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IL FALSO PROBLEMA DEL TASSO DI CAMBIO CINESE

Vedere la causa delle difficoltà economiche degli Stati Uniti nella sottovalutazione della moneta cinese, come fa ad esempio Paul Krugman, è un controsenso che può portare a scenari molto pericolosi per l’economia mondiale nel suo insieme. Una guerra commerciale tra i due paesi o l’imposizione di un apprezzamento del renminbi minerebbe la fiducia degli investitori internazionali e porterebbe a una ripresa dell’inflazione. Usa e Cina devono invece collaborare per elaborare una riforma che non si limiti alla sola politica del tasso di cambio.

 

Paul Krugman è uno degli economisti che più stimo: è una figura eminente nello studio del commercio internazionale, eppure la sua comprensione di alcuni temi di politica economica è quantomeno ingenua. Se l’amministrazione Obama dovesse seguire i suoi consigli, nei prossimi anni l’economia mondiale si troverebbe in seria difficoltà, se non in una nuova recessione.
Nel 2010, Krugman ha scoperto improvvisamente un nuovo e appassionato interesse per la politica del tasso di cambio della Cina. Già il 1° gennaio, nel suo articolo “Chinese New Year”, l’economista premio Nobel ha affermato che l’America ha perso un milione e quattrocentomila posti di lavoro a causa della sottovalutazione del renminbi, un fatto che l’ha portato ad abbracciare la causa del protezionismo contro la Cina. In un altro intervento, “China’s swan song”, Krugman ha suggerito al dipartimento del Tesoro di denunciare la Cina per manipolazione della valuta. Infine, il 12 marzo a un evento dell’Economic Policy Institute a Washington ha sostenuto che la crescita economica globale sarebbe di circa un punto e mezzo più alta se la Cina smettesse di mantenere basso il valore della sua moneta e di accumulare surplus commerciali.

SOTTOVALUTATO, MA DI QUANTO?

Molti economisti sarebbero d’accordo con Krugman sul fatto che il renminbi è sottovalutato, ma di quanto resta materia controversa. Per esempio, applicando l’approccio della parità del potere d’acquisto, Menzie Chinn (università del Wisconsin) e i suoi collaboratori hanno indicato una sottovalutazione di circa il 40 per cento. (1) Ma dopo la revisione al ribasso del Pil cinese a parità di potere d’acquisto operata dalla Banca mondiale, quella sottovalutazione è completamente scomparsa. Nick Lardy e Morris Goldstein del Peterson Institute of International Economics hanno suggerito che il renminbi fosse sottovalutato del 12-16 per cento alla fine del 2008. (2) Il mio collega dell’università di Pechino Yang Yao e i suoi collaboratori hanno trovato un disallineamento ancora più basso. (3)
Il tasso di cambio del renminbi è solo uno dei fattori, e forse neanche il più importante, che sono alla base degli importanti surplus commerciali e di parte corrente della Cina. Per esempio, alcune ricerche hanno attribuito il recente aumento degli squilibri esterni al dividendo costituito da un’unica popolazione e alla rilocalizzazione di industrie provenienti da altre economie asiatiche. Un mio stesso lavoro ha messo in evidenza l’importanza delle distorsioni nel mercato interno dei fattori, un’eredità dei sistemi di pianificazione centralizzata economici precedenti la riforma. (4)
Per risolvere il problema dello squilibrio globale, Cina, Stati Uniti e altri paesi dovranno lavorare insieme e adottare un pacchetto di riforme più vasto, che si incentri non soltanto sul regime di tasso di cambio, ma anche su riforme strutturali interne nei rispettivi paesi. Un’attenzione concentrata esclusivamente sulla questione del tasso di cambio del renminbi finirebbe probabilmente per essere inefficace e controproducente. Tra metà 2005 e metà 2008, il renminbi si è apprezzato del 22 per cento rispetto al dollaro e del 16 per cento in termini reali effettivi. Ma gli squilibri esterni della Cina hanno continuato ad ampliarsi rapidamente.
Gli Stati Uniti hanno iniziato a perdere posti di lavoro nella manifattura molto prima che la Cina emergesse come centro manifatturiero mondiale. Il surplus di bilancia dei pagamenti cinese è cresciuto dopo il 2004, ma gli attuali deficit di bilancia dei pagamenti americani sono esplosi all’incirca al volgere del secolo. Ciò non significa negare che Cina e Stati Uniti debbano lavorare insieme per risolvere il problema degli squilibri. Ma dire che il surplus della Cina ha causato i deficit statunitensi, che sono emersi molto prima, è semplicemente contrario al buon senso.

