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LA CRISI, IL MERCATO E IL PENSIERO LIBERALE *

Il ripensamento critico della finanza innescato dalla crisi finanziaria coinvolge la stessa nozione di economia di mercato. Ma chi ha fallito, lo Stato o il mercato? Paradossalmente lo Stato, che non ha saputo dare regole esaustive e supervisori attenti. Si è instaurata una religione liberistica che vede nell’intervento pubblico sempre e comunque una indebita compressione della libertà d’impresa. Anticipazione di un articolo più esteso che la rivista Il Mulino pubblicherà nel numero in uscita a dicembre.

 

Il ripensamento critico della finanza che è stato innescato dalla crisi finanziaria sta coinvolgendo la stessa nozione di economia di mercato. Ma chi ha fallito in questa vicenda, lo Stato o il mercato? Lo Stato, vorrei sostenere, pur se in virtù di un paradosso.

L’EREDITÀ DEL PENSIERO LIBERALE

Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero economico è che, il mercato, o è “regolato” o non è. Se lo Stato pratica un laissez faire assoluto, il libero mercato concorrenziale non dura a lungo, finisce con l’essere soffocato dalla naturale tendenza monopolistica dei soggetti che vi operano. È una legge di natura, una sorta di entropia. Il mercato concorrenziale è infatti il regime ottimo dal punto di vista dei “compratori”, cioè della collettività, perché mantiene i prezzi al livello più basso possibile; ma, per la stessa ragione, è quello pessimo dal punto di vista dei “venditori”, che sono una minoranza nella società, ma agguerrita, e si oppongono in ogni modo a quel regime. Occorrono regole esaustive e precise, regolatori e supervisori occhiuti, attenti, non catturabili dagli interessi dei “venditori”, a patto, s’intende, che l’apparato di regole e controlli sia il più possibile non distorsivo e non burocratico.
Questa è, io ritengo, una eredità nobilissima del miglior pensiero liberale, contrario a far discendere dai grandi principi di libertà una “religione liberistica” nelle cose economiche. Scriveva Luigi Einaudi quasi ottanta anni fa:

“Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale (…) Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo”. (1)

Questa concezione religiosa che Einaudi così severamente stigmatizzava è risorta nella seconda metà del Novecento come conseguenza indesiderata di un serio dibattito sui fondamenti dell’economia pubblica. Da una critica serrata alla teoria standard della regolazione come basilare interesse pubblico (un lascito degli economisti che hanno lavorato fra il 1930 e il 1960) si venne traendo negli anni Sessanta la conclusione che ai fallimenti del mercato possano porre riparo i mercati stessi, o al più i tribunali civili, mentre l’autorità pubblica è di necessità incompetente, corrotta e “catturata” dagli interessi che dovrebbe dirimere, sicché essa può solo far peggio. (2)

LA RELIGIONE LIBERISTICA

Le correnti di pensiero sottostanti questa critica sono fra i punti più alti del pensiero economico del Novecento. Ma negli ultimi venti anni, soprattutto nel mondo anglosassone, si è costruita su di essa una vera e propria religione nel senso di Einaudi e oggi sul banco degli imputati stanno proprio alcune delle politiche nate da quella religione. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 fa volgere l’evidenza empirica decisamente a suo sfavore.
La religione liberistica che vede, o finge di vedere, nell’intervento pubblico sempre e comunque una indebita compressione della libertà d’impresa si configura come una forma diabolica di statalismo: lo Stato, alleandosi con interessi privati, toglie al mercato concorrenziale l’aria per respirare, che sono appunto le regole e i controlli che ne consentono il funzionamento. La crisi attuale è nata nel mondo finanziario, politico, culturale americano, ed è figlia di quello che, con una torsione lessicale, si può appunto chiamare un fallimento dello Stato. Lo Stato ha fallito per inazione, non per eccesso di azione; per non aver voluto vedere e contrastare una sequenza di evidenti fallimenti del mercato: la opacità degli strumenti finanziari “strutturati”, i conflitti d’interesse che hanno spesso reso inefficace e anzi controproducente il ruolo delle agenzie di rating, la frammentazione e dispersione dell’incentivo a monitorare il credito che è implicato dal modello di banca “origina e distribuisci”, e tanti altri.
Recuperare una equilibrata concezione liberale di mercato ben regolato non deve farci precipitare nell’errore di segno opposto. Dalla difficilissima strettoia in cui l’economia planetaria si trova deve venir fuori un sistema finanziario diverso, non uno riportato a forme arcaiche. Un sistema in cui gli intermediari mettano in gioco più soldi propri e siano più attenti ai rischi, occupandosene comunque in presa diretta; che ubbidiscano a regole precise e incisive e siano sottoposti a una vigilanza organica, il più possibile coordinata a livello internazionale. Una buona analisi, buone regole, e una loro efficace applicazione rendono pieno e fruttuoso l’esercizio della libertà nell’agire economico, insostituibile motore di benessere.

* Le opinioni qui espresse sono del tutto personali e non impegnano, in particolare, la responsabilità della Banca d’Italia.

(1) L. Einaudi, 1931, Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello del liberalismo, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1988.
(2) Questa critica viene normalmente associata alla Scuola di diritto ed economia di Chicago e ai nomi di Coase, Stigler, Posner e altri.

Foto: Luigi Einaudi

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UNA BOLLA FINANZIARIA NEGATIVA

23 commenti

  1. Mirco

    L’articolo pone l’accento su un punto chiave: la bellicosa azione dei venditori monopolisti che porta lo stato a cedere a loro favore per farlo agire per l’interesse di pochi contro l’interesse dei molti. Detta in altre parole è la lotta fra oligarchia e democrazia nella gestione dell’economia. allora se le cose stanno così, e stanno proprio così, la democrazia è garanzia di buon andamento economico, nel XXI secolo sarà lotta dura far queste due visioni del mondo, dove più nessuno metterà in discusione il ruolo del mercato o della proprietà privata che anzi assumeranno, in un mondo regoalto dalla democrazia ,un ruolo di sviluppo e di pace. Il conetto di oligarchia e di democrazia però presuppongono anche la difesa del concetto di cittadinanza, dei diritti civili, e dei diritti dell’uomo in generale..

  2. Massimo GIANNINI

    L’autore scrive che "la crisi attuale è nata nel mondo finanziario, politico, culturale americano". Questo é vero ma sorge la domanda di quale modello di mercato e pensiero si stia invece seguendo in Europa. In un mio precedente commento sulle cassandre in Europa (http://www.lavoce.info/commenti/281000737.html) mi chiedevo come é stato possibile e attraverso quali meccanismi anche l’Europa é rimasta invischiata e subisce tutti gli effetti della crisi. Certo il mercato è globale e la religione liberistica e la commistione Stato-mercato è ben presente anche in Europa, a volte sotto mentite spoglie… L’inazione di Stato, la mancata vigilanza e altri fallimenti del mercato sono anch’essi ben presenti anche in Europa. Infatti a leggere alcuni articoli parrebbe che ad esempio AIG fosse troppo grande per fallire perché avrebbe trascinato con se anche e soprattutto una o due importanti istituzioni finaziarie europee. Attendiamo ancora la disclosure e trasparenza europea. Personal thoughts about economics for Main Street, Laymen and also Economists…at http://mgiannini.blogspot.com/

  3. Armando Pasquali

    Vorrei porre all’autore una domanda: a che serve, a chi serve la finanza? Nel marzo del 2003, il Fondo Monetario ha rilasciato un rapporto intitolato "Effects of Financial Globalization on Developing Countries: Some Empirical Evidence" e firmato, fra gli altri, da un boss dell’organizzazione, Kenneth Rogoff. In questo rapporto (cap. 3 sez. B) si ammette che la liberalizzazione dei movimenti di capitali non ha avuto effetti positivi sulla crescita economica dei paesi in via di sviluppo e, incidentalmente, si nota che i tassi di crescita maggiori riguardano i paesi che NON HANNO adottato tale politica. La questione dei PVS mi sembra pertinente. Tre, a mio avviso, sono i problemi che l’economia ha di fronte: la questione ambientale; favorire lo sviluppo di quei paesi poveri che non ce la stanno facendo (e sono tanti); invertire nei paesi ricchi la tendenza alla polarizzazione dei redditi e della ricchezza che si è tradotta in un peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce di popolazione. A costo di essere polemico, mi sembra che nessuno di questi tre problemi interessi molto alla maggior parte degli economisti italiani, e non solo italiani.

  4. gian luca palmerini

    Penso che il mancato controllo dei poteri forti economici, basati su monopoli ed oligopoli abbia portato il cittadino a subirne le iniziative senza avere reale potere di opporsi ad essi. L’eccesso di informazione (vedi campagne pubblicitarie telefoniche, dell’energia, bancarie ecc.) artatamente programmata ha creato disinformazione nell’utente. Forse la soluzione potrebbe stare nell’attivare sempre più i poteri delle Autorità Antitrust con adeguate sanzioni. Cordiali saluti.

  5. marie arouet

    Il liberismo è fondato sull’individualismo. I campioni di esso sono dei formidabili predatori. I predatori hanno una funzione importante nel mantenimento equilibrato dell’ ecosistema. Nel nostro sistema di economia di mercato Il predatore per eccellenza è l’imprenditore il quale ha come unico scopo il conserguimento del profitto. Se non c’è profitto non c’é impresa. Ciò nonostante la funzione dell’imprenditore è stata elevata nell’immaginario collettivo a quella di un filantropo in quanto creatore di posti di lavoro. Le dinamica ha giustificato il continuo dirottamento di risorse pubbliche per l’investimento in imprese private che fatalmente hanno raggiunto sempre lo stesso risultato: l’ingrasso del predatore senza alcun riflesso positivo per la collettività. Poiché è ormai acclarato che tali dinamiche sono del tutto fallimentari non si capisce perchè si insista nel riproporle, Così come non si capisce per quale motivo i meccanismi di selezione naturale tra gli imprenditori debbano essere alterati da interventi di natura politica in spregio alle regole esistenti. Proviamo ad applicare le regole esistenti finora disattese anche da coloro che si appellano a regole nuove.

  6. andrea

    Egregio collaboratore, non riesco a vedere nello Stato la responsabilità di questa crisi, largamente attesa e predetta da vari insigni economisti, come, fra tanti altri, il compianto Richebacher. Tecnicamente parlando, la crisi non consiste nel naturale aggiustamento di Borse che erano a multipli surreali, ma nel credit crunch che stritola imprese e collettività. Questo credit crunch è la risposta del mercato all’eccesso di debito che affligge il pianeta intero. E il debito, è l’inevitabile risposta del mercato all’inflazione monetaria. Questa infine e` frutto della creazione di moneta superiore alla ricchezza disponibile e acquistabile, attuata dalle Banche Centrali da una quarantina d’anni a questa parte Non vedo proprio come alcuna regolazione statale, per raffinata che sia, avrebbe potuto bloccare questo necessario processo economico.

  7. Filippo Monachesi

    Sono d’accordo con l’impostazione dell’articolo ma ne amplierei la portata come viene accennato alla fine richiedendo una "vigilanza organica, il più possibile coordinata a livello internazionale". In un’economia come quella moderna dove i capitali trasmigrano con facilità e velocità dove ci sono maggiori opportunità di profitto, ritengo che a fallire siano le organizzazioni internazionali che avrebbero il compito di vigilare e regolare il mercato. Gli stati da soli possono fare ben poco (anche se quel poco lo devono fare bene). E’ ora quindi di ripensare il funzionamento di organizzazioni che spesso rappresentano solo gli interessi dei capitali che devono trovare occasioni di profitto.

  8. T.Bonotto / Proutist Universal

    Mercato o Stato? Dovremmo tener presente il limite della dichiarazione di Adam Smidth, sulla mano invisibile che regola il mercato. Il mercato dipende dagli esseri umani, quindi dal loro carattere, valori e principi. La direzione della mente umana va dalla massima positività alla massima negatività, per cui il massimo Liberismo possibile, non è concepibile in situazioni in cui vi siano anche da rispettare le necessità collettive. E queste oggi sono state totalmente disattese. C’è bisogno di riconoscere la necessità di della vitalità della società. della partecipazione della società alle attività economiche. Un equilibrato sviluppo tra "LIBERTA INDIVIDUALE E NECESSITA COLLETTIVE. E’ necessario perciò superare il capitalismo in una forma di socialismo umanistico.

  9. alberto ferrari

    Un carattere essenziale dell’economia moderna è il processo di concentrazione che si va continuamente rafforzando. Non solo le grandi imprese determinano in modo decisivo l’evoluzione dell’economia e del livello di vita, ma esse modificano anche la struttura dell’economia e della società: – Chi nelle grandi organizzazioni economiche ha potere di disporre di milioni di marchi o decine di migliaia di lavoratori, non si limita a fare dell’economia, ma esercita il potere su uomini, la dipendenza degli impiegati e degli operai va molto al di là della sfera economico-materiale. – Laddove predomina la grande impresa, o la grande finanza, non esiste libera concorrenza. Chi non dispone dello stesso potere, non ha le stesse possibilità di sviluppo, in un modo o nell’altro non è libero. La posizione più debole nell’economia è quella dell’uomo in quanto consumatore. – Con il loro potere, ulteriormente rafforzato da cartelli e consorzi, gli uomini che dirigono la grande industria, o la grande finanza, esercitano un influsso sullo Stato e sulla politica che non è conciliabile con i princìpi democratici. Essi usurpano il potere statale. Il potere economico si trasforma in potere politico. Questo stato di cose è una provocazione per tutti coloro che nella libertà e dignità umana, nella giustizia e nella sicurezza sociale vedono le basi della società umana. Il contenimento del potere della grande industria/finanza rappresenta dunque il compito centrale di una politica economica liberale. Lo Stato e la società non devono diventare preda di potenti gruppi d’interesse. La proprietà privata dei mezzi di produzione ha diritto ad essere protetta e incentivata, fintanto che essa non ostacola la costruzione di un ordine sociale giusto. Le piccole e medie imprese efficienti vanno rafforzate, affinché possano superare il confronto economico con le grandi imprese. La concorrenza a mezzo delle imprese pubbliche è un mezzo decisivo per impedire il controllo privato del mercato. A queste imprese spetta il compito di far valere gli interessi della collettività. Esse diventano necessarie laddove, per motivi di ordine naturale o tecnico, alcune prestazioni irrinunciabili per la collettività possono essere ottenute in modo economicamente ragionevole soltanto escludendo la libera concorrenza. (Piattaforma programmatica della SPD – Bad Godesberg-1959).

  10. Giovanni Caruselli

    Da questo profluvio di articoli e di pubblicazioni sulla crisi finanziaria del 2007/2008 sembra di potere dedurre che se le agenzie di rating fossero state indipendenti, se le regole (quali?) fossero state rispettate, se gli Stati fossero intevenuti (come?) etc. etc. la crisi non ci sarebbe stata o sarebbe stata meno pesante. Ma veramente lo pensiamo? Qualcuno mi sa spiegare perchè i redditi alti negli ultimi anni si sono sempre più innalzati e quelli bassi molto meno creando una forbice incompatibile con un serio regime dei consumi di una società di massa? Qualcuno può spiegarmi perchè le classi medie europee e americane sono state costrette ad indebitarsi per mantenere il proprio livello di vita? Qualcuno è capace di mettere in relazione la crisi dell’industria dell’auto che dura ormai da anni con gli imbrogli dell’alta finanza? Quando Roosevelt si trovò di fronte una situazione in cui il 60% della popolazione statunitense era indebitata fino al collo con poche probabilità di uscirne decretò la svalutazione della moneta dimezzando i capitali dei ricchi e i debiti dei poveri. Occorreranno misure drastiche dello stesso tipo quando la crisi entrerà nella sua fase peggiore.

  11. lorenzo Marzano

    Egregio dr Rossi, Lei dice che le sue sono opinioni personali ma come Direttore centrale BI .le sue non possano essere parole in libertà. Lei dice " Lo Stato ha fallito …….per non aver voluto vedere e contrastare una sequenza di evidenti fallimenti del mercato: la opacità degli strumenti finanziari “strutturati”, i conflitti d’interesse che hanno spesso reso inefficace e anzi controproducente il ruolo delle agenzie di rating," Ma queste cose non riguardavano anche e soprattutto le banche centrali ? TPS parlò di vigilanza europea oltre 10 anni fa e solo i vested interest delle banche nazionali impediscono tale primo passo . Credo che passata la buriana tutto tornerà come pri’ma con la rafforzata convinzione dei finanzieri che le perdite si possono statalizzare . Lei cita Einaudi , Io Federico Caffè: dietro a politiche ecoomiche rtenute inevitabili solo perchè dettate da potenze egemoni o paradigmi teorici …. si nascondono spesso neanche troppo celati corposi interssi di parte del tutto estranei se non opposti a quelle stesse teorie , chiaramente strumentalizzate . (ricordo di F. Vicarelli )

