Lavoce.info

La lunga marcia del federalismo fiscale: il nuovo disegno di legge

Dopo anni si ricomincia a parlare di federalismo fiscale. Si riuscirà anche a legiferare? Il nuovo impianto legislativo si propone un intervento organico per tutti i livelli di governo locale. Rimane alto il rischio di litigiosità tra Stato ed enti di governo locale soprattutto per la gestione del passaggio dal riparto basato sulla spesa storica al nuovo regime, basato sul criterio del fabbisogno. Forse si dovrebbero aumentare i finanziamenti ai soli enti “virtuosi” e mantenere invariato il finanziamento di spesa storica per gli enti meno virtuosi.

A distanza di sette anni dall’introduzione del D.Lgs. 56/2000, sei dal varo del nuovo Titolo V della Costituzione e cinque dal “blocco” del processo di riparto fra le Regioni previsto da quel decreto, si torna a parlare e (forse) a legiferare in tema di federalismo fiscale nel nostro paese. E questa è già una buona notizia, visto che il federalismo fiscale è uno degli strumenti che possono essere utilizzati per “irrigidire” il vincolo di bilancio degli enti decentrati, cioè per prevenire (ed eventualmente risolvere) i problemi di potenziale dissesto finanziario delle Regioni e degli Enti locali, attribuendo loro non solo responsabilità in termini di funzioni e di spesa, ma anche in termini di entrate. I recenti casi del Lazio, fra le regioni, e di Taranto, fra i comuni, inducono a pensare che qualcosa su questo fronte si deve provare a fare al fine di evitare effetti dirompenti sulla tenuta della solidarietà interregionale.

Rapporti tra Stato ed enti locali

Il testo – frutto di più di un compromesso – è stato approvato senza il parere della Conferenza Unificata e certamente subirà nuove ed ulteriori modifiche dal passaggio in Parlamento. In attesa del testo finale (ammesso che prima o poi ci si arrivi), proviamo a fornire qualche spunto di riflessione, partendo dalle novità rispetto al famigerato D.Lgs. 56/2000.
Il nuovo impianto legislativo si propone innanzitutto un intervento organico per tutti i livelli di governo locale, dalle Regioni fino a Comuni, Province e Città Metropolitane. In particolare, si introducono regole di coordinamento e di omogeneizzazione dei conti per il raggiungimento degli obiettivi fissati in sede di programmazione. Viene introdotto anche un collegato alla manovra di bilancio dello Stato, da presentare entro ottobre, per la determinazione con un congruo anticipo delle risorse assegnate a Regioni ed Enti Locali. A differenza quindi del precedente approccio (il decreto del 2000), in questo caso si affronta tutto il nodo dei rapporti tra lo Stato e gli enti di governo decentrato, introducendo complicazioni ulteriori per l’accettabilità politica del pacchetto di norme. A testimonianza di ciò si vedano le ostilità palesi dei comuni in merito a quanto disposto dall’art. 6 del disegno di legge delega, che prevede di affidare alle Regioni il compito di svolgere la perequazione per i comuni con popolazione inferiore ad una data soglia (da determinare con successivo provvedimento legislativo). Si prevede inoltre, all’art. 6, comma 2, il passaggio da un sistema di riparto dei fondi per le regioni basato sulla spesa storica ad un sistema basato sulla definizione di costi standard di produzione nel rispetto dei livelli delle prestazioni tutelati dalla lettera m), secondo comma, dell’art. 117 della Costituzione (nel caso del D.Lgs. 56/2000 il riferimento era solo ai fabbisogni). Per i Comuni, sempre l’art. 6, comma 3, prevede un sistema di riparto basato sulla combinazione di fabbisogni e costi standard. Infine, il disegno di legge delega prevede dei meccanismi di sanzione automatici per gli enti che presentano scostamenti tra obiettivi programmati e risultati realizzati. Le sanzioni vanno dall’incremento automatico delle entrate tributarie ed extra-tributarie allo scioglimento degli organi degli enti inadempienti.

Leggi anche:  Alle Europee vince chi convince gli scoraggiati*

Il rischio della litigiosità

Che cosa non cambia invece nel nuovo impianto normativo rispetto a quanto previsto dal vecchio D.Lgs. 56/2000? Ci sembra restino invariati sia l’approccio graduale per la gestione del passaggio dal riparto basato sulla spesa storica al nuovo regime, sia il meccanismo di perequazione della capacità fiscale fra le regioni, per ridurre le differenze interregionali di gettito e per tener conto delle diseconomie derivanti dalle “piccole dimensioni”.
Qui ci concentriamo sul primo aspetto, quello della fase di transizione. Il disegno di legge “fissa” l’assetto a regime (quello ideale) e prevede di raggiungerlo attraverso una fase di transizione di durata sufficientemente lunga (da cinque a dieci anni). Il passaggio dal vecchio al nuovo regime, seppur graduale, in genere tuttavia comporta la riduzione delle risorse assegnate ad alcuni enti locali rispetto alla spesa storica, pur in presenza di risorse complessive crescenti. E questo è esattamente quello che è avvenuto con il D.Lgs. 56/2000 già dal primo anno di applicazione, nel quale il riparto era basato per il 95% sulla spesa storica e solo per il 5% sul criterio del fabbisogno.
Il nuovo decreto non risolve questo problema e diventa facile prevedere che si rischia di nuovo di arrivare ad uno stallo istituzionale, con l’ennesimo periodo di litigiosità (esacerbato dal fatto che adesso non sono coinvolte solo le Regioni ma anche gli Enti Locali). Forse è meglio pensare, per risolvere questo problema, di evitare il passaggio da spesa storica a spesa standard ridefinendo quote nell’arco di un periodo di tempo anche lungo, ma agire al margine sulle sole quote incrementali. In altre parole, aumentare i finanziamenti ai soli enti “virtuosi” e mantenere invariato il finanziamento di spesa storica per gli enti meno virtuosi. E’ chiaro che la riallocazione del solo incremento del budget porterebbe ad un processo più lento rispetto a quello previsto col passaggio graduale. Peraltro il processo sarebbe tanto più rapido quanto maggiore è l’incremento del finanziamento; e tuttavia ciò potrebbe rendere più accettabile il passaggio verso il nuovo sistema.
Un altro aspetto cruciale è che deve essere fatta una riflessione sui livelli essenziali previsti dalla Costituzione. Una volta definiti i costi standard e il budget, diventerà immediatamente chiaro che le regioni più efficienti si potranno permettere di erogare un certo numero di prestazioni, quelle meno efficienti un numero ancora inferiore. Che cosa significa “essenziale” in questo caso? Soprattutto, come riuscire a definire l’essenzialità in termini finanziari? Le risposte a queste domande sono cruciali per evitare un naufragio del provvedimento prima ancora che esca dalle acque (che prevediamo di difficile navigazione) del Parlamento.