PRESSIONI E SCELTE POLITICHE

Dunque, cosa accadrebbe se l’amministrazione Obama seguisse i consigli di Krugman? Prima di tutto, la revisione della politica del tasso di cambio subirebbe un rallentamento, non un’accelerazione. Il 6 marzo il governatore della Banca di Cina Zhou Xiaochuan ha detto con chiarezza che l’attuale politica di soft peg del renminbi sul dollaro è stata una risposta temporanea alla crisi finanziaria globale e finirà con la fine di questa. Tali affermazioni suggeriscono in modo chiaro che le autorità cinesi stanno cercando il momento giusto per uscire dal soft peg, un momentoi che potrebbe essere ora imminente.
Ma trovare il momento giusto non è sempre semplice. Il “gioco” politico tra Cina e Usa sul tasso di cambio del renminbi può essere ben descritto come un caso di “dilemma del prigioniero”. È importante ricordare che, come quelli americani, anche i leader cinesi devono tener conto delle pressioni politiche interne. E dare la sensazione di cedere alle richieste statunitensi può indebolire in modo sostanziale la posizione dei leader cinesi e la loro capacità di agire nell’interesse di tutti. È più probabile che la Cina si muova più velocemente se gli Stati Uniti mantengono una posizione calma e razionale. In larga misura è esattamente quello che è accaduto con la riforma del tasso di cambio del luglio 2005.
Ma è qui che nasce il dilemma del prigioniero. Dovesse la Cina liberalizzare la propria politica di tasso di cambio, i politici e i commentatori americani non vorranno rimanere in silenzio, perdendo così un’opportunità di ottenere un credito politico. Anzi, alcuni politici americani probabilmente sperano in cuor loro che la Cina non faccia niente. Molti comprendono perfettamente che la rivalutazione del renminbi non riporterà i posti di lavoro negli Stati Uniti. E se ciò accadesse, dovrebbero trovare un nuovo capro espiatorio per la disoccupazione a due cifre. Nel frattempo, il governo cinese è riluttante a mutare in modo significativo le sue politiche sotto la pressione straniera. Ecco perché l’intervento di Krugman rende solo più difficili le cose.

