo della corsa pagata dagli utenti inglesi e i dati sul numero di passeggeri trasportati, ovviamente parametrati alle diverse condizioni. Infatti, se indubbiamente il trasporto pubbico locale italiano presenta ampi spazi di “ottimizzazione” dei costi, all’utente e all’amministratore pubblico interessa (dovrebbe interessare) anche la qualità e quantità dell’offerta.75852

    • La redazione

      Gentile sig. Gamba,
      facendo riferimento alle due aziende messe a confronto nell’articolo, il prezzo medio pagato da un utente di First Mainline risulta pari a circa il doppio di quello sostenuto da un cliente di ATAF. La domanda soddisfatta risultava pari (dati 1998) a 289 milioni di passeggeri-km per l’azienda italiana ed a 210 per quella inglese.
      E’ possibile, almeno in prima approssimazione, attribuire alla differenza di livello tariffario il divario di utenza fra le due aziende: ipotizzando un’elasticità della domanda pari a –0,3 ed un raddoppio del ricavo medio per passeggero-km, il numero di passeggeri-km di ATAF si ridurrebbe da 289 a 206 milioni.

  5. nicola maiello

    Interessante l’articolo dell’autore. Il sistema di TPL in Italia per potersi esprimere compiutamente sul libero mercato attraendo anche investimenti privati andrebbe innanzitutto omogeneizzato nella parte (IMPORTANTE) che riguarda il trasferimento dei contributi pubblici da Regione alle aziende concessionarie di servizi. Si verifica l’anomala situazione in Italia che ogni regione (non si comprende in base a quali meccanismi) eroga per i servizi di t.p.l. su gomma un contributo vettura/km diverso. Naturalmente come in tante altre cose le Regioni del Sud sono più avvantaggiate in quanto fruiscono di contributi più elevati e in cambio presentano i bilanci più in rosso. Allora il vero problema da affrontare sarebbe quello di normalizzare tutte le sperequazioni esistenti, liberando le aziende pubbliche dalla proprietà (spesso ci troviamo ad una profonda commistione nel senso che l’Ente regolatore (Ente locale) è anche l’unico azionista delle aziende per cui immaginiamo se le lasciassero fallire ancorchè in presenza di una gestione scadente. Liberalizzare significa anche liberare dal consociativismo politico-sindacale le aziende pubbliche di T.P.L. che, nella maggior parte dei casi, rappresentano contenitori di consenso elettorale. Pertanto le aziende pubbliche di T.P.L. andrebbero amministrate seriamente anzichè gestite per altri fini.

  6. Ezio Maestri

    Credo che sarebbe salutare per l’intero sistema del TPL procedere ad una de-opacizzazione dei costi sommersi e dei correlati espedienti (para)fiscali utilizzati per fare quadrare i conti. Si tratta in sostanza di rompere il circolo vizioso dei “benefici concentrati (per i produttori) e costi diffusi (per i consumatori/taxpayers)” imperniato intorno alla tariffazone politica (dumping politico). La via tecnicamente praticabile – ma politicamente ardua – dovrebbe essere quella di una discussione pubblica sulla “natura” del servizio: è il TPL un “public good” o un “comercial good” …? Se come credo prevalesse la tesi che si tratta morfologicamente di un “publi good” il problema dovrebbe diventare quello del rparto esplicito tra tariffa e fiscalità. Quest’ultima dovrebbe poi condurre (e questa considerazione dovrebbe valere come principio generale per l’intero modo dei “servizi pubblici” …) ad una “fiscalità di scopo” che renda esplicito il “costo” ed abbia la stessa efficeinza informativa del sistema dei prezzi.