Leggi anche:  Un colpo di spugna sulle rivendicazioni delle regioni?

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Donne e potere politico: meglio su Twitter-X che in Parlamento

Precedente

Crisi dei subprime: cosa non funziona*

Successivo

Una crisi estensiva, ma benigna

  1. angelo baldan

    Il DDL del Governo sul federalismo fiscale non è ancora, a mio avviso, il federalismo fiscale dell’art. 119 della Costituzione che prevede che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni dispongano di “compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. In realtà ci troviamo di fronte ad un altro sistema centralizzato di ripartizione delle risorse dal centro alla periferia, in nome della perequazione che invece dovrebbe avvenire in senso inverso e cioè la periferia più ricca, una volta trattenuta la quota di sua spettanza, dovrebbe alimentare un fondo perequativo centrale a favore della periferia meno ricca, al fine di garantire a tutti i cittadini almeno le prestazioni standard.

  2. Giacomo Dorigo

    Ma non sarebbe invece meglio interrompere l’erogazione di denaro dal governo centrale e lasciare libere le regioni di tassare, ovvero di finanziarsi solo con risorse proprie?
    Spostarsi da uno Stato all’altro è difficile, ma spostarsi da una regione all’altra no, quindi i cittadini e le imprese sarebbero spinti a trasferirsi nelle regioni con il miglior rapporto tassazione/servizi introducendo così un elemento di competizione che spingerebbe gli amministratori a comportamenti più virtuosi.
    L’unico modo per l’amministratore incapace o in malafede di perpetuare l’inefficienza a quel punto sarebbe l’incremento del debito regionale, per evitare ciò servirebbe un’unica regola simile al patto di stabilità europeo.

  3. Renato Foresto

    Non conosco il Ddl sul Federalismo fiscale ma dal commento dei prof. Galmerini e Turati che leggiamo sulla Voce par di capire che il nodo da sciogliere sta nella parola Coordinamento del quale lo Stato vuole mantenere l’ esclusiva al fine di preservare la solidarieta’ e la coesione nazionali. Sacrosanti valori ma del tutto dimenticati dalla pratica sin qui seguita dove lo Stato con la sua contribuzione tende piu’ a dividere che a unire. Cosi’ e’ nella Sanita’ dove lo Stato ha l’ esclusiva al cento per cento ( le regioni meridionali sono variamente penalizzate ma e’ giungla ovunque ), ma e’ peggiore nell’ ambito dei Comuni dove la dicrezionalita’ del ministro distributore delle Spettanze supera la sfacciataggine che pero’ funziona in cambio di una sorta di immunita’. Bastano pochi minuti al lettore che volesse accertarsi della discrezionalita’ del ministro nei riguardi del suo Comune per metter giu’ la sequenza delle Spettanze assegnate a partire dal ’96 a tuttoggi 2007 che trovera’ sul sito finanzalocale.interno.it, e capira’ perche’ al suo sindaco convenga far buon viso a cattivo gioco.

  4. Claudio Paolini

    Credo che esista all’interno della riforma una criticità per ora elusa da molti commentatori. Mi riferisco alla previsione dei costi standard come strumento di misurazione, anche in termini di perequazione, per la copertura integrale del fabbisogno relativo ai servizi per cui sono previsti dei livelli essenziali di erogazione. Il problema, a mio avviso, sta nella fissazione di tali costi. Come si stabilirà il costo di riferimento ad esempio per una generica prestazione sanitaria? Quali parametri correttivi si applicheranno per stabilire che nella zona x la prestazione dovrà costare A mentre nella zona y dovrà costare B? forse la popolazione totale o la densità di popolazione….magari l’incidenza di persone anziane o giovani….oppure lo stock di infrastrutture esistenti al tempo t su quel territorio, o le caratteristiche morfologiche del territorio ecc.
    E’ inutile dire che ogni realtà spingerà per dare un peso maggiore alle proprie peculiarità e mi chiedo se si riuscirà ad uscirne in modo equilibrato. Credo che si sarà un bel lavoro per economisti, demografi, sociologi e via dicendo…..l’unica speranza è che prevalga la responsabilità.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén