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UN PASSO VERSO LA PUBLIC COMPANY *

La direttiva europea sui diritti degli azionisti rappresenta un’opportunità di ridurre i problemi di partecipazione degli azionisti che caratterizzano le società quotate italiane, attraverso un ricorso facilitato al voto per delega. Le disposizioni si possono applicare anche alle cooperative quotate e, dunque, alle banche popolari, che soffrono oggi di un deficit particolarmente grave di democrazia azionaria. Ma la raccolta delle deleghe è estesa agli amministratori: negli Stati Uniti è un meccanismo che ha permesso il funzionamento della public company.

La direttiva europea sui diritti degli azionisti rappresenta un’opportunità di ridurre i problemi di partecipazione degli azionisti che caratterizzano le società quotate italiane, comprese le cooperative, attraverso un ricorso facilitato al voto per delega. La direttiva inoltre estende la raccolta delle deleghe anche agli amministratori. Cerchiamo qui di illustrare quali potrebbero essere le conseguenze di queste novità legislative sul controllo delle nostre società quotate.

Un problema di democrazia azionaria

Nelle società quotate italiane la percentuale di partecipazione al voto, così come accade da diversi anni, nel 2006 è stata di circa il 50 per cento, più o meno allo stesso livello della Germania e inferiore sia alla Francia che alla Gran Bretagna, dove si supera in media il 60 per cento, e agli Stati Uniti, dove si raggiunge l’86 per cento. Bisogna poi tenere presente che in Gran Bretagna partecipazioni al voto del 50 per cento erano state ritenute insufficienti già diversi anni fa dal governo e dalla piazza finanziaria, pur con una struttura proprietaria notevolmente meno concentrata di quella italiana. Come sottolineato dalla Consob, dietro il 50 per cento di partecipazione media degli azionisti in Italia si nasconde un numero di azionisti votanti estremamente limitato con una preponderanza degli azionisti di controllo, il che significa che alcune fra le nostre più importanti società quotate vengono di fatto controllate attraverso esigue percentuali sul totale dei diritti di voto. (1)
Infine le nostre banche popolari quotate sono caratterizzate da problemi di democrazia azionaria particolarmente gravi, con percentuali di voti espressi in assemblea compresi tra il 3 e il 10 per cento.
Ma quali sono le cause della bassa partecipazione al voto degli azionisti? Secondo una recente indagine della Commissione europea, fra le principali ragioni della scarsa presenza degli azionisti di minoranza alle assemblee vi sono gli ostacoli legali all’utilizzo del voto per delega. (2) La direttiva consente di ridurne significativamente la portata permettendo l’utilizzo di forme semplificate di delega di voto, compresa la posta elettronica. (3) Alla base della direttiva vi è stata la constatazione che l’incremento del numero di azionisti, della distanza geografica fra gli azionisti e l’emittente e infine la crescente parcellizzazione delle partecipazioni detenute spesso impediscono ai piccoli azionisti di prendere parte direttamente alle assemblee. E il ricorso alla delega rappresenta in questo momento la soluzione più efficiente per garantire l’accesso al voto. (4)
L’applicazione della direttiva dovrebbe quindi permettere agli azionisti una maggiore partecipazione al voto. Pur essendo il nostro sistema caratterizzato da un’alta concentrazione della proprietà, il peso degli investitori istituzionali e in generale dei piccoli azionisti ormai in media raggiunge quasi il 60 per cento. (5) È logico pensare che un minor costo della raccolta di deleghe potrebbe avere conseguenze significative sul controllo delle nostre principali società quotate. Tra l’altro, la direttiva riconosce ai paesi membri la facoltà di applicare queste disposizioni anche alle cooperative quotate. In sede di recepimento, il nostro legislatore potrebbe cogliere questa opportunità per permettere una maggiore partecipazione degli azionisti alle assemblee delle banche popolari.

La raccolta di deleghe da parte degli amministratori

La direttiva inoltre autorizza anche gli amministratori alla sollecitazione e raccolta delle deleghe. Le conseguenze di tale previsione potrebbero essere molto interessanti. È noto che negli Stati Uniti la possibilità per gli amministratori di raccogliere deleghe rappresenta uno dei meccanismi che hanno permesso il funzionamento della public company. Oltre certe dimensioni geografiche il funzionamento di una società quotata è legato al voto per delega e la raccolta di deleghe da parte degli amministratori esecutivi permette agli azionisti soddisfatti della gestione aziendale di esprimere il loro sostegno al management. (6) È pure chiaro che in questo modo l’avvicendamento degli amministratori può avvenire soltanto attraverso un’Opa o una competizione per le deleghe (proxy fight). Non a caso la Sec americana ha sempre cercato di garantire parità di trattamento tra amministratori esecutivi e azionisti nella raccolta e sollecitazione delle deleghe. (7)
La direttiva potrebbe contribuire a limitare il predominio di ristrette minoranze nella vita delle nostre società quotate permettendo agli amministratori della società di raccogliere deleghe in misura superiore ai voti detenuti dalle minoranze di controllo. Tale predominio rischia di facilitare l’espropriazione degli azionisti di minoranza (che poi spesso sono la maggioranza). Certo, anche l’amministratore che sollecita deleghe in favore del suo operato potrebbe utilizzare il sistema per trincerarsi, ma a questo la direttiva ha risposto, da un lato autorizzando i paesi membri a introdurre misure di prevenzione di conflitti di interesse e di corretta informazione degli azionisti sul contenuto delle deliberazioni assembleari; dall’altro, facilitando la sollecitazione e la raccolta delle deleghe per tutti gli azionisti. (8)
Cerchiamo allora di immaginare quali potrebbero essere le conseguenze dell’entrata in vigore di questa previsione. Tra le società quotate a partecipazione pubblica con percentuali importanti di azionariato diffuso, in questo momento principalmente Eni ed Enel, amministratori esecutivi molto apprezzati potrebbero ottenere deleghe per un numero di voti superiore a quello che lo Stato può esercitare. Ma lo stesso potrebbe avvenire anche per le società quotate non controllate dallo Stato: un amministratore (normalmente un amministratore esecutivo) potrebbe raccogliere deleghe e liberarsi dal vincolo dell’azionista di controllo (in molti casi dei membri del patto di sindacato). Qui però si potrebbe formulare un’obiezione: l’azionista di controllo, o il patto di sindacato che controlla la società, potrebbero sempre chiedere, prima dell’elezione, che l’amministratore si impegni a non esercitare il diritto alla raccolta di deleghe. Si pensi ai membri dei consigli direttivi dei patti di sindacato che sono anche amministratori della società. La risposta rimane dubbia: se il vincolo fosse valido, l’efficacia della direttiva per la nascita delle public company anche in Italia sarebbe limitata. D’altra parte, in diversi paesi della Unione Europea, a cominciare dalla Gran Bretagna, è vietato introdurre nei patti di sindacato vincoli all’indipendenza degli amministratori. (9) A questo riguardo, una chiarificazione del punto farebbe luce sulla reale intenzione del legislatore di creare le condizioni per l’avvento, anche in Italia, delle public company.

* Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità degli autori e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o la Commissione europea.

(1) M. Bianchi, M. Bianco, S. Giacomelli, A. M. Pacces, e S. Trento (2005). Proprietà e controllo delle imprese in Italia, Bologna, Il Mulino. Vedi anche M. Bianchi e M. Bianco, "Italian Corporate Governance in the Last 15 Years: From Pyramids to Coalitions?" ECGI – Finance Working Paper No. 144/2006,
(2) Naturalmente per l’Italia vi potrebbero essere altre motivazioni legate alla frequente assenza degli investitori istituzionali dalle assemblee di alcune tra le nostre società quotate più importanti. Tale assenza è stata da tempo sottolineata anche dalla Consob, (vedi ad esempio la relazione annuale per il 2003, p. 86) e potrebbe anche essere collegata al fatto che la grande maggioranza degli investitori istituzionali italiani sono controllati dal sistema bancario; vi potrebbero naturalmente essere anche dei casi nei quali gli investitori semplicemente esprimono un’approvazione tacita dell’operato del management e degli azionisti di controllo.
(3) Art. 11 della direttiva. Da notare poi che lo stesso articolo permette l’introduzione di obblighi di rendicontazione a carico del delegatario al fine di prevenire un uso abusivo delle deleghe.
(4) Su tutti questi aspetti vedi l’istruttoria che ha preceduto la Direttiva
(5) Vedi Consob, Relazione annuale per l’anno 2006, appendice e note metodologiche, Tav; A.3,
(6)A. A. Berle e G. C. Means, The Modern Corporation And Private Property, New York, 1936, p. 87.
(7)Vedi al riguardo J. E. Fisch, From Legitimacy to Logic: Reconstructing Proxy Regulation, Vanderbilt Law Review, vol. 46, 1993, p. 1129 ss.
(8) Come ricorda F. Chiappetta in Diritto del governo societario, Padova, Cedam, 2007, p. 84, il divieto di raccolta ha più volte ricevuto una estesa diffusione poiché "l’utilizzo della delega assembleare (…) ha segnalato nel tempo fenomeni di abuso a danno dei soci rappresentati e a vantaggio dei gruppi di controllo e/o degli amministratori della società i quali, attraverso gli intermediari (principalmente, le banche), provvedevano a massicci rastrellamenti di deleghe presso i piccoli azionisti spesso ignari della reale portata delle deliberazioni assembleari che, attraverso il loro voto, i soci di controllo riuscivano ad approvare". La direttiva, congiunta alle innovazioni legislative italiane di quest’ultimo decennio, sembra risolvere molti dei problemi che in precedenza spingevano per un ampliamento del divieto della raccolta di deleghe di voto.
(9) Si veda il rapporto commissionato dalla Commissione europea al consorzio ISS-EGCI-S&S, in particolare cfr p. 32 del documento di sintesi e Exhibit C, pag. 132.