  7. Carlo

    Dal confronto fra i costi dell’azienda di trasporti pubblici di Sheffield e quella di Firenze (e non oso immaginare cosa accadrebbe se si prendesse ad esempio per l’Italia qualche città con trasporti pubblici meno efficienti come Roma!), emerge che le differenze di competitività nascono soprattutto dal differenziale nel costo del lavoro e nei ricavi. Quest’ultima va addebitata in parte al maggior costo dei biglietti in Inghilterra e in parte a una probabile minore incidenza di viaggiatori che non pagano, dato che in Inghilterra è l’autista stesso a vendere i biglietti e a controllare che i passeggeri ne siano muniti.
    Se è facile identificare le cause la soluzione del problema può rivelarsi difficilissima. Si tratta infatti di imporre ai dipendenti delle società di tpl di lavorare di più per stipendi più bassi, aggiungendo magari all’attività di guida anche quella di vendita e controllo dei biglietti. Un’operazione del genere sarebbe benemerita dal punto di vista dell’equità sociale, andando a ridurre i privilegi che una categoria di lavoratori è riuscita ad accumulare a spese dell’erario (e quindi di tutti i cittadini) grazie alla forte sindacalizzazione e al potere di ricatto di cui gode rispetto alla mobilità nelle città. Tuttavia rischia di essere molto difficile in un Paese dove i governi sono da sempre – e oggi più che mai – ostaggio di precarie maggioranze parlamentari, e dove anche le autorità locali, sebbene rafforzate dalle riforme istituzionali degli ultimi decenni, non hanno mai trovato il coraggio di far prevalere l’interesse generale contro quello delle minoranze organizzate.
    Un passo avanti nella giusta direzione potrebbe partire da un’operazione trasparenza, ovvero cominciare ad informare i cittadini su che quota della loro ici viene devoluta a finanziare il tpl.

  8. alias

    Buongiorno,
    da anni sono pendolare in una città del nord, purtroppo malservita e cara come molte altre, che avrebbe tutte le caratteristiche per integrare e sviluppare i servizi di trasporto pubblico (per forza, le auto non circolano! indovinato??)
    Eppure, da noi NON si può acquistare, nel 2006, un unico biglietto per percorso urbano, chilometrico, e viaggiare con quello sia sulla rete ferroviaria locale sia su bus e su natanti; da sempre, chi abita a 10-15 km. fuori dal centro storico veneziano deve munirsi di un abbonamento Trenitalia + un altro per i servizi di navigazione e bus (ACTIV).
    Da anni, si parla di fare vie d’accesso alternative alla città (sostanzialmente, natanti di collegamento con Mestre), e da un paio di secoli c’è un unico ponte viario translagunare (costruito dagli austriaci, e sovraccaricato dagli italiani).
    Da anni, chi vuole venire a Venezia in bicicletta deve fare percorsi degni dei più creativi e scavvezzacolli “parcours,, parigini (compresa l’arrampicata sopra guard-rail che improvvisamente metton fine alle piste ciclabili, l’attraversamento di rotaie transitate da treni merci, ecc.).
    Ora, è in costruzione avanzata il cosiddetto Sistema Ferroviario Metropolitano Regionale (che acronimi importanti sappiamo inventare!); speriamo di non scoprire, domani, che il SFMR non è integrato con gli altri mezzi di trasporto, e allora occorrerà farsi un terzo abbonamento…
    O farsi una ragione al pessimismo …

