La globalizzazione dei mercati sembra aver raggiunto per la prima volta anche l’Africa. Grazie al traino della locomotiva cinese, alla domanda crescente di materie prime sui mercati mondiali e allaumento dei relativi prezzi internazionali, l’economia africana è cresciuta in media di oltre il 4 per cento nel periodo 2001-06. La Cina ha un vantaggio nella costruzione di infrastrutture e l’Europa nella costruzione delle istituzioni, soprattutto quelle regionali. L’importante è che i tre attori dialoghino per garantire la coerenza dei diversi interventi.
In questo primo scorcio del XXI secolo, la globalizzazione dei mercati sembra aver raggiunto per la prima volta anche l’Africa. Grazie al traino della locomotiva cinese, alla domanda crescente di materie prime sui mercati mondiali e all’aumento dei relativi prezzi internazionali, l’economia africana è cresciuta in media di oltre il 4 per cento l’anno nel periodo 2001-06.
Scambi con la Cina e con l’Europa
All’effetto indiretto dell’esplosione della Cina si accompagna dal punto di vista commerciale un contributo diretto. Il commercio bilaterale è passato da 11 miliardi di dollari nel 2001 a 52 miliardi di dollari nel 2006 ed è previsto che raggiunga la soglia dei 100 miliardi nel 2010. Pechino è ormai il primo partner di paesi esportatori di petrolio come il Sudan e l’Angola, ma anche del Burkina Faso che produce cotone (e che tra l’altro è uno dei pochi paesi al mondo che riconosce ancora Taiwan). L’Africa importa anche molto dalla Cina, in particolare manufatti di bassa qualità che non possono essere venduti altrove, ma anche tecnologie meno care di quelle occidentali e spesso più adatte alle circostanze africane. Ma non c’è solo commercio, gli investimenti cinesi in Africa sono in forte ascesa, anche se rimangono ancora una piccola percentuale del totale.
Se è vero che le relazioni economiche sino-africane sono in ascesa, va anche detto che l’Europa rimane il principale partner, in Nord Africa ma anche in Africa sub-sahariana. Eppure, di fronte a questi fenomeni, la reazione delle cancellerie occidentali – in particolare nei paesi che maggiore radicamento hanno in Africa, come la Francia e gli Stati Uniti – è stata di manifestare crescente preoccupazione. Di natura politica – Pechino adotterebbe un’attitudine eccessivamente benevola di fronte agli abusi commessi da regimi corrotti – ma anche economica – la Cina assorbe risorse con un grado modesto di valore aggiunto, rifinanzia paesi che le organizzazioni internazionali hanno appena sollevato dell’onere del debito, mentre inonda il mercato africano di prodotti che minano la sopravvivenza stessa degli imprenditori autoctoni. In realtà, è una questione di qualità piuttosto che di quantità. Certamente la Cina non ha la bacchetta magica per risolvere i problemi del sottosviluppo africano – dall’istruzione alle infrastrutture, dai conflitti alla sanità – ma non è neppure l’orco che ostacola l’applicazione di soluzioni ideate a tavolino in qualche think tank del Nord.
La principale particolarità dell’approccio cinese all’Africa è che – nel commercio e ancor più negli investimenti e nelle infrastrutture – si tratta di una strategia coordinata direttamente dal governo e che coinvolge imprese statali e private, il sistema bancario e finanziario e la diplomazia. A livello provinciale, le istituzioni locali intervengono con esenzioni d’imposta che supportano l’internazionalizzazione delle imprese nei mercati considerati prioritari. Infine, anche se è difficile avere un quadro preciso di un fenomeno spesso poco trasparente, è assai probabile che forme di coordinamento siano attivate per regolare le migrazioni di forza lavoro poco qualificata che assicura la realizzazione delle infrastrutture cinesi in Africa. Una parte di questi lavoratori è destinata a non tornare in Cina e la diaspora andrà ad aumentare i futuri rapporti economici.
