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FINANZIATORI PRIVATI IN SCENA

Quali sono i criteri migliori per finanziare le attività culturali? E a chi spetta il compito di decidere quali attività finanziare? Se in Italia il tema è trascurato, nei paesi anglosassoni, dove il tema è fortemente dibattuto, si è optato per forme decisionali e di sostegno ibride. Una soluzione non ancora adottata nel nostro paese è quella di erogare un finanziamento statale solo alle organizzazioni culturali in grado di ottenere finanziamenti privati. Vediamone i vantaggi.

 

La protesta di attori, registi e lavoratori dello spettacolo contro i presunti tagli governativi (1) al Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) offre un interessante spunto di riflessione non solo sulla quantità appropriata di risorse pubbliche da investire nel settore culturale, ma anche su quali siano i meccanismi istituzionali che permettono un’ottima allocazione delle risorse statali fra diverse istituzioni di spettacolo. Questo tema, del tutto trascurato nei dibattiti di politica culturale in Italia, è invece molto sentito negli Stati Uniti, dove le decisioni del National Endowments for the Arts (l’agenzia pubblica che distribuisce i finanziamenti federali) sono frequentemente al centro del dibattito della comunità artistica americana.

FINANZIAMENTI PUBBLICI

Il problema può essere in linea di principio affrontato in due modi: si può optare per un sistema decisionale decentrato, in cui i cittadini – attraverso, ad esempio,  un sistema di voucher – scelgono quali istituzioni sono meritevoli di finanziamento pubblico ovvero per un sistema decisionale accentrato, per il quale un gruppo di esperti di settore nominati dal Governo decide autonomamente le sorti del finanziamento pubblico sulla base della qualità artistica o innovatività del progetto artistico e del budget presentati dall’istituzione culturale.
Nessuno di questi due meccanismi è stato implementato nella sua forma ‘pura’ in quanto entrambi presentano punti di forza, ma anche rilevanti punti di debolezza.
Da una parte, infatti, un sistema totalmente decentrato, pur conferendo la possibilità ad una vasta platea di pubblico di decidere come lo Stato debba spendere i soldi dei contribuenti, riducendo la separazione tra chi paga (la totalità dei contribuenti) e chi decide, potrebbe deprimere la qualità artistica e il carattere innovativo e sperimentale delle produzioni artistiche delle istituzioni di spettacolo. Tali istituzioni favorirebbero il gusto del pubblico per produzioni più popolari al fine di ottenere più voucher dai contribuenti e quindi più finanziamenti statali.
Dall’altra parte i sistemi che accentrano la decisione sulla distribuzione dei finanziamenti a un gruppo di esperti di settore, pur garantendo la qualità artistica dei progetti finanziati e proteggendo maggiormente la libertà espressiva di artisti e istituzioni da possibili influenze politiche, hanno da tempo evidenziato alcuni difetti. Con questo sistema si correrebbe maggiormente il rischio del cosiddetto regulatory capture (la commissione di esperti potrebbe favorire alcune istituzioni rispetto ad altre non per ragioni intrinseche di qualità, bensì a causa di preferenze di natura politico-ideologiche condivise solo da una parte della società , o peggio in virtù di legami e simpatie personali).

SOLUZIONI IBRIDE

Per questi motivi i meccanismi decisionali più diffusi in Europa e Nord America per la distribuzione dei finanziamenti statali sono attualmente “ibridi” e, schematizzando, possono ricondursi a due fattispecie: il modello della peer review vincolata e il modello dei challenge o reverse matching grants.
Il primo di questi modelli prevede l’attribuzione del potere decisionale sull’allocazione dei fondi a una commissione di esperti che esprimono un giudizio sulla qualità del progetto presentato dall’istituzione. La discrezionalità della commissione è tuttavia “temperata” stabilendo per via legislativa delle regole ulteriori per l’allocazione dei fondi come ad esempio la fissazione di alcuni limiti massimi e minimi all’entità del finanziamento erogato ad una singola istituzione, il rispetto di una certa equità nella dispersione geografica dei finanziamenti oppure la considerazione di criteri aggiuntivi, oltre alla qualità artistica, per la definizione dell’entità del singolo finanziamento. Quest’ultima fattispecie è quella utilizzata in Italia per la determinazione dell’entità del finanziamento derivante dal FUS alla singola istituzione di spettacolo. Ad esempio: la quantificazione del contributo destinato alle Fondazioni Lirico-Sinfoniche è definita mediante quattro differenti indicatori: media storica dei contributi ricevuti, qualità della produzione programmata, tipo di produzione realizzata nel triennio precedente alla richiesta di finanziamento, entità del costo del lavoro.