  12. Giuseppe Caffo

    Mi sembra che la funzione moralizzatrice dello Stato venga spesso sovrastimata.L’ influenza di politici e politicanti che devono gratificare lobby e clientele, e che hanno spesso come principale obbiettivo la creazione a tutti i costi di consenso per conservare il proprio potere e i propri privilegi non è certo garanzia di comportamenti virtuosi.Che siano poi questi politici a dettare le regole del funzionamento dei mercati desta qualche preoccupazione. Piuttosto per il corretto funzionamento dei mercati finanziari metterei in primo piano l’esigenza di maggiore trasparenza e simmetria informativa tra i vari soggeti coinvolti, accompagnata da una più diffusa cultura finanziaria.Per questo lavoce.info svolge un ottimo servizio, ma non basta. Ad esempio i bond Lehman con rating A inseriti nella lista Patti Chiari sino al giorno prima del fallimento diventano una truffa a danno dei risparmiatori a causa della asimmetria informativa e della mancanza di trasparenza. E’ su questa esigenza di trasparenza e di corretta informazione che c’è molto da lavorare da parte di Governi, Economisti, organi di informazione.

  13. Luca

    A detta dell’autore servono regolatori che dovrebbero, a ben vedere, avere i poteri di Superman: vista a raggi X, incorruttibilità assoluta, impossibile conflitto di interessi. Mi chiedo: ma se si ammette che una struttura necessita di Superman per essere tenuta in piedi, non sarà che allora il problema sta nel voler continuare a illudersi che la struttura sia progettata correttamente a dispetto di ogni evidenza probatoria? Altro punto: quando è che un apparato di regole è ‘non distorsivo’? Chi stabilisce questa qualità di un certo corpus di norme? Semplice: sono sempre i ‘sacerdoti’ della cosiddetta ‘religione liberista’. Allora cosa vogliamo per il futuro? Uno stato che ‘regoli’ ma che non ‘disturbi’. E a decidere cosa è disturbo e cosa non lo è saranno sempre i maggiorenti del potere economico. Ma, signori, non è proprio ciò che abbiamo avuto fino ad ora? Oggi si imputa allo stato di non aver voluto porre "Le Regole", con uno scandaloso e incredibile voltafaccia, si addossa allo stato la colpa di non avere voluto o saputo applicare quelle norme che fino a ieri nessuno voleva, a partire da chi oggi se ne fa sostenitore.

  14. vincesc

    Gianluigi De Marchi, giornalista de "La Stampa", scrive che nella borsa italiana (ma la situazione è uguale in tutti i paesi,in alcuni casi ancora peggio), dopo aver riportato diversi dati che non elenco,solo il 2.5% del listino complessivo rappresenta qualcosa di reale il resto,97.5%, e finanza pura.Come si poteva non prevedere il crollo di un simile castello di carte?

  15. Alessandro Casoli

    Il rischio delle nuove regole è che siano pessime regole. Un esempio sono le manovre che hanno portato alla cartolarizzazione del mercato dei mutui Americano, e le politiche di credito facile che hanno incentivato la creazione dei subprime negli anni ’90. Fannie Mae e Freddie Mac sono creazioni di un governo Americano che cercava di liberarsi dei debiti accumulati con la guerra in Vietnman "truccando" i libri contabili. Il fatto che alla base della crisi attuale ci sia stato il mercato dei mutui Americano non è da trascurare, perchè quel mercato è diventato una tale fonte di rischio proprio a causa delle regole imposte dallo Stato che lo hanno distorto sino a farlo diventare tale. Prova ne sia che le banche canadesi, sottoposte a regole diverse e migliori – e non certo a PIU’ regole tout court – hanno fin’ora superato il peggio della crisi relativamente indenni.