Questo approccio sistemico trova la propria manifestazione più frequente nel cosiddetto “Angola Mode”, che consiste in finanziamenti che al posto di essere erogati direttamente da Pechino a un paese, transitano invece attraverso un’impresa cinese di costruzione (che spesso riceve anche sostegno da parte della China Exim Bank) che realizza opere di infrastruttura approvate dal partner. Successivamente, il debitore assegna a una società cinese il diritto di sfruttamento di una determinata risorsa naturale (il più delle volte petrolio, ma non solo), sia sotto forma di una partecipazione azionaria in un’impresa nazionale, sia mediante una licenza. Ancorché non molto sofisticato e ancor meno trasparente, perché poco si sa delle condizioni di finanziamento dell’Exim Bank, l’intervento cinese non sembra produrre effetti negativi in termini di debt sustainability – soprattutto quando si tenga conto degli effetti positivi che l’aiuto cinese alla costruzione di infrastrutture ha sulla crescita del Pil e delle esportazioni. (1)
Logica geostrategica
Proprio perché l’Africa garantisce una parte importante delle materie prime di cui la crescita cinese necessita, la Cina è anche accusata di seguire una logica esclusivamente geostrategica (realista si sarebbe detto in passato quando questo termine non aveva connotazioni ingenuamente negative). Che il mercato del petrolio e delle fonti di energia sia da sempre, ma oggi forse ancora di più, influenzato da variabili politiche non è Pechino ad averlo scoperto. Il rischio è che in cambio di queste risorse la Cina sia pronta a sostenere finanziariamente (e militarmente) anche paesi come il Sudan e lo Zimbabwe che il resto della comunità internazionale cerca di isolare. (2)
Dividere l’Africa tra buoni e cattivi non è un esercizio molto interessante, ma in ogni caso i paesi dove la Cina più investe hanno mostrato negli ultimi anni lievi miglioramenti degli indici di governance e di corruzione (pur rimanendo su livelli molto bassi).
Se l’effetto Cina sull’economia africana è quindi in media positivo, ci sono importanti differenze tra paesi (tra chi esporta e chi importa petrolio, in particolare) ma anche al loro interno. Se infatti l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli è positivo per chi lavora direttamente nel settore, anche se spesso i benefici non raggiungono i contadini, esso pone in ulteriore difficoltà chi, già povero e non coinvolto nel settore primario, vede il proprio reddito reale ridursi ulteriormente. Ma anche per chi lavora nel settore agricolo non è sicuro che la Cina sia una panacea. Come altrove, anche Pechino regola e sussidia il proprio settore agricolo, riducendo la possibilità di sviluppo per l’export africano. Le misure fitosanitarie e la tariff escalation – l’aumento cioè dei dazi tariffari all’aumentare del grado di processamento di un prodotto – sono ulteriori problemi per gli esportatori africani in Cina.
Oggi la possibilità di specializzarsi in fasi produttive molto specifiche apre in teoria possibilità di sviluppo economico a qualsiasi paese. È allora opportuno che anche nelle relazioni economiche di supporto all’Africa si segua un approccio ricardiano – che cioè ognuno si specializzi in ciò che sa fare relativamente meglio. In questa fase la Cina ha un vantaggio nella costruzione d’infrastrutture che può essere messa a servizio delle opportunità per l’Africa che derivano dalla frammentazione della catena del valore. (3) Per l’Europa il vantaggio risiede nella costruzione delle istituzioni, soprattutto quelle regionali, senza le quali anche le infrastrutture più moderne rimangono elefanti bianchi. L’importante è che Africa, Cina ed Europa dialoghino per garantire la coerenza dei diversi interventi e costruire sinergie dinamiche.
(1) Helmut Reisen, “Is China Actually Helping Improve Debt Sustainability in Africa?”, G-24 Policy Brief, No. 9, 2007.
(2) Soprattutto se i tentativi cinesi di garantire la propria stabilità energetica acquistando compagnie petrolifere sul mercato della proprietà e del controllo falliscono a causa del protezionismo (vedi CNOOC-Unocal nel 2005).
(3) Paul Collier e Anthony Venables, “Rethinking trade preferences: how Africa can diversify its exports”, The World Economy, 30(7), 2007.
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Piervincenzo Canale
L’articolo è molto interessante. Tuttavia vorrei sentire maggiormente la voce dei cinesi e degli africani. Credo che per ben capire le relazioni e i numeri economici sia necessario conoscere i punti di vista dei protagonisti, sia dei cinesi che degli africani che hanno rapporti con Pechino.