IL RUOLO DEL FINANZIATORE PRIVATO

Una seconda tipologia di modello ‘ibrido’ (attualmente non considerato in maniera estesa dai regolamenti FUS) è quello dei challenge grants, che prevede che per ogni euro/dollaro di finanziamento pubblico l’organizzazione deve ottenere  almeno tre (o quattro) euro/dollari di finanziamento non statale. Uno schema simile è quello dei reverse grants, in cui lo Stato assicura un proprio contributo in caso di un incremento considerevole delle fonti di finanziamento privato sia nella forma di donazioni da individui sia nella forma  di sponsorship da imprese private o fondazioni.
E’ interessante notare come tali sistemi di cofinanziamento sono stati introdotti in vari Paesi anglosassoni per evitare che l’ottenimento di un finanziamento statale possa, per varie ragioni, far diminuire l’incentivo dell’istituzione a ottenere finanziamenti privati.
Infatti, in questi schemi, i finanziamenti pubblici “seguono” la volontà dei donatori privati (che spesso sono anche spettatori fedeli all’istituzione) e non viceversa.
Inoltre tali schemi sono stati adottati in concomitanza di politiche fiscali restrittive o per fissare un limite massimo alla spesa governativa per singola istituzione artistica.
In Italia, proprio l’adozione di meccanismi istituzionali simili ai matching grants per l’allocazione delle risorse statali per lo spettacolo potrebbe rappresentare una via per nuovi “impresari” nella raccolta fondi per la cultura: teatri di prosa e fondazioni liriche sarebbero spinti a sviluppare in questo senso maggiori competenze di fundraising.
In altre parole: gli artisti e operatori questuanti in Piazza di Montecitorio si sposterebbero sotto la sede della Procter and Gamble o ‘protesterebbero’ attraverso richieste di donazione direttamente nella casella di posta  dei cittadini.

(1)    “Attori e registi : ci aiuti Napolitano”, Corriere della Sera del 17 luglio 2009, “Giù il Sipario. Lo spettacolo contro i tagli” La Repubblica, del 17 luglio 2009.

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TREMONTI BOND: UN AFFARE PER IL TESORO

  1. sigieri

    In Italia il problema incontra alcuni limiti che è bene tenere presente: 1) la enorme dispersione dell’offerta teatrale; 2) il numero di repliche dei lavori rappresentati particolarmente basso; 3) il costo totale delle messe in scena non coperto da abbonamenti e dallo sbigliettamento; 4) i compensi pagati agli interpreti che si polarizzano sugli estremi troppo alti e troppo bassi; 5) le difficoltà di accesso alla carriera tetrale economicamente remunerativa per i non figli d’arte; 6) la scarsità di scuole di eccellenza che preparino ai lavori teatrali (dopo la D’Amico,pochissime altre). E’ chiaro che il sistema di finanziamento del settore presuppone una razionale riorganizzazione dello stesso, cominciando a distinguere tra attività professionale svolta in forma continuativa e strutturata ed attività teatrale con caratteri più o meno di filodrammatica.

  2. Paolo Pesce ex componente commissioni Min.Beni e Att.Culturali

    I Fondi Fus sono distribuiti ai soggetti privati e no profit con un tetto di percentuale di intervento e tenendo anche conto della capacità degli organismi di accedere a risorse private (vedere reg.). Obiettivamente, tranne fisiologiche eccezioni, tali soggetti garantiscono in modo produttivo ed efficiente una vitalità culturale anche nei luoghi più sperduti del Paese. Uno dei nodi principali, che nessun governo ha avuto la volontà o capacità di sciogliere, rimane quello relativo alla riforma degli organismi pubblici ed a partecipazione pubblica. Fondazioni liriche, teatri di tradizione, stabili pubblici ecc. Poche decine di questi assorbono complessivamente tra il Fus ed i fondi pubblici locali il 60/70 % delle risorse disponibili in un quadro di monopolio corporativo e di assenza i concorrenza. Gli indicatori di valutazione delle Fondazioni Liriche, se pur interessanti, sono mortificati dal fatto che i contributi a queste ultime sono definiti all’interno di uno stanziamento complessivo predeterminato che sarebbe comunque assegnato alle sole Fondazioni anche se paradossalmente, tutte, in un determinato anno, esprimessero una scarsa qualità artistica.