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LA GERMANIA DELLE RIFORME INCOMPIUTE

  1. michele giardino

    Materia affascinante, non c’è dubbio, e titolo giusto: un passo innanzi. Ma mi chiedo quanti siano poi i passi realmente possibili almeno nell’immediato. Mi spiego. In ogni situazione nella quale si rende necessario organizzare volontà, inclinazioni, indicazioni, critiche, ecc.di una pluralità indistinta di soggetti in direzione di scelte e decisioni che qualcuno deve pur prendere o che ha già prese, spunta il dilemma della politica, che di queste situazioni è la più tipica. Vale a dire: conta di più la massima rappresentatività, oppure la massima efficienza decisionale? In politica, la questione è in sè,appunto, “politica”e ammette quindi una molteplicità di risposte. Ma in materia di gestione di imprese, tanto più se grandi e “public”, le possibili risposte non sono tante e comunque vanno misurate su un interesse generale difficile da apprezzare da punti di vista strettamente individuali e quindi estremamente vari. Vi è da chiedersi dunque se al problema non vada cercata una soluzione che cerchi o inventi strumenti di aggregazione “intermedi”, verosimilmente di tipo asociativo, che evitino la dispersione delle volontà individuali in mille rivoli, oltre tutto asolutamente inidonei a conseguire qualunque risultato. Un secondo interrogativo, di segno del tutto diverso, riguarda l’effetto che il disegno proposto potrebbe generare su chi investe “per comandare”. Il nostro capitalismo notoriamente scarso di capitali(sti), ha escogitatato nel tempo una serie di meccanismi sostitutivi, magari ineleganti, ma che comunque ne hanno consentito e ne consentono il funzionamento e hanno comunque sostenuto una grande crescita. Il richiamo a modelli di governance propri di ambienti del tutto diversi, resta ovviamente importante, ma non mi pare basti per adottare sic et simpliciter gli stessi strumenti, che sono strettamente connessi (e storicamene determinati) appunto a ciò che caratterizza quegli ambienti e li differenzia profondamente dal nostro. Almeno per ora. Un passo in avanti, perciò, ma appunto: un passo…

    • La redazione

      A Michele Giardino, che ha commentato il nostro articolo, replichiamo dicendo che, circa il primo punto, l’intento di favorire il voto per delega , intento che caratterizza la direttiva, va proprio incontro al bisogno espresso dal Giardino: massima rappresentatività e massima efficienza gestionale.
      Sul secondo punto,e cioè sul bisogno di capitali per la borsa, vi è da dire che una borsa i cui vigano regole efficienti e siano superati i meccanismi inefficienti di controllo, è capace di raccogliere molti più capitali, in particolare tra gli investitori istituzionali, di una borsa disciplinata da regole e usi inefficienti.
      Si nota già oggi quasi un disinteresse degli investitori istituzionali per la borsa italiana.

  2. Tommaso Lorusso

    Se attraverso le pubblic company si intende ampliare le forme di democrazia partecipativa nel sistema creditizio/finanziario italiano, ossia superare quella democrazia difficile o incompiuta citata dall’indimenticabile onorevole Aldo Moro, non sarebbe forse il caso di estenderne i contenuti anche alle Banche Popolari “non quotate”? Utilizzando forme associative che agevolino la partecipazione diretta di uno dei principali portatori d’interesse, i soci-dipendenti? Grazie. Tommaso Lorusso Presidente Assodip Banca Popolare di puglia e Basilicata – Altamura (BA) Tommaso Lorusso

    • La redazione

      Egregio Dott. Lorusso, la Direttiva 2007/36 sui diritti degli azionisti si indirizza alle società quotate e conferisce ai paesi membri la facoltà di estenderne l’applicazione anche alle società cooperative quotate. Cio’ detto, nulla vieta al nostro governo e al nostro parlamento di estendere alle società cooperative non quotate le facilitazioni al ricorso al voto per delega contenute nella direttiva. Di tali facilitazioni potrebbero approfittare ovviamente anche i soci-dipendenti.

      Enrico Baffi e Paolo Santella

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