  9. Giuliano Sparacino

    E’ davvero corretto attribuire la scarsa efficienza delle aziende di TPL principalmente all’insuccesso del processo di liberalizzazione del settore? Anche supponendo che i processi di deregolamentazione e liberalizzazione avviati con il Decreto Legislativo 422/97 siano portati a compimento, condizione necessaria per raggiungere i livelli di efficienza delle best practice a livello europeo è che i soggetti che saranno chiamati a gestire il cambiamento, siano essi grandi accentratori alla francese o titolari di tronchi della rete alla londinese, abbiano la facoltà di disporre pienamente degli strumenti indispensabili per il governo dell’efficienza:vale a dire gestione dell’occupazione e leva tariffaria.
    L’applicazione del CCNL aggravato dai contratti integrativi aziendali unitamente alle forti pressioni sindacali che rendono vano ogni tentativo di regolamentazione del diritto allo sciopero ed impongono al nuovo entrante la c.d. clausola sociale, di fatto annullano una delle maggiori opportunità dei processi di gara: ristrutturazioni aziendali che riducano l’attuale ed eccessivo peso del costo del personale sui costi totali di produzione.
    La fissazione delle tariffe a livello politico e non tramite un’apposita Autorità (come avviene per l’energia) subordina l’aggiornamento tariffario al consenso pubblico più che alle effettive esigenze di copertura dei costi delle aziende. Anche in questo caso, la ridotta capacità di movimento delle aziende rischia di compromettere i potenziali benefici di un processo di liberalizzazione.
    Concludendo, prima di invocare il processo di liberalizzazione come elemento risolutivo sarebbe necessario verificare un insieme di importanti condizioni in mancanza delle quali sarebbe davvero arduo imitare i buoni risultati di quelle realtà che di questi processi sono stati i precursori.

    • La redazione

      Gentile Sig. Sparacino,
      le sue osservazioni sono condivisibili. Il vero problema non sta tanto nella riforma quanto nelle “condizioni al contorno”.
      Peraltro, dalla lettura dell’art. 26 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 (http://www.filodiritto.com/diritto/pubblico/lavoro/RD148-1931.htm) cui il D.lgs.422/97 rimanda nel caso di trasferimento di un servizio ad una nuova impresa non sembrerebbe evincersi l’impossibilità di modifiche contrattuali e di riduzione del personale.
      Una soppressione di tale previsione normativa sarebbe in ogni caso – come scrive in un altro commento il sig. Carlo – “benemerita dal punto di vista dell’equità sociale, andando a ridurre i privilegi che una categoria di lavoratori è riuscita ad accumulare a spese dell’erario (e quindi di tutti i cittadini)”.

  10. Paolo Pezzuoli

    Concordo con quanto da Lei espresso, fermo restando che una semplice liberalizzazione, senza altri interventi, non darebbe grandi risultati. Oltre alle precise osservazioni del sig. Sparacino in merito ai costi del lavoro ed alle tariffe, vorrei aggiungere che la velocità commerciale, soprattutto per i servizi urbani, è un fattore determinante per i costi: infatti l’autista del bus fermo in mezzo al traffico va pagato ugualmente! Più semplicemente, basse velocità commerciali comportano, per garantire la medesima frequenza del servizio, un maggior numero di veicoli in circolazione contemporanea; ed inoltre scoraggiano la clientela, offrendo un servizio peggiore. Le basse velocità dipendono dalla situazione viaria e del traffico, che devono essere oggetto di attenti e precisi interventi, anche impopolari: laddove non c’è spazio, occorrerà limitare il traffico privato. In ogni caso l’esperienza dimostra che la limitazione del traffico privato è essenziale per rilanciare il trasporto pubblico. Vorrei infine aggiungere che nel settore dei trasporti occorrono scelte decise. A Londra, molti anni fa, furono smantellate tutte le linee tranviarie elettriche per dare spazio agli autobus: forse non fu la scelta migliore, fu certamente una scelta forte (chi non conosce i bus di Londra?) che comunque ha funzionato. Una ipotesi radicale potrebbe anche essere quella (certamente non idonea al nostro paese) di affidarsi esclusivamente o quasi al traffico privato: questa mia affermazione sembra, ed è, provocatoria, ma attenzione: in assenza di altri significativi interventi rischiamo ormai di arrivarci non per scelta ma, come spesso accade, per incapacità, con risultati ancora più disastrosi. Basta fare il confronto con gli altri stati europei per vedere che stiamo andando su una brutta china.

