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UN ACCORDO E MOLTI PROBLEMI IRRISOLTI

Un accordo positivo che limita ma non elimina i problemi: è questa la sintesi che si può trarre dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011.

L’ARTICOLO 39 DELLA COSTITUZIONE

Positivoinnanzitutto perché segna, se non un ritorno all’unità d’azione delle tre maggiori centrali sindacali, quantomeno un arresto del conflitto semi-permanente iniziato nel 2009 con la firma separata da parte di Cisl e Uil, con la Confindustria, degli accordi sulla riforma degli assetti contrattuali.
Non si può dire, tuttavia, che elimini tutte le questioni aperte del sistema di relazioni industriali italiano: da questo punto di vista, l’Accordo sembra porsi in marcata continuità con tale sistema.
Basti pensare che le parti sociali hanno limitato la richiesta di intervento legislativo rivolto al Governo alla sola incentivazione fiscale e contributiva della contrattazione di secondo livello. Si evita, non a caso, di chiedere il recepimento legislativo del contenuto dell’Accordo, perpetuando quindi quel sistema sindacale “di fatto” sviluppatosi dall’inizio del secondo dopoguerra in seguito alla storica inattuazione della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione.
È proprio questa seconda parte – mai modificata né abrogata, come ci ricorda Pietro Ichino – che impedisce l’introduzione di meccanismi legislativi che estendano erga omnes l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi senza attenersi a quanto da essa prescritto, circostanza, questa, che si riflette anche sulla contrattazione aziendale oggetto principale dell’Accordo.
È vero, infatti, che gli ultimi commi dell’articolo 39 non si occupano dei contratti aziendali, riferendosi al concetto sovra-aziendale di “categoria”. Ma è anche vero che uno dei corollari della “libertà di organizzazione sindacale” sancita dal primo comma di quell’articolo – che opera anche in assenza di una specifica attuazione legislativa – è quella di impedire, in linea di principio, la  automatica vincolatività di un contratto collettivo nei confronti di chi non è iscritto al sindacato che lo ha stipulato.
È questo il limite dell’Accordo: per quanto le parti sociali abbiano stabilito dei meccanismi attraverso i quali l’efficacia del contratto aziendale dovrebbe estendersi a tutta la forza lavoro, i lavoratori non iscritti ad alcun sindacato o iscritti a sindacati diversi da quelli che hanno firmato  l’Accordo non possono considerarsi automaticamente vincolati da questo e, quindi, neanche dalla contrattazione aziendale stipulata in attuazione dello stesso.
Né questi problemi possono superarsi sulla base dei meccanismi previsti dai punti 4 e 5 dell’Accordo: il principio maggioritario previsto per la decisione delle Rsu si scontra con un vulnus di “democraticità” originario di tale organo, eletto a suffragio universale per i due terzi e composto per il restante terzo da membri nominati dai sindacati che hanno stipulato il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Quanto al referendum previsto in presenza di Rsa (organismi nominati dai sindacati), può ritenersi forse che il risultato elettorale vincoli chi lo promuova o chi vi partecipi (oltre agli iscritti a Cgil, Cisl e Uil, vincolati sulla base dell’Accordo): altrettanto non può dirsi per coloro i quali non partecipino al voto, magari proprio perché dissenzienti rispetto all’Accordo.
Svolte queste osservazioni, nondimeno l’Accordo può essere valutato favorevolmente: il sistema di relazioni industriali italiano ha dato prova negli anni di poter fare i conti con un dissenso che se pur organizzato rimane, al di fuori dei tre maggiori sindacati, largamente minoritario, né va sottovalutato che la giurisprudenza si esprime tradizionalmente – pur, a volte, in maniera surrettizia – a favore della efficacia generalizzata dei contratti collettivi aziendali. Quel che invece è molto più difficile da “assorbire” – come si è dimostrato nel corso di questi ultimi due anni – è il dissenso di una delle tre storiche confederazioni: al di là delle considerazioni strettamente giuridiche, i loro “numeri” e la loro “rappresentatività” anche al di là dei propri iscritti sono tali da rendere alla lunga insostenibile, sui luoghi di lavoro, una situazione di conflitto con una di esse.
Il ritorno della Cgil all’interno del “sistema” è quindi centrale per il funzionamento dell’apparato produttivo italiano, anche se – come già osservato – non tutti i nodi vengono sciolti: il dissenso manifestato dalla Fiom all’Accordo e il fatto che lo stesso non operi retroattivamente mantengono aperta la battaglia processuale, combattuta con alterne vicende, che da un paio di mesi si sta svolgendo in merito al contratto nazionale dei metalmeccanici siglato nel 2009 dalle sole Cisl e Uil, in attuazione degli accordi separati del 2009. Non è neanche chiaro che cosa succederà di quegli accordi e del sistema di assetti contrattuali da loro introdotto: l’Accordo non ne parla anche se i suoi contenuti si sovrappongono parzialmente a quelli degli accordi separati.