  3. Paolo Cianciabella

    Frequento abitualmente le sale da concerto e sono socio di una di queste istituzioni culturali che come tante ha visto inaridirsi il finanziamento pubblico e correre seri rischi di sopravvivenza. Mi pare che l’analisi del prof. Turrini trascuri di inserire nella realtà italiana la fattibilità o appropriatezza delle politiche descritte. In particolar modo il ricorso massiccio alla sponsorizzazione o al "fundraising". In rapporto a Nord America e Nord Europa credo sia trascurabile il numero di aziende italiane di dimensione e cultura sufficienti per finanziare generosamente istituzioni culturali. Queste aziende sono concentrate al Nord. Legittime ragioni congiunturali possono far oscillare le erogazioni, anche fortemente. Per le stesse ragioni vanno riducendosi i fondi pubblici e il reddito disponibile dei privati. Chi va a teatro al concerto non è necessariamente danaroso. Poi a proposito della peer review vincolata e del FUS. Magari fossero applicati sistematicamente questi criteri a livello di PA centrale e locale! In realtà vediamo erogazioni fatte con criteri arbitrari in spregio di qualunque oggettività di valutazione ex-ante ed ex-post.

  4. Giulio Stumpo

    Condivido l’impostazione del contributo di Turrini, una cosa simile la sostenevo nella mia tesi di laurea più di 10 anni fa! Il tema però dovrebbe essere inquadrato in una più ampia prospettiva di riorganizzazione delle politiche culturali nel nostro paese, ahimé oggi completamente assenti.

  5. valerio tuccini

    Vorrei segnalare l’assenza, tra i criteri di ripartizione, a prescindere dalla loro adeguatezza o meno, di parametri legati al pubblico, il solo e unico destinatario dell’offerta di spettacolo, il mezzo attraverso cui questo settore può dirsi meritorio e, quindi, essere sussidiato. Come ricorda qualcuno, il nostro meccanismo FUS, pur pieno di difetti, permette – o sconta – una diffusione di teatri sul territorio che non ha eguali sul panorama internazionale. D’altra parte, il consolidarsi di comportamenti corporativi ha fatto si che, nel tempo, la capacità del sistema di autorigenerarsi si sia ridotta al minimo e, oggi, persistano situazioni di grande inefficienza, specialmente nella lirica che, d’altronde, dovrebbe anche essere considerata alla stregua di un "bene", oltre che un’ "attività" culturale (la cui salvaguardia varrebbe tanto quanto quella del patrimonio materiale). Il vero problema è capire in che modo, in Italia, si possa far aumentare il numero di persone (nuove) che frequentano i teatri, che godono del beneficio che giustifica l’intervento pubblico. Su questo aspetto, il sistema anglosassone, se "preso con le molle", ci potrebbe aiutare molto.

  6. Federica Ancona

    A mio parere quello che manca in Italia è un dibattito articolato sul tema del valore della cultura. Nel Regno Unito diversi studi sono stati condotti nel tentativo di determinare indicatori che misurino tale valore, ad es. output prodotto dal settore culturale come percentuale del GDP oppure esternalità positive in termini di impatto sociale. In entrambi i casi si tratta di effetti complessi da valutare in quanto l’indotto economico generato da organizzazioni culturali necessita l’uso di multipliers di complessa determinazione, così come l’impatto sociale si basa sull’esistenza di un rapporto causa-effetto tra una data iniziativa culturale e le sue conseguenze sociali che potrebbe essere individuato solo attraverso progetti a lungo termine (pluriennali) per i quali non è facile trovare adeguati finanziamenti. Malgrado tali limitazioni, nel Regno Unito un dibattito serio e costruttivo sui criteri di finanziamento alla cultura esiste e coinvolge continuamente l’opinione pubblica. In Italia putroppo la cultura viene considerata come una spesa piuttosto che un investimento e sarebbe a mio avviso necessario introdurre criteri di finanziamento legati alla performance.

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