  16. Alessandro Puzielli

    Egregio dott. Rossi, Lei dice che c’è una "religione liberista": peccato che in questi anni i "sacerdoti del Mercato" (liberali fedeli alla Scuola Economica Austriaca: von Mises, Einaudi, Rothbard, von Hayek, De Soto…) hanno più che protestato contro l’ingerenza del potere statale nell’economia, sia tramite manipolazioni monetarie (FED) sia leggi arbitrarie (mercato immobiliare, come disse il nobel Vernon L. Smith). Le ricordo inoltre che la teoria della concorrenza perfetta è solo un’approssimazione, perché la concorrenza è un meccanismo di scoperta e non di mera allocazione di risorse (von Haek,Israel Kirzner). Infine l’intervento pubblico è sempre una compressione perchè viola i diritti di proprietà ed altera il meccanismo di trasmissione dei prezzi del mercato in modo irrazionale (per l’analisi "Socialism" di von Mises).

  17. Lacan2

    Tutto bello e giusto quello che Rossi scrive. Ma mi pongo una domanda: non è che spesso viviamo nel mondo delle favole e non facciamo i conti anche con la natura umana? O forse meglio fare questa riflessione: fin quando non viene ripristinata (sempre se è possibile farlo) un etica e una morale fondata su altri valori che non quelli odierni, come possiamo pretendere di credere all’esistenza di un mondo economico fatto di regole, trasparenza, correttezza?

  18. AB

    Purtroppo nel dibattito pubblico queste considerazioni non emergono a sufficienza e ci si concentra su bersagli “facili” e poco compresi (derivati, securitization, bonus, speculazione). Credo che i “peccati originali” siano due: l’aver stimolato troppo a lungo la crescita spingendo sui consumi con tassi d’interesse troppo bassi e l’aver ridotto la “biodiversità” del sistema abolendo le barriere tra diversi operatori del mercato. La prima osservazione mi pare ormai generalmente accettata: la Fed è stata troppo asservita alla politica economica dell’amm. Bush prolungando artificialmente il ciclo economico. Non ha svolto il suo compito di tutore della stabilità del sistema. La seconda va forse spiegata: i comportamenti “sconsiderati” degli operatori erano accomunati dall’eccessiva attenzione al breve termine: tutti (banche d’investimento o commerciali, asset managers, assicurazioni, hedge funds) erano (e sono tuttora) valutati in base ai corsi di borsa, profondamente condizionati dall’andamento dei risultati trimestrali/semestrali. Non a caso – al di là degli interventi statali – gli unici in grado di intervenire sono i fondi chiusi (privati o sovereign) che investivano in un’ottica “value” senza dover confermare stime di redditività crescenti ogni trimestre. Avere eliminato le barriere regolamentari tra i diversi operatori – iniziativa dell’amministrazione Clinton – ha generato un sistema di per sè prociclico, dove tutti reagiscono allo stesso modo allo stesso momento in base agli stessi obiettivi. I bonus eccessivi, l’utilizzo improprio di derivati e securitization (non dimentichiamo che grandi utilizzatori di questi strumenti perversi sono stati a lungo proprio i governi) sono delle conseguenze.

  19. Alberto Filippi

    Gli interventi che ho letto prendono in esame particolari più o meno rilevanti: il mercato; lo stato; il liberismo, la finanza creativa, il pensiero liberale, la mancanza di idonee politiche, ecc. , ma manca la visione d’insieme per affrontare la questione della crisi attuale e non c’è cosa meno sensata di evocare il pensiero liberale. Ma cos’è il
    pensiero liberale? Quello che pensa il birraio di Smith o la sua mano invisibile che tutto sistema? La legge di Say? Il nuovo che distrugge il vecchio di Schumpeter? La necessità della Macroeconomia di Keynes? O il liberismo di Friedman? Il pensiero liberale ognuno lo può spendere a proprio uso e consumo. In questo momento non serve proprio a nulla. Questa crisi, a differenza di quella del 29, interessa 7 miliardi di persone e non due. Interessa un ecosistema chiuso con risorse limitatissime e un ambiente devastato dall’esigenza di aumentare sempre il PIL, anche attraverso l’indebitamento folle. Si consumano risorse per 140 affinchè la natura ne crei 100. Nel 1929 c’era abbondanza di tutto adesso c’è carenza. Penso che sia da questa premessa che bisogna partire, con idee nuove soprattutto!