SCENARI PERICOLOSI

Cerchiamo di immagine alcuni scenari nei quali Krugman ottiene quello che chiede: il dipartimento al Tesoro americano denuncia la Cina per manipolazione di valuta e l’amministrazione Obama lancia una guerra commerciale contro la Cina. Se questo dovesse accadere, lo scenario più probabile è che la Cina manterrebbe il suo attuale regime di tasso di cambio e risponderebbe con sanzioni commerciali contro gli Stati Uniti. Questo porterebbe a una riduzione del commercio tra i due paesi e, più importante, danneggerebbe seriamente la fiducia degli investitori mondiali. Una guerra commerciale tra le due più grandi economie non è una cosa da poco per l’economia mondiale. Un futuro ancora più incerto, indurrebbe gli investitori a ridurre i piani di investimento e i consumatori a tagliere le spese.
Uno scenario meno probabile è che la Cina sia costretta ad apprezzare significativamente la sua valuta, diciamo del 40 per cento. Se l’aggiustamento del tasso di cambio fosse imposto all’improvviso, probabilmente comporterebbe notevoli difficoltà per le imprese cinesi. Di nuovo, i risultati potrebbero essere due. Primo, le imprese cinesi non sarebbero più capaci di esportare a causa dell’improvvisa perdita di competitività. Il vuoto di mercato reso nuovamente disponibile dall’uscita dei prodotti cinesi sarebbe coperto da altri paesi a basso costo, come Vietnam o India. Le imprese americane non potrebbero competere con questi paesi. Così, non si avrebbero nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, crescerebbe invece il tasso di inflazione.
Poiché le esportazioni generano più di un terzo dell’economia cinese, una caduta dell’export comporterebbe molte difficoltà: la crescita del paese asiatico conoscerebbe una forte decelerazione, come è avvenuto nel 2008. Sarebbe grave, considerato che la maggior parte delle più importanti economie è ancora alle prese con la ripresa e un’improvvisa debolezza della più dinamica economia mondiale manderebbe messaggi terribili ai mercati mondiali: la fiducia degli investitori tornerebbe a scendere notevolmente.
Il possibile secondo risultato è che la Cina continui a esportare nel mercato Usa, a prezzi più alti ma con profitti più bassi. Ciò spingerebbe verso l’alto, e in modo significativo, i tassi di inflazione negli Stati Uniti e costringerebbe la Fed a irrigidire rapidamente la sua politica monetaria. Due passi che potrebbero danneggiare la ripresa degli Stati Uniti, che ancora non si regge su basi solide. Rinnovate difficoltà di Stati Uniti e Cina, le due più grandi economie del mondo, avrebbero un impatto negativo sulla fiducia degli investitori globali.
In entrambi i casi, se la Cina rivalutasse la sua moneta come chiede Krugman, la crescita dell’economia globale sarebbe di circa un punto e mezzo più bassa e non più alta. L’ordine di grandezza è probabilmente esagerato, ma la direzione è certa.

* L’articolo è apparso anche su East Asian Forumdel 15 marzo 2010.

(1) Chinn, Menzie D., Yin-Wong Cheung and Eiji Fujii, 2008, "Pitfalls in Measuring Exchange Rate Misalignment: The Yuan and Other Currencies," mimeo University of Wisconsin, Madison, forthcoming in Open Economies Review.
(2) Goldstein, Morris and Nicholas R. Lardy, 2009, The Future of China’s Exchange Rate Policy, Peterson Institute for International Economics, Washington D.C., U.S. page 69.
(3) Wang, Zetian and Yang Yao, 2008, "Estimation of renminbi equilibrium exchange rate", China Center for Economic Research Working Paper No. C2008006, Peking University, Beijing.
(4) Huang, Yiping and Kunyu Tao, 2010, "Causes and remedies of China’s external imbalances", China Center for Economic Research Working Paper No. E2010002, Peking University, Beijing.

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  1. P. Magotti

    Punto di vista alquanto stupefacente, senza contare la scarsa umiltà nel bollare come ingenua l’idea di Krugman. Krugman non è certo un liberista e se punta il dito contro il cambio non libero di fluttuare un motivo ci sarà. Gentile Yiping Huang, vuole sapere quanto è svalutato il Renminbi? Lasciatelo libero di fluttuare e una settimana dopo sapremmo quanto era svalutato. E se non è svalutato, come pare lei supporre, perché non lasciarlo libero di fluttuare? Non perderete di certo competitività. Ma credo che non ci crediate nemmeno voi a quello che dite. Invece sono d’accordo, com’è ovvio, che gli Stati debbano collaborare di più tra loro, ma per creare un sistema veramente liberista, senza dumping sociali e ambientali. Però temo che per collaborazione, lei non abbia in mente proprio questo. Infine non commento le machiavelliche ipotesi di scenari, sembrano fatte appositamente per creare ulteriore caos nella questione e nascondere il problema.

  2. enzo

    1) Perchè non lasciare che sia il mercato a decidere quale deve essere il tasso di cambio giusto fra moneta cinese e le altre valute?2) Come può la Cina pretendere che nonostante tassi di crescita tanto diversi il valore del dollaro (e quindi delle riserve cinesi) resti lo stesso?

