Daniela Del Boca e Alessandro Rosina sostengono che le politiche per conciliare lavoro di cura e per il mercato messe in atto dal governo Prodi sono molto timide. A mio avviso, tale affermazione non tiene nella giusta considerazione le misure effettivamente adottate.
I "fatti" del governo
La Finanziariadel 2007 ha stanziato 300 milioniper creare nuovi servizi per la prima infanzia, equamente ripartiti per gli anni 2007, 2008 e 2009. Inoltre, per il 2007 a questa cifra sono stati aggiunti 40 milioni provenienti dal Fondo politiche per la famiglia. Ancora: nel decreto legge n. 159, articolo 45 del 1° ottobre 2007, in attesa di conversione, per il 2007 è stato assegnato un ulteriore stanziamento di 25 milioni di euro per i nuovi servizi alla prima infanzia. Infine, il governo nella Finanziaria del 2007 ha stanziato anche 35 milioni di euro per le cosiddette "sezioni primavera", ossia classi aggiuntive nelle scuole per l’infanzia destinate ai bambini di età 24-36 mesi. Tirando le somme, il governo nel 2007 ha destinato 205 milioni all’attuazione di servizi di cura per i bambini con meno di tre anni, oltre a 100+100 milioni per il 2008-09. Queste ultime due somme potranno essere incrementate nei prossimi mesi, se si destinerà a questo scopo parte del Fondo politiche per la famiglia. L’intenzione è di arrivare a stanziamenti simili a quelli del 2007. Inoltre, in un decreto emanato il 28 settembre, i 140 milioni già stanziati per il 2007 sono stati ripartiti fra le Regioni .
Questi soldi sono sufficienti? A mio avviso sì, non certo perché in grado di coprire la domanda potenziale, ma perché verosimilmente congruenti con le capacità di spesa delle Regioni e dei comuni. Se riuscissimo, nei prossimi tre anni, a spendere effettivamente 200 milioni di euro l’anno per costruire nuovi asili nido o mettere in atto misure di cura alternative (come le sezioni primavera, i nidi integrati, le organizzazioni di mamme di giorno, eccetera), sarebbe un successo straordinario. L’insoddisfazione del ministro Bindi per la Finanziaria 2008 non riguarda tanto i mancati nuovi stanziamenti per politiche di conciliazione, quanto la mancata implementazione dell’assegno unico universale per i figli, che avrebbe dovuto unificare detrazioni e assegni familiari, estendendo la misura anche ai lavoratori autonomi, e accentuando la progressività per numero di figli e reddito.
Occupazione femminile e fecondità
Ora, qualche commento più "demografico" all’articolo. In che misura il recupero di fecondità in Italia è dovuto, come sembrano sostenere Del Boca e Rosina, ai primi cenni dell’inversione del tradizionale rapporto conflittualefra fecondità e lavoro della donna? Del Boca e Rosina, in figura 2, mostrano una forte relazione positiva fra tasso di occupazione femminile e ripresa della fecondità, utilizzando dati per le 20 Regioni italiane. Probabilmente, il risultato sarebbe stato lo stesso se, invece dell’occupazione femminile, si fosse messo in ascissa qualsiasi altro indicatore territoriale correlato allo sviluppo socioeconomico. I recenti dati Istat sulla fecondità per età mostrano che 1) per generazione, la fecondità dell’Italia non è mai scesa sotto 1,5 figli per donna; 2) il declino della fecondità in età giovanile è terminato, grazie anche alla maggior fecondità prima dei 30 anni delle donne straniere; 3) il recupero di fecondità oltre i 30 anni, per le coorti nate negli anni Settanta, è molto vivace. (1)Quindi, la ripresa della fecondità in Italia è in buona parte dovuta al recupero oltre i 30 anni della mancata fecondità in età giovanile per le donne nate negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, oltre che a una fecondità un po’ più elevata delle donne straniere. I due fenomeni sono stati più accentuati nelle regioni più sviluppate (che hanno attratto più stranieri) e dove la fecondità era maggiormente diminuita negli anni Ottanta e Novanta, e questo spiega risultati come quelli illustrati nella figura riportata nel lavoro di Del Boca e Rosina.