  20. Luciano Pontiroli

    Era prevedibile che la crisi offrisse l’occasione perché si criticassero le idee degli economisti e dei giuristi liberali anziché i comportamenti degli attori economici. Scelta legittima, ma da perseguire con qualche cautela, magari evitando di imputare all’amministrazione Bush la responsabilità di indirizzi di politica creditizia adottati sotto amministrazioni precedenti. La bolla di fine millennio, alias la bolla tecnologica, crebbe ed esplose sotto l’amministrazione Clinton, essendo già allora Greenspan a capo della Fed. Del pari, è noto che il finanziamento della clientela subprime fu incoraggiato dai Democratici perché permetteva l’acquisto della casa anche ai meno ricchi. Ciò detto, stiamo attenti alla regolazione: pensare che essa sia indispensabile a prevenire il monopolio, perché non sarebbe sufficiente il Common Law, da un lato non tiene conto che il monopolio è tale quando non sussiste alcuna possibilità d’ingresso nel mercato da parte di concorrenti (ciò che avviene soprattutto quando il monopolio è legale); dall’altro dimentica che gli accordi anticoncorrenziali sono illeciti anche per il Common Law.

  21. Michele Giudilli

    Chi ha generato questa crisi? Le banche? Le banche fanno il loro lavoro, magari stavolta lo hanno fatto male, prestando soldi anche a chi non poteva permettersi di pagare. Chi ha chiesto alla benche di prestare soldi a improbabili pagatori? La politica, da prima Clinton che voleva il miracolo di una casa per tutti. Bush ha fatto il resto. Chi ha favorito questa crisi? La Fed con la sua politica monetaria lassista e a bassi tassi d’interesse. Ignorando che un mutuo non è un debito a breve ma a lungo termine e senza fare i conti che nel lungo termine i tassi possono crescere. Son bastati pochi anni affinchè questo accadesse. Il liberismo è una mera chimera. Non è mai esistito. Se la principale componente dell’economia, il tasso di interesse, viene stabilito non dal mercato ma da un’entità – talvolta soggetta alla politica – che è fatta di uomini – e pertanto soggetti ad errore – mi spiegate di che liberismo state parlando?

  22. Pier Luigi Piccari

    Dovremmo allargare la ricerca del colpevole che si nasconde dietro il quesito. La catena più ampia parte infatti dal consumatore che può comprare "a credito" beni di consumo correnti e durevoli sino agli investimenti mobiliari ed immobiliari. Di fatto è la mistica del consumo alla radice di un modello di capitalismo che riconosce al singolo la libertà di scegliere la propria soddisfazione e su questa costruisce la catena d’interessi che và dall’impresa fornitrice di beni all’articolato mondo degli intermediari finanziari, tutti interessati alla crescita del fatturato, del valore per gli azionisti e dei bonus per il management, sino al risparmiatore interesssato anch’esso alla crescita dei suoi investimenti. Tutti colpevoli che danzano devoti intorno all’ara del PIL, dando credito, cioè la fiducia essenza del capitalismo, ma la ronde si è interrotta quando dall’illusione si è passati al dubbio e poi alla certezza dell’ecceso di fiducia concessa e tradita. Di qui la domanda, ma sarebbe meglio forse, chi ha ingannato chi? L’unico colpevole infatti non è il risparmiatore, che è già stato punito e le imprese lo saranno, ma il management del mondo finanziario quando lo sarà?

  23. Alessandro De Filippo

    I numerosi interrogativi sorti in seguito a questa crisi sono dovuti al fatto che non esiste una teoria affidabile per interpretarli. O meglio non è conosciuta ai più. In un momento di panico come questo assistiamo a "revival" di attacchi al sistema capitalistico, al profitto, al pensiero liberale. Come ha giustamente sottolineato l’autore il mercato o è libero o non e tale. Per essere tale è necessario un "habitat" di regole.Lo Stato di Diritto. Non è la prima crisi, e non sarà l’ultima, ma è un’occasione per ripensare i ruoli dei diversi attori. Se infatti la variabile principe del mercato, cioè il tasso d’interesse è soggetta ad influenze politiche e cicli elettorali si creano pesanti distorsioni e malinvestiment. Ovvero il tasso d’interesse è un prezzo, il prezzo dei capitali, e come tutti i prezzi è indice di scarsità. Se tenuto artificialmente basso genererà le bolle e lo sbilanciamento del sistema economico a cui stiamo assistendo. Una teoria per interpretare il ciclo e le depressioni c’è, ed è quella della Scuola Austriaca, Mises, Hayek e Rothbard. Consiglio la lettura de "La Grande Depressione" di Rothbard per chi volesse vederci chiaro.

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