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RITORNO ALLA FLESSIBILITÀ

Il governatore della Banca d’Italia esorta ad aumentare l’età effettiva di pensionamento. E il governo risponde che la riforma del sistema previdenziale è già stata fatta. E’ vero però che sulla legge Dini del 1995 sono intervenute modifiche che ne hanno modificato l’impianto. Una nostra proposta di gennaio 2009 prevede il ritorno alla flessibilità di uscita dal mondo del lavoro, spostando in avanti le finestre di età. Dunque, rispecchia in pieno gli auspici del governatore. Oltre a essere equa sotto il profilo intergenerazionale e a comportare notevoli risparmi.

L’intervento del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e la successiva risposta del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi hanno riaperto il dibattito sulla riforma pensionistica. Alla esortazione del governatore di aumentare l’età media effettiva di pensionamento, il governo ha risposto che non occorre rimettere mano alla questione. C’è però un problema: è vero che molto è stato fatto in tema di pensioni, ma tanto altro è stato disfatto. E in ogni caso resta una discrepanza tra le regole vigenti in Italia e quelle degli altri paesi europei, che pure hanno un’incidenza e una crescita della spesa pensionistica molto inferiore alla nostra.

DAL 1995 A OGGI 

È utile ripercorrere i passi principali.
L’impianto della riforma Dini del 1995 aveva previsto uscite dal modo del lavoro in una finestra dai 57 ai 65 anni per uomini e donne con aggiustamenti attuariali sulla prestazione pensionistica legati all’età in cui si sceglieva di lasciare il lavoro. Il “coefficiente” di aggiustamento era pari al 4,720 per cento a 57 anni e 6,136 per cento a 65 anni di età, premiando quindi chi restava sul posto di lavoro e penalizzando le uscite anticipate. In questo modo, il nuovo sistema di quiescenza risolveva una volta per tutte l’annoso problema delle pensioni di anzianità riportando a un unico meccanismo equo il calcolo della pensione e lasciando al lavoratore la scelta di quando smettere di lavorare e la responsabilità di riceverne premi o penalizzazioni.
Tuttavia, il meccanismo della Dini, che prevede un periodo di transizione molto lungo, non andava di fatto a intaccare le pensioni di anzianità che per tutti gli anni tra il 1996 e il 2007 hanno continuato a esistere seguendo le regole della precedente legislazione Amato del 1992. Queste regole innalzavano gradualmente l’età minima di accesso all’anzianità in relazione agli anni di contributi in modo che nel 2008 si potesse accedere alla pensione di anzianità con almeno 57 anni di età e almeno 35 anni di contributi versati. Anche l’età di accesso alla pensione di vecchiaia si alzava gradualmente rispetto alla legislazione Amato, fino a raggiungere i 60 anni per le donne e i 65 per gli uomini nel 2008.
L’intervento del 2004, noto come “scalone” del ministro Maroni e che si sarebbe dovuto applicare a partire dal 2008, ma non è mai entrato in vigore, prevedeva che per le pensioni di anzianità, assieme ai 35 anni di contributi, ci fosse un’età minima di accesso di 60 anni. La novità importante era che l’intervento di Maroni scalzava il meccanismo della Dini perché rimuoveva la fascia 57-65 e stabiliva che in pensione di vecchiaia si potesse andare con 40 anni di contributi o con 65 anni di età (60 per le donne).
L’intervento del 2007 del ministro Cesare Damiano di fatto ripristina i criteri di accesso al pensionamento del sistema retributivo pre-riforma 1995: fermo restando il requisito di anzianità contributiva non inferiore a 35 anni, viene aggiornato il sistema degli scalini e vengono introdotte le quote, secondo la seguente tabella.

Con queste regole, nel 2013 si potrà accedere alla pensione di anzianità con 35 anni di contributi e 62 anni di età o con 36 anni di contributi e 61 anni di età. Per quel che riguarda la pensione di vecchiaia, l’intervento di Damiano non modifica nulla di sostanziale confermando quindi il cambiamento previsto da Maroni.