    • La redazione

      Gentile Sig. Pezzuoli,

      il trasporto collettivo locale svolge, all’interno delle aree urbane di medie e grandi dimensioni, un ruolo insostituibile per una limitata quota di spostamenti: quelli diretti verso le aree più centrali della città. Semplicemente non si può andare tutti in centro con l’auto: non ci si sta. E, nelle zone di particolare pregio estetico è preferibile, almeno nell’opinione di chi scrive, che le auto non ci siano. Ma, tale ruolo essenziale potrebbe essere svolto in assenza o con sussidi pubblici drasticamente ridotti rispetto ad oggi se la produzione fosse efficiente (se i costi del tpl in Italia fossero ridotti ad un terzo rispetto a quelli attuali a livello di quelli britannici all’infuori di Londra, si accrescerebbe enormemente la quota di servizi profittevoli).

  11. Filippo

    Premettendo di non essere preparato riguardo l’argomento mi limito a porre alcune domande: (a) si é disposti per avere un buon servizio pubblico come quello che ho sperimentato in Brighton (uk) a pagare 1.50 pound (2.25€) per un singolo biglietto e 2.60 pounds (3.90€) per un biglietto giornaliero?
    (b) si ipotizzano sempre tagli rispetto ai salari dei lavoratori, ma non esistono altre soluzioni percorribili? (c) non vi é la possibilitá di differenziare le tariffe a seconda del reddito? (d) come mai anche in situazioni di deregolamentazione il risultato che permane é quello che la periferia resta isolata e mal servita? É la deregolamentazione di un quasi monopolio naturale é veramente questa panacea?
    grazie
    cordiali saluti

  12. Marcello Marino

    Del contributo di Ramella provo a commentare solo alcuni punti:
    • Affamare la bestia sarebbe una buona idea se esistesse ancora il Fondo Nazionale Trasporti e le Regioni traessero dallo Stato il finanziamento dei servizi erogati. La realtà è che, pur esistendo in teoria venti differenti sistemi regionali, si sono avuti negli anni comportamenti “conformistici” senza alcuna sostanziale innovazione neanche tra le Regioni più grandi ed innovative.
    • Sotto il profilo dell’efficienza gestionale i dati forniti dall’autore sono assolutamente eloquenti e, al tempo stesso, coerenti con la realtà che quotidianamente vivono gli addetti del settore. Le possibili proposte per favorire il perseguimento di livelli di efficienza più elevati sono già disponibili sul mercato delle idee e delle esperienze e tra queste:
    1. Privatizzare completamente i rapporti di lavoro rimuovendo l’applicazione del R.D. 148/31 ed istituendo strumenti di ammortizzazione e supporto alla riconversione industriale del settore.
    2. Intervenire sui meccanismi di sussidio agganciandone la misura – almeno parzialmente – alle performance in termini di dimensione dell’utenza soddisfatta.
    3. Affidare buona parte della progettazione dei servizi alle aziende lasciando all’ente pubblico il compito di definire, controllare ed aggiornare i vincoli di progettazione.
    4. Stabilire l’assoluta incompatibilità tra ruolo di stazione appaltante e ruolo di azionista (anche di minoranza) dei soggetti candidati alla gestione.
    • Infine, ciò che mi sembra uno degli aspetti più interessanti del contributo, la questione delle informazioni. Il TPL presenta un’assoluta incoerenza tra la dimensione di risorse impiegate e la qualità delle informazioni e dei dati relativi ai servizi erogati: il che non rileva solo sotto il profilo della tutela degli utenti (tema assolutamente centrale) ma anche in rapporto alla bassa capacità dei regolatori di governare il proprio rapporto con i soggetti regolati.

