Commento dopo le modifiche apportate dal parlamento
Articolo 43 su semplificazione amministrativa: l’unico cambiamento è che la semplificazione non si applica, oltre che agli adempimenti di natura tributaria come già previsto nella versione originale, anche a quelli di pubblica sicurezza e di incolumità pubblica.
Articolo 42 su reti di imprese: purtroppo, in quanto articolo 42, viene prima del 43 sulla semplificazione. E non gode quindi degli effetti della semplificazione. L’articolo è stato complicato e allungato a dismisura, tanto da diventare di difficile comprensione. Si disciplina nel dettaglio la redazione del contratto di rete. Il comma 2-quater, sotto riportato, richiede l’intervento di un linguista per individuare soggetto, predicato e complemento. Da quello che si capisce, stabilisce che una quota di utili destinati al contratto di rete è esente da tassazione. L’esenzione richiede però una procedura intricata (si veda il testo sotto). Il comma 2-quinquies stabilisce i limiti complessivi per l’agevolazione: 20 milioni per il 2011 e 14 milioni per il 2012 e 2013. Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate dovrà emanare un ulteriore provvedimento per stabilire modalità e criteri di attuazione dell’agevolazione, anche per assicurare il rispetto del limite complessivo. Anche nell’ipotesi non ovvia che questa sia un’iniziativa utile (si veda il commento sotto alla prima versione del testo), i fondi sono troppo limitati per avere un impatto significativo. Sicuramente però la norma offre materiale per il prossimo provvedimento di semplificazione della burocrazia.
La manovra e la competitività: commento dell’8 giugno 2010 alla versione pre-emendamenti
Un proverbio turco recita: Se stai annegando ti aggrappi anche a un serpente. Non c’è dubbio che una correzione dei conti pubblici era necessaria, e quindi la manovra è stata vista da molti come un salvagente. Purtroppo, più la si guarda e più sembra un serpente. Il problema principale è che non si affronta nessun nodo strutturale, anzi alcuni provvedimenti aggraveranno la situazione.
NON SI VIVE DI SOLE PMI
Il settore pubblico ne esce umiliato. Passa il principio di una massa di sfaccendati di cui non ci si può sbarazzare, ma che si deve vessare. Il blocco indiscriminato degli stipendi è una pietra tombale su qualunque speranza di uno Stato efficiente e snello, con meno dipendenti pubblici, più responsabilizzati e, nel caso lo si meriti, meglio pagati (e viceversa). Sarebbe stata più coraggiosa una riduzione immediata (perché il blocco degli stipendi nominali è una riduzione di stipendio, e molto consistente) che permettesse comunque di applicare meccanismi premiali e avanzamenti di carriera per i giovani meritevoli. Ministro Brunetta, se c’è batta un colpo.
Lo stesso principio si è applicato nel caso degli enti soppressi: invece di razionalizzare, si è chiuso senza che emerga un disegno organico e senza veri risparmi, a parte quelli simbolici dei cda e presidenti, valutati da Tito Boeri e Mssimo Bordignon nell’ordine dei 2 milioni l’anno. Meglio sarebbe stato individuare davvero gli enti inutili e mettere in atto politiche di riduzione strutturale della spesa. Dove c’era veramente materia di razionalizzazione, tipo le famigerate province o i grandi enti previdenziali Inps e Inpdap, non si fa niente.
Le norme per lo sviluppo sono poche e poco utili. Quelle che usano la leva fiscale sono già state commentate su queste pagine da Silvia Giannini e Cecilia Guerra.
L’articolo 43 introduce le zone a zero burocrazia per il Meridione, in deroga ai regolamenti in vigore. L’idea è sembrata così buona che il ministro del Tesoro e il presidente del Consiglio l’hanno rilanciata su larga scala: si tratterebbe di sospendere per 2-3 anni le autorizzazioni per le Pmi, le attività artigiane e la ricerca. Giulio Tremonti intende proporla in sede G20 e all’Ecofin. Peccato che, in molti paesi, l’apertura di una attività è già un adempimento leggero, senza scomodare i Grandi della Terra, la Costituzione, la filosofia e l’etica. Il principio della deroga alla norma denota l’incapacità di correggere una legge quando non va bene. Non si capisce perché non si possa proseguire sulla strada dello sportello unico, valutandone l’esperienza e formulando i correttivi necessari. Più in generale, i confronti internazionali mostrano che in Italia i tassi di natalità sono in linea, se non superiori, con quelli degli altri paesi industrializzati. Il problema è che poi le nostre imprese non crescono. Quindi, più che barriere all’entrata, bisogna interrogarsi sulle barriere alla crescita delle imprese. Le Pmi sono importantissime, ma non si può vivere solo di piccola impresa. Un’economia avanzata ha bisogno anche di medie e grandi aziende che facciano gli investimenti in ricerca e sviluppo, in marchi, in nuovi prodotti. E sono queste le imprese che scarseggiano in Italia. Non credo che si possa ovviare alla loro mancanza favorendo fiscalmente i distretti, come fa l’articolo 42, che ripropone quanto già stabilito dal decreto legge 10 febbraio 2009, n. 5 sulla tassazione di distretto. La norma, che prevede il coordinamento fra le imprese per ripartire il carico tributario e un concordato preventivo con l’Agenzia delle entrate, mi sembra difficile da mettere in pratica. Sarebbe interessante fare una valutazione della sua applicazione.
L’articolo 53 introduce il Contratto di produttività. Data la sua indeterminatezza e dato che il sostegno fiscale è ancora da determinare, non c’è niente da commentare.
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davide
L’autore parte dal pubblico che viene mortificato e finisce interrogandosi sul nanismo di impresa. A me pare che il motivo fondamentale del nanismo economico italico stia molto nel disservizio del pubblico e dal fatto che non ci sono tutele giuridiche per chi produce. Basta girare per l’Europa e si vedono le differenze. I ristoranti sono anche sul marciapiede e nessuno si lamenta, c’è rispetto per il lavoro altrui, da noi l’ente preposto farebbe chiudere subito. Le aziende vengono maggiormente tutelate per i crediti, da noi viene messo in dubbio che il credito verso la tua consociata sia fattura falsa e via con le richieste e le verifiche di due o tre per volta e per giorni quando ci vuole due minuti. In certe parti del mondo civile se il titolare lascia a casa un dipendente perchè non fà il proprio dovere non si trova i sindacati alla porta a criminalizzarlo ma a capirne le ragioni. Forse mortificare un pò il pubblico, sì che i giovani comprendono che si devono rivolgere altrove per vivere (e altrove bisogna pedalare) porta ad un progressivo ridimensionamento del pubblico e poi si potrà parlare di qualità anche lì, perchè nel privato è la prima regola per vivere.
MP
Prima dice che all’estero "in molti paesi, lapertura di una attività è già un adempimento leggero, senza scomodare i Grandi della Terra", e implicitamente ammette che da noi non è così. Poi dice che, comunque, anche se così dovesse diventare, non conterebbe molto, perchè "in generale, i confronti internazionali mostrano che in Italia i tassi di natalità sono in linea, se non superiori, con quelli degli altri paesi industrializzati". Vedo due possibilità conseguenti: o la facilità con cui si può avviare un’attività ha impatto minimo o nullo sul numero di imprese che si formano (affermazione piuttosto controcorrente), oppure, invece, effettivamente ce l’ha, ma se è così ne vien fuori un dato positivo per l’Italia che lei non coglie: lo spirito imprenditoriale da noi è tale, che supera ogni ostacolo e ogni barriera, rimosse le quali, anzi, sarebbe lecito aspettarsi un’esplosione cambriana di imprenditorialità.
Antonio Bonanno
Sono un ricercatore di 34 anni e lavoro in media 9-10 ore al giorno per uno stipendio fisso, sempre fisso (non ho straordinari)! Il mio contratto di lavoro prevede 7.12 ore di lavoro al giorno, quelle che faccio in più le regalo allo stato. Questo sabato ho lavorato a casa tutto il pomeriggio, non capita sempre, ma capita abbastanza spesso! Il mio istituto lavora molto con le aziende (non abbiamo mai consegnato uno studio in ritardo!) e si trova lontano dal centro città (in una zona industriale); noi non abbiamo la possibilità di andare al bar a prendere il caffe, ci accontentiamo della macchinetta. Mi permetto di dissentire, quindi con chi dice che "altrove" si pedala, mentre nel pubblico no: ci sono posti nel pubblico dove si pedala molto più che nel privato…e lo dice uno che nel privato ha lavorato. Io non mi lamento dei tagli di stipendio che porterà la finanziaria, mi sembra giusto che tutti si contribuisca al risanamento del paese, ma vorrei vedere anche idee di sviluppo che, mi pare latitino attualmente.
davide
Non per polemizzare ma… Appunto se uno vuole. Che ci si senta un pò mortificati lo comprendo, ma se può aiutare quando iniziai io il lavoro dopo l’università (e non sono secoli addietro eh…) ho lavorato per quasi un anno a compenso zero, solo rimborso spese minime e a volte si doveva lavorare anche 12/13 ore al gg. Per poi migliorare piano, piano, non a balzi, la mia situazione economica, studiando la sera il sabato e la domenica per anni. E sono molto felice di avrlo fatto e lo consiglio a tutti e spero che i miei figli possano farlo. Per il tipo di lavoro non avevo neppure la certezza che poi sarei riuscito. Solo la grande volontà di fare quello che poi sto facendo mi faceva sorridere e non mi faceva pesare il lavoro. Nessun moralismo, non serve granchè, ma mi pare che oggi persone anche molto brave tendono ad avere pretese prima di …, oppure a porsi delle domande sul e se dopo…? Ti piace quello che fai allora fai e basta. Non ti piace cambia! La competizione è anche questo per me..!
MARCO
Non dimentichiamoci che ogni Paese, ogni Popolo ha i governanti che si merita.
Antonio Frustaci
In una parola: le licenze. Qualunque discorso sulla competitività non può, a mio parere, ignorare l’obbrobbrio civile, prima che giuridico, della vendita delle licenze, che pare una cosa normale in Italia, visto che non ne parla mai nessuno. Io faccio (anche) il commerciante e sono esposto tutti i giorni alle regole del famoso mercato. Esistono invece delle "categorie protette" dalla licenza, appunto, che li mette al riparo dalla concorrenza. Non appagati di ciò questi signori al termine della loro attività lavorativa vendono l’atto amministrativo che in origine era stato dato gratuitamente dalla P.A. ad un prezzo congruo con i privilegi che essa garantisce, e generalmente in nero. Mi chiedo come sia possibile che, nemmeno in tempi di emergenza finanziaria, nessuno rilevi questa enormità: non solo si usurpa il ruolo di pianificazione e regolazione della P.A. che non può mettere becco su chi sia il compratore della licenza, ma le si sottrae anche una possibile fonte di guadagno che potrebbe ottenere, ad esempio, mettendo all’asta le licenze libere. Si potrebbero così anche ripagare le aspettative di chi per ultimo ha acquistato una licenza. Mi dite anche come mai nessuno ne parla?