FLESSIBILITÀ, EQUITÀ E RISPARMI

Molti esperti hanno auspicato un ritorno alla flessibilità introdotta dalla riforma Dini, con uno spostamento in avanti della finestra di uscita. Una nostra proposta di gennaio 2009 (LINK) mostrava chiaramente i vantaggi di tale cambiamento e rispecchiava quindi in pieno gli auspici del governatore.  
La proposta prefigura modifiche che non toccano le pensioni in essere, ma ritardano gli ingressi nel sistema pensionistico tra il 2010 e il 2030, anno in cui sarà pressoché completa la transizione al sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini. Le nostre simulazioni si concentrano perciò sulle generazioni nate tra il 1944 e il 1975. Come in passato (LINK), considereremo solo il lavoro dipendente, sia pubblico che privato, dato che è molto difficile acquisire informazioni adeguate per compiere simulazioni sul lavoro autonomo. I nostri risultati sono, quindi, da intendere come una sottostima dei risparmi potenziali di vari tipi di riforma, proprio perché non consideriamo il contributo che verrebbe dall’allungamento della vita lavorativa degli autonomi.
Le ipotesi di base utilizzate nelle nostre simulazioni sono spiegate in dettaglio nel documento allegato (LINK). Analizziamo i risparmi potenziali di una ipotetica riforma.
Il primo caso (Q nel grafico) rappresenta di fatto lo status quo, innalza progressivamente i requisiti anagrafici e contributivi per andare in pensione. In particolare, le cosiddette “quote” minime (la somma di anzianità anagrafica e contributiva) sono fissate a 95 a partire dal 1° luglio 2009, a 96 nel 2011 e 2012, e a 97 dal 2013 in poi. Si riducono i margini di scelta delle famiglie senza intaccare le quiescenze di chi sta andando in pensione.
La nostra proposta (BB2 nel grafico) è basata su un criterio di equità attuariale delle prestazioni. (1)
Sposta in avanti la finestra di uscita, gradualmente, in modo che l’intervallo di età entro cui viene mantenuta libertà di scelta sia 59-67 anni, a partire dal 2011. Introduce riduzioni attuariali di tutte le pensioni maturate dal 2011 in poi per chi, uomo o donna, va in pensione prima di 67 anni, applicando i fattori di correzione (i coefficienti di trasformazione aggiornati) previsti dal regime Dini alla sola quota retributiva della pensione. Gli effetti della riforma tendono dunque a ridursi, fino a sparire del tutto, con l’avvicinamento della data in cui le generazioni che vanno in pensione sono interamente sotto il regime contributivo. La riduzione dell’importo delle pensioni arriva a un massimo del 23 per cento se si esce a 59 anni e scende a zero se si esce a 67 anni (per uomini e donne). Quindi, per coloro che pianificano di andare in pensione a 67 anni, il trattamento rimane invariato rispetto allo status quo.
Per poter simulare i comportamenti degli individui ipotizziamo che le uscite siano distribuite in modo uniforme nell’ambito delle griglie di età disponibili.
I risultati delle nostre simulazioni sono riassunti nel grafico qui sotto. Mostra il profilo temporale dei risparmi conseguibili con la riforma. I risparmi cumulati nei primi dieci anni, fino al 2020 della nostra proposta sono 11.350 milioni di euro.
La riforma è equa sotto il profilo intergenerazionale, è flessibile e comporta anche notevoli risparmi. Gli interventi che bloccano le uscite, infatti, hanno perso gran parte della loro efficacia nel ridurre la spesa pensionistica, quindici anni dopo la riforma Dini.

(1) La proposta dell’on. Giuliano Cazzola (LINK) non si discosta da quella qui descritta e produce risultati analoghi.

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12 commenti

  1. Luigi Conti

    Poichè direttamente interessato, faccio notare quanto segue e come si possa quasi rovinare gente dopo 36 anni di lavoro. Poichè sono italiano e vivo in Italia quanto vale per me vale per tutti quelli nella mia situazione. Ho trentasei anni di contributi tutti retributivi (ex lavoratore autonomo costretto a cessare l’attività) raggiuno i requisiti di quota 96 nel novembre 2010. La mia finestra è quindi nel gennaio 2012. Ho già quindi pienamente subito (per 40 giorni) lo scalone Maroni trasformato in scalini da Prodi. La modifica che Voi presentate oltre che spostare l’età in avanti di un anno (dopo i tre di Prodi) ridurrebbe l’assegno prevendiziale, da quanto ho capito, del 20/25% circa. Assurdo. Bisogna aver rispetto dei cittadini ed avvertirli come minimo 10/15 anni prima di attuare queste possibili variazioni. Ritengo impensabile ed inaccettabile modificare la legge Prodi fino a quando non entri pienamente a regime nel 2013. Altre modifiche devono avvenire oltre quella data, come ad esempio quanto è già stato fatto legando le finestre all’aspettativa di vita dal 2015.

  2. Roberto Camporesi

    Mentre si riflette sul come cercare di allungare la permanenza al lavoro non sarebbe il caso di evitare la politica dei prepensionamenti?