  13. Riccardo Magriotis

    L’esempio illustrato nell’articolo manca a parer mio di alcune considerazioni fondamentali.
    Chi si sia recato in Gran Bretagna negli ultimi anni potrà essersi reso conto di alcuni aspetti non trascurabili:
    – i tpl hanno costi per l’utente elevatissimi, come sottilineato da altri commentatori
    – secondo chi tali trasporti li utilizza cioè i cittadini inglesi la qualità e l’efficienza del servizio sono drasticamente diminuite con la privatizzazione; si noti infatti che i tpl inglesi quando erano sotto controllo pubblico funzionavano egregiamente a differenza di quelli italiani
    – i lavoratori inglesi di tale settore sono pagati pochissimo e sono tra le categorie sociali più disagiate
    – le città inglesi di media e piccola dimensione hanno una struttura urbanistica e del traffico tali da poter sopportare una molta maggiore incidenza di traffico privato.

    • La redazione

      Gentile Sig. Magriotis,
      con riferimento alle Sue osservazioni vorrei sottolineare che:
      1) Il costo del tpl per l’utente nelle aree metropolitane del Regno Unito è pari a circa il doppio di quello che si registra in Italia ed è analogo a quello delle aree urbane tedesche. Il problema è: sono “elevatissimi” i costi per gli inglesi (e per i tedeschi) o “bassissimi” quelli per gli italiani?
      2) I lavoratori inglesi del settore, a differenza di quelli italiani e degli altri Paesi dell’Europa continentale, non godono di particolari privilegi (ottenuti a scapito dei contribuenti) ed il costo medio del lavoro è pressoché identico a quello degli operai in Italia.
      3) Due degli elementi fondamentali della qualità dell’offerta sono la frequenza e l’età media dei mezzi impiegati. Nel caso delle due aziende prese in esame nell’articolo, per entrambi i parametri, il confronto risulta favorevole alla società inglese
      Ponendo a confronto la variazione della domanda nelle aree soggette a deregulation nel periodo successivo con quello precedente la riforma si può verificare che, a fronte di una riduzione media annua del numero di passeggeri pari a 193 milioni fra il 1970 ed il 1984, si è registrata una diminuzione di 109 milioni di viaggiatori fra l’86 ed il ’99. Considerata la forte crescita delle tariffe nel periodo successivo alla deregulation sembra alquanto improbabile che vi sia stato un peggioramento della qualità dei servizi.
      4) La riduzione del tempo medio di spostamento conseguente allo spostamento di una quota di domanda dal trasporto collettivo a quello individuale citata nell’articolo fa riferimento alle aree metropolitane con più di 250mila abitanti.

  14. Roberto Staiano

    Angelo Damiani aveva solo 35 anni quando ha deciso di togliersi la vita, Era nato il 27 giugno del 1971 e dal 1999 lavorava come autista per Trambus spa a Roma.
    Da tempo però era in malattia e rischiava di vedersi dimezzato lo stipendio. Perché c’è una strana legge in quest’azienda romana: dopo sei mesi di malattia, 180 giorni (Angelo ne aveva già 208) nell’arco di 42 mesi, la tua paga diventa più leggera, fino quasi a dimezzarsi.
    «Poiché il patto esclusivo col comune di Roma – spiega un collega – richiede all’azienda Trambus di ricoprire ogni giorno un tot numero di chilometri, l’autista inidoneo risulta improduttivo e anziché essere ricollocato da qualche altra parte, valorizzando le sue capacità, viene scartato come una merce guasta. Al diavolo se ti rompi la schiena per anni su strade impossibili, in un lavoro usurante, costretto a restare in servizio come tutti gli altri, se vuoi arrivare alla pensione».
    Angelo aveva «paura di perdere il lavoro, paura di vedersi dimezzato lo stipendio di lì a poco, paura di non farcela più a continuare a guidare quel maledetto bus ogni santo giorno, in mezzo al traffico di Roma, paura di essere inidoneo per tutta la vita». Questo hanno raccontato i colleghi, che di Angelo conoscevano la depressione, il desiderio di non guidare più «con tutte quelle persone dietro e la responsabilità di condurle sane e salve su un mezzo pubblico per anche nove ore al giorno».

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