Purtroppo, in Italia " a livello individuale" il legame fra occupazione femminile e fecondità è ancora fortemente negativo. Un lavoro comparativo molto ricco e documentato sull’argomento è stato recentemente scritto dal demografo spagnolo Pau Baizan. (2)Solo in Danimarca le coppie dove entrambi i coniugi lavorano hanno più figli di quelle dove l’uomo lavora per il mercato e la donna è casalinga. Negli altri tre paesi studiati (Italia, Spagna e Regno Unito) avviene l’opposto.
In conclusione, a mio avviso, Del Boca e Rosina si sono lasciati un po’ trascinare dalla passione. È vero che le misure di conciliazionesono fondamentali per aiutare le coppie ad avere figli. Non è però vero che il governo sta facendo poco su questo versante. Le maggiori manchevolezze sono su altri aspetti, in particolare sullemisure monetarieper le coppie con più figli a reddito moderato. È vero, inoltre, che nelle società ricche la fecondità si alza se il lavoro di cura e per il mercato sono conciliabili. Non è vero, invece, che in Italia si osserva un’inversione di tendenza del legame negativo fra lavoro della donna e fecondità.
(1)Vedi il recente lavoro di Marcantonio Caltabiano
(2)Pau Baizan, "Family formation and family dilemmas in contemporary Europe", 2007, Fundacion BBVA.
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Adriana Perrotta Rabissi
Ben vengano le misure di conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita prese dall’attuale governo, ma, secondo me, perché siano veramente incisive occorre siano accompagnate da modificazioni anche nella cultura di chi le propone. In questo senso parlare come fa De Zuanna di " misure di cura alternative (come le sezioni primavera, i nidi integrati) e – le organizzazioni di mamme di giorno- significa riproporre il luogo comune del lavoro di cura come responsabilità prima delle donne e non di entrambi i genitori. Così si rincorrono i problemi, senza tentare di risolverli alla radice, e soprattutto non si cambiano le mentalità e il costume sociale. Forse occorrerebbe tenere in maggior conto le analisi delle studiose dei temi sociali degli ultimi vent’anni, regolarmente pubblicate in monografie, disponibili in relazioni e interventi pubblici.
Letizia Ciancio
Il modello di conciliazione tra dimensione lavorativa della donna e dimensione familiare andrebbe a mio avviso implementato sul versante del TEMPO effettivamente disponibile per la donna; e sopratutto allargato fino alla fascia di età delle elementari. Il problema infatti per la donna che lavora non è tanto la ripartizione dei compiti familiari (per altro già abbastanza in uso ormai) quanto l’effettivo desiderio di seguire in prima persona il percorso formativo dei bambini. E in questo senso negli anni del nido si hanno meno problemi, giacché queste strutture restano aperte fino alle 18-19, laddove le scuole dell’infanzia ed elementari solo fino alle 16. Una donna con lavoro a tempo pieno quindi, non potrebbe mai concedersi il "lusso" di andare a prendere i propri figli a scuola… Secondo me si potrebbe considerare un sistema di "sconto" sull’orario lavorativo a parità di stipendio, da fruire a scelta tra madre e padre per un periodo circoscritto di tempo. E tale spesa potrebbe essere condivisa tra stato e azienda. Per esempio 30-40 mn di lavoro in meno per ogni figlio entro tra i 3 e i 7-8 anni(ottimisticamente). Un’alternativa a ciò potrebbero essere i laboratori doposcuola – che alcuni istituti già erogano ma solo su iniziativa individuale e coordinata delle mamme – che consentirebbero di protrarre l’orario di almeno 1 ora, fornendo peraltro ai piccoli ulteriori strumenti per accrescere il loro bagaglio formativo e la loro curiosità/creatività. Insomma, per concludere, bisognerebbe provare a riflettere non solo su soluzioni direttamente economiche (una tantum e infrastrutture), ma anche su ipotesi come il guadagno di tempo – che si rifletterebbero poi oltre che sul portafogli familiare anche sulla serenità dei figli e dei genitori. Perché se uno li mette al mondo li vorrebbe poi anche crescere seguendoli con attenzione, senza per questo dover rinunciare ad un lavoro che magari viene svolto con passione e che gratifica. Letizia Ciancio