  3. dvd

    Si può essere d’accordo su quanto sostenuto dall’autore, ma non trovo proposte e non si danno grandi alternative. Per quanto possa essere sbagliata o debole la proposta Krugman è una proposta, che a me pare anche di buon senso nelle intenzioni, la differenza la fa eventualmete come la si applica. Rivalutazione del 50% o del 20%!? La mia osservazione non da tecnico è che trovo molto strano che la Cina, che è oramai una grande potenza economica , non abbia una moneta pari alla sua potenza e di riferimento per gli scambi mondiali. E’ un player che gioca con regole interne inesistenti in materia di sicuerezza e salute oltre che di orari di lavoro e protezioni salariari e con regole esterne "truccate", del tipo "la mia moneta non esiste, è insignificante per i rapporti commerciali e non rappresenta un fattore competitivo" , come invece l’euro, che per il solo effetto del piano Grecia ci ha già rimesso contro dollaro. Mi sta bene che così facendo si corra il rischio che "forse" entrino in gioco altri player "scorretti" come Vietnam o altri, ma è tutto da vedere. Per il momento mi sembra che sia necessario fermare chi già gioca "scorretto".

  4. SL

    L’articolo mi ricorda come molti economisti francesi ed italiani scrivevano negli anni ’50-’60-’70. Postulavano che un mercato perfetto è un mercato protetto ed esaltavano il tasso di cambio rigido che era di moda .La Francia ha voluto perfino usare l’oro (gold bullion) come metro di riferimento. Basti rivedere le tre decadi in questione, quando l’Europa cresceva e questi Stati nazionali svalutavano per essere competitivi con i maggiori concorrenti: Germania, Giappone, USA. La valuta Cinese non è convertibile; l’economia Cinese è dirigista e segue le decisioni del suo Politburo. Allora, qual è il valore del renminbi e perchè gli autori de lavoce temono una perdita di fiducia e di instabilità davanti ad una valuta che fluttua e trova il suo equilibrio (imperfetto) ed abbastanze realistico? Siete nostalgici di un passato morto e sepolto?

  5. Federico Giri

    Come tutti i sistemi a cambi fissi che si sono succeduti nella storia, anche la "Bretton Woods 2" ha una buona possibilità di fare la stessa fine nei possimi anni. La differenza con il passato è la portata di un eventuale aggiustamento, sia da parte Statunitense che Cinese, conseguente ad un’eventuale fuga dal dollaro da parte delle autorità di Pechino. Mi spiace, ma il cambio renmimbi dollaro è un vero problema su cui le diplomazie dei vari paesi faranno bene a lavorare un po’, onde evitare guai negli anni a venire.

  6. E.QUARTA

    La soluzione proposta da Krugman non e’ praticabile semplicemente perche’ gli Usa hanno bisogno dei soldi dei Cinesi (un terzo del debito Usa e’ nelle mani del dragone Cinese) ed e’ per questo motivo che non si possono permettere di scatenare una guerra commerciale con quel paese. La scelta di Krugman, come di molte altre teste pensanti americane ed europee, e’ quella di non aver capito che nel 2009 il mondo e’ cambiato. Nel 1989 e’ crollato il comunismo reale (meno male) mentre nel 2009 e’ crollato il capitalismo reale (finanziario). Nessuno accetta facilmente la sconfitta senza colpi di coda. La sconfitta del predominio politico -economico (euro-americano) porta con sè la perdita di punti di riferimento. Quando mancano i punti di riferimento scattano i meccanismi automatici di sopravvivenza che a volte sono le peggiori soluzioni. L’Europa e gli Stati Uniti si trovano in una condizione di post-disastro economico e non hanno soluzioni se non quelle di scatenare il protezionismo e/o la guerra.

  7. SL

    Non sono gli USA a tremare di una fuga cinese dal dollaro. Al contrario è la Cina che non alternativa. La Cina deve continuare ad accumulare dollari perché l’America paga i suoi acquisti in dollari e la Cina ha in tale bisogno del mercato americano che continuerà ad accumulare dollari dal suo maggiore partner commerciale. Il vecchio dello italiano "molti debiti, molto onore" che, oggi siprende come esempio gli USA, è sempre valido. Basterebbe ricordarsi il duo Connely-Nixon per rinfrescarsi la memoria.

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