  3. Marco Di Marco

    La flessibilità è in effetti già incorporata nel sistema delle quote. Infatti, nella proposta originale non si prevedeva un’età minima. Il punto è come definire la fascia di età. “Quota 97” è centrata sui 62 anni (che, con 35 di contributi, fanno appunto 97). Per alzare ulteriormente l’età pensionabile media, si potrebbe arrivare a regime a “quota 100”, che è centrata sui 65 anni, senza vincoli di età minima (ci vorrebbero 40 di contributi per andare in pensione a 60 anni). L’iniquità generazionale della Dini è la parte retributiva B, che va semplicemente abolita: perchè limitarsi a correggerla parzialmente, limarla "attuarialmente" etc.? La si può semmai conservare, estendendola alle generazioni del dopo-Dini, come incentivo a posticipare il ritiro, cioè darla a chi va dopo aver raggiunto quota 100. Ancor meglio, si potrebbe utilizzare una dei risparmi per aggiungere alla parte A contributiva un completamento redistributivo del sistema a favore degli assicurati a basso reddito. Ho molti dubbi invece sul taglio dei rendimenti futuri, esteso anche alle pensioni più basse.

  4. Antonio ORNELLO

    Così, ad occhio, mi pare che: – vi ostiniate a riproporre "i larghi risparmi" di gennaio scorso, già bocciati dai commenti; – di nuovo mentiate a sostenere che al lavoratore sia dato scegliere quando smettere; – non fate cenno alla possibile incostituzionalità della norma che impone l’applicazione del sistema di calcolo retributivo (vietando, di fatto, il contributivo) a chi, nel 2001, aveva 18 o più anni di contribuzione al 31/12/1995; – accettiate beatamente che milioni di lavoratori siano obbligati a lavorare (e contribuire) per la bellezza di sei anni in più (dai 34 anni, 6 mesi e 1 giorno fino ai 40 anni + 6 mesi di "finestra"), per poi avere in restituzione nemmeno l’importo della pensione dei 35 anni. Ma, essendo adesso tardi (e venerdì), ne riparliamo meglio da lunedì prossimo.

  5. mauro

    Bè, siete i soliti ad intaccare i diritti aquisiti per chi va in pensione fra pochi anni. E naturalmente ridurle e metterci a fame! Giusto parlare di pensioni a chi a meno di 50 anni, ma non è giusto a chi è prossimo. Perchè non parlate mai delle pensioni dei parlamentari, dei poteri dello stato, delle super pensioni dei manager? Perchè non mettete lì un tetto di 3/4000 euro per le pensioni? Solo per accapparrare soldi facili. Perchè non si va dai disonesti con capitali rubati e ora all’estero? I grandi evasori? Bè, per loro c’è o ci saranno i condoni! Qui ci sono i soldi che ci seviranno a vivere!

  6. Manzella Francesco coordinatore ppec gorizia

    Il sistema previdenziale, da tanti viene visto come la panacea di tutti i mali della società. Oltre a questo, aggiungerei altri problemi che bisogna affrontarli in maniera congiunta, ossia il lavoro e la riforma del welfare che porti ad un incremento demografico consono per un Paese civile e industrializzato come il nostro. Le politiche incentivanti o disincentivanti vanno adottate solo ed esclusivamente in una situazione transitoria o di emergenza come stiamo attraversando, mentre nell’ordinarietà della vita ed in un sistema stabile gli unici incentivi devono essere la realizzazione del bene comune ed il soddisfacimento dell’interesse generale.

  7. Enrico Dolcino

    Non voglio entrare nel merito della bontà della vostra proposta di ritornare alla flessibilità. Molto semplicemente voglio affermare due cose. La prima è che le aziende, secondo voi, sono contente di avere delle persone over 55 da formare in continuazione? Il mondo del lavoro si evolve e bisogna stare al passo. Mi sembra di ricordare una recente indagine in cui le aziende ritengono gli over 50 adatti alla formazione ma mica tutti possono mettersi a formare…chi? Il giovane assunto a tre/sei mesi che poi se ne va? La seconda è la capacità di resistenza e la performance che puà dare un over 50. Io abito nella ricca e servita Lombardia. Ho 54 anni e per recarmi al lavoro mi alzo alle 5.45 (la mia responsabile, con handicap, si alza alle 4,30). Non sono un fannullone e, quando sono le 15 inizio ad essere mentalmente stanco. Notate bene che faccio l’impiegato di banca. Ultimamente la mia azienda ha deciso di chiudere gli uffici presenti su uno stabile e spostare le attvità in altre sedi. I colleghi da riqualificare sono all’80% over fifty e l’azienda incontra molte resistenze nel ricollocamento.

  8. Massimiliano Santoni

    Beh… non credo che le proiezioni sui dati economici delle pensioni siano affidabili. Ci sono troppe variabili a medio e lungo termine che di fatto scardinano ogni ragionamento. Inoltre mi pare ancora troppo forte l’influsso politico che ha questa materia, che per un politico è come ‘trippa per gatti’. E’ facile dare una sentenza che poi non sarà oggetto di verifica nel corso della storia. L’altra questione invece è per metà di mercato e per metà antropologica. Mi domando con quale coraggio si promuova il posticipo del pensionamento quando il mercato del lavoro di fatto decreta la morte professionale di un ultracinquantenne e quando alla stessa età non si ricordano più bene già il PIN del Bancomat, come la password di rete.