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IL CASO FIAT

Altro problema aperto è il caso Fiat: come osserva Pietro Ichino, l’Accordo non è utilizzabile per risolvere la controversia in corso e non è affatto detto che esso soddisfi la casa di Torino: esso conferma la centralità del contratto collettivo nazionale – ribadendo che la contrattazione aziendale si svolga soltanto sulle materie da esso demandate – e riafferma la titolarità individuale del diritto di sciopero. Le clausole di tregua sindacale, difatti, saranno vincolanti per i soli sindacati e non per i singoli lavoratori.
Nonostante le critiche di “marchionnismo” mosse da sinistra all’Accordo, questi due punti in particolare potrebbero andare di traverso a Sergio Marchionne, rendendo il rientro di Fiat in Confindustria niente affatto scontato: come dimostra la lettera che lo stesso Marchionne ha inviato il 30 di giugno a Confindustria.
In estrema sintesi sono questi i problemi irrisolti lasciati dall’Accordo, la cui portata, nelle intenzioni, “generale” sarà probabilmente – come spesso è accaduto in passato – verificata nelle aule dei tribunali del lavoro.
Va tuttavia osservato che al di là delle accuse di scarsa democraticità rivolte in queste ore all’Accordo, esso sembra presentare gli anticorpi necessari a resistere a un simile attacco rivolto in sede giudiziaria. La conferma della possibilità per i singoli lavoratori di scioperare, se necessario anche contro i contratti collettivi aziendali e i meccanismi di estensione generalizzata degli stessi, lascia nelle mani dei soggetti dissenzienti l’arma principale del conflitto sindacale: nessun datore di lavoro firmerà un contratto aziendale se il conflitto esercitato da una parte dei propri lavoratori è tale da impedire il regolare funzionamento dell’impresa.
E, sempre in termini di democraticità, gli ultimi due paragrafi dell’Accordo prevedono che le tre storiche confederazioni e le loro organizzazioni di categoria predispongano strumenti di coinvolgimento di tutti i lavoratori, anche non iscritti ad alcun sindacato, nella redazione delle piattaforme contrattuali e nell’approvazione delle ipotesi di accordo, anche per quanto riguarda i contratti collettivi aziendali, potendo prevedere anche “momenti di verifica per l’approvazione degli accordi mediante il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori in caso di rilevanti divergenze” tra i sindacati.
Si tratterà di verificare come questi strumenti verranno posti in essere ma, qualora si prevedesse la necessaria sottoposizione delle piattaforme contrattuali e degli accordi a referendum, l’attacco motivato sulla base della scarsa democraticità del sistema sarebbe davvero un’arma spuntata. 

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  1. Stefano Valenti

    "Si tratterà di verificare come questi strumenti verranno posti in essere ma, qualora si prevedesse la necessaria sottoposizione delle piattaforme contrattuali e degli accordi a referendum, l’attacco motivato sulla base della scarsa democraticità del sistema sarebbe davvero un’arma spuntata". Una cosa è certa: non avete alcuna idea di come vadano le cose, nella realtà, sui luoghi di lavoro. Nel settore bancario, nel quale lavoro io, gli accordi firmati dai sindacati (tutti i sindacati, escluso il SALLCA-CUB, cui nella mia banca aderisce solo l’1 per cento dei dipendenti) sono sottoposti ad approvazione dei dipendenti mediante votazioni farsa, per alzata di mano dopo assemblee condotte, ovviamente, dai soli sindacati che gli accordi li hanno firmati. Sindacati i cui rappresentanti non sono mai eletti in maniera democratica, cioè con votazioni a scrutinio segreto. Questo sistema aberrante sarà ora esteso a tutte le categorie. Le conseguenze sono facili da immaginare: i "datori di lavoro", cioè i padroni, avranno mano libera, con la connivenza dei sindacati o di una maggioranza di essi. Contenti?

  2. Bruno Perin

    Per rendere esigibile l’accordo sarebbe necessaria una legge. La legge verrebbe applicata in tutti i settori, quindi occorre innanzitutto eliminare la soglia dei 15 dipendenti presente nella legge 300. Milioni di lavoratori e interi settori stanno sotto tale soglia e per loro è precluso il diritto all’iscrizione sindacale tramite delega o la rappresentanza sindacale. Se permanesse la storica indisponibilità della CISL alla legislazione in merito, tutto sarebbe demandato ai singoli contratti. Il meccanismo della certificazione degli iscritti demandato all’azienda dovrebbe essere corredato dalla possibilità di verificare la veridicità da parte di una commissione sindacale territoriale e ovviamente il terzo riservato ai firmatari dei contratti nelle RSU deve essere abrogato perchè sarebbe sufficiente solo il 18% di quella RSU eletta da tutti i lavoratori per rendere operativo l’accordo senza la possibilità di referendum. Solo lo spirito di responsabilità delle parti sociali, in un delicatissimo equilibrio troppo condizionato dal contesto politico-economico in cui si decidono le regole, potrà determinare la tenuta delle relazioni e la certezza dei patti sottoscritti. Troppo debole!

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