  9. Francesco Pirone

    IIl discorso sulle riforme previdenziali dovrebbe considerare anche le tendenze del mercato del lavoro: all’innalzamento delle soglie (anagrafiche e contributive) di accesso al pensionamento, infatti, non corrisponde un allungamento delle carriere lavorative. Il fenomeno dell’uscita precoce dal mercato del lavoro in Italia è ancora molto forte. L’uso dei meccanismi di scivolamento tutelato verso la pensione, benché ancora molto frequente, risulta progressivamente meno efficace, sia perché si abbassa la soglia anagrafica in base alla quale si viene considerati “vecchi per il lavoro” (vedi over 45 anni), sia perché s’irrigidiscono i meccanismi di accesso alla pensione, con l’emergere di nuovi rischi di esclusione sociale. Il sistema delle imprese esprime un orientamento selettivo basato sull’età: l’espulsione dall’occupazione dei più anziani conviene sia per abbattere il costo del lavoro, sia per recuperare flessibilità, sia per aggiornare le competenze interne, puntando sull’avvicendamento generazionale anziché sulla formazione permanente. L’occupazione dei lavoratori più anziani è un tema rilevante, sottovalutato.

  10. Mari

    Nel 1971 ho iniziato a lavorare con il "patto" con l’INPS che avrei usufruito della pensione a 52 anni di età coi 35 anni di contributi. Strada facendo, unilateralmente, mi hanno cambiato le carte in tavola ed ora la prima data possibile è al compimento dei 60 anni, quindi un aumento di età lavorativa di 8 anni (nemmeno sono certa che la mia aspettativa di vita si sia parimente allungata). Oltre tutto, dal 2004 sono disoccupata e nel frattempo non ho trovato alcun impiego, e secondo i vostri studi, una volta arrivata a 60 anni dovrei forse richiedere un "assegno di sostentamento?" anzichè recepire la mia spettante pensione? Nelle vostre proiezioni non precisate che anche l’attuale governo con la legge Sacconi prevede un ulteriore e cadenzato aumento dell’età pensionabile dal 2015? Forse voi amate i "fondi pensione privati", ma anche volendo io non sono più in tempo. Ho personalizzato, ma è ovvio che purtroppo la mia situazione si può generalizzare.

  11. Dr. Antonio ORNELLO

    …che impedisce di scegliere il sistema contributivo al dipendente che aveva più di 18 anni di contributi al 31/12/95. E, per dimostrarlo, faccio l’esempio di un lavoratore dipendente che, nel 2005, a 53 anni, si era pagato, con soldi suoi, versati, la pensione contrattuale dei 35 anni: ebbene, quel dipendente è stato obbligato dalla legge ad arrivare a 40 anni + 6 mesi di contributi, ma senza alcun importo aggiuntivo di pensione o di rendimento delle ulteriori contribuzioni; e non basta: quel dipendente, decidendo di andare in pensione a 67 anni e, quindi, con 49 anni di contributi, non percepirebbe un Euro in più rispetto alla pensione che si era già pagato quasi 15 anni prima. Se voi, professori, consideraste solo questo, già sentireste puzza di incostituzionalità; ma il fetore aumenta insopportabilmente nel considerare che la legge in oggetto non si applica alle donne e nemmeno ai lavoratori autonomi. I risparmi previdenziali della vostra proposta stanno tutti qui, marci e puzzolenti. Se proprio non vi riesce di cercare l’equità, siate almeno più rispettosi del lavoro altrui!

  12. gp

    Invito l’autrice a leggere per intero la lezione tenuta dal Governatore della BdI a Moncalieri. Per chi non la trovasse, l’esortazione ad innalzare l’età pensionabile è inserita all’interno dell’analisi del primo pilastro (pagina 13) ma è preceduta e seguita da tutta una serie di affermazioni che non possono essere ignorate come hanno fatto la stragrande maggioranza dei giornali italiani. Trascurando tutta la parte sull’assicurazione contro il rischio di disoccupazione (come mai nessuno ne ha parlato?!?!), la lezione ha trattato il tema della protezione dei livelli di reddito durante la vecchiaia. A tal proposito è bene ricordare “l’incompletezza dei marcati finanziari” ed una critica ai fondi pensione, poco trasparenti e strutturati, esposti alla volatilità dei mercati finanziari, ecc. Inoltre sarebbe bene ricordare che, secondo Draghi, l’aumento dell’età media, per avere effetti positivi, deve “essere accompagnato da azioni che consentano di rendere più flessibili orari e salari dei lavoratori più anziani”.

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