Marchionne lancia la Fiat in una nuova avventura, la globalizzazione della struttura manageriale, che precede la prossima fusione con la Chrysler. Lesperienza dellindustria automobilistica suggerisce di dedicare molta attenzione allintegrazione tra diverse culture aziendali, per costruire sinergie a partire dalla diversità senza imporre la visione del più forte. Cosa che non riuscì allOlivetti 50 anni fa quando ottenne il controllo della Underwood, allepoca la maggiore acquisizione di una società americana da parte di una multinazionale straniera.
Il consiglio di amministrazione che la Fiat ha tenuto martedì 26 luglio in Brasile ha posto le basi per lo sviluppo futuro di Fiat-Chrysler in un contesto di globalizzazione accelerata. Dora in avanti Fiat-Chrysler funzionerà come un soggetto dimpresa unitario, senza attendere che si realizzi la fusione fra le due società. Potrà sfruttare la sua forza in tre mercati lEuropa, il Nord America e il Brasile e cercare di guadagnare spazio in Asia; e potrà fare tesoro della diversità del suo top management per lappunto europeo (e non più soltanto italiano), nordamericano (Sergio Marchionne stesso è cresciuto in Canada) e brasiliano (riunirsi a Betim, la più grande fabbrica mondiale del gruppo, è stato un chiaro omaggio a Cledorvino Belini, il patron della filiale brasiliana ma anche il presidente di Anfavea, lassociazione brasiliana dei costruttori).
Organizzare un gruppo multinazionale è notoriamente difficile, perché le relazioni tra quartiere generale e sussidiarie tendono ad essere naturalmente conflittuali. Non ha caso è proprio la capacità di gestire questa conflittualità, in cui lunità dintenti e la coerenza delle strategie coesistono con lattenzione per le particolarità locali e la cross-fertilization di idee e best practices, che ha costituito storicamente la chiave del successo delle multinazionali americane, antesignane della globalizzazione.
FUSIONI DIFFICILI: DA SUZUKI-WOLKSWAGEN
Tante fusioni, o anche meno ambiziosi collaborazioni, internazionali sono fallite perché la cultura delle imprese coinvolte non ha permesso di rispondere a queste sfide. Che la storia dimpresa sia ricca dinsegnamenti lo dimostra del resto il fatto che il primo testo accademico sulle multinazionali, American Business Abroad: Ford on Six Continents di Mira Wilkins e Frank Ernest Hill, sia appena stato ristampato, 47 anni dopo la sua pubblicazione originale!
Lultimo caso è quello del fidanzamento tra Suzuki e Volkswagen. Celebrato in pompa magna a fine 2009, quando per 1,7 miliardi di euro la casa tedesca acquisì il 19,9 per cento del quarto costruttore nipponico, che simpegnò ad investire la metà della somma ricevuta in azioni Volkswagen, è entrato in crisi ben prima delle nozze. La logica industriale era apparentemente cristallina Wolfsburg avrebbe condiviso le proprie tecnologie avanzate, in particolare per i motori ibridi, e beneficiato delle competenze della Suzuki nelle piccole cilindrate. Eppure il sospetto che Volkswagen voglia appropriarsi del controllo del suo partner, consolidandone le operazioni nei propri risultati aziendale e riducendolo di fatto al proprio undicesimo marchio commerciale, spiega limmensa freddezza con cui la partnership è vissuta in Giappone.
La Volkswagen non è ancora arresa, anzi domenica 11 settembre ha accusato la Suzuki, che recentemente ha firmato un accordo con la Fiat per motorizzare un nuovo modello con un motore diesel del Lingotto, di avere disatteso i termini dellaccordo di collaborazione. Se però gettasse la spugna non sarebbe il primo costruttore occidentale a farlo. Ford si lanciò in unavventura simile nel 1979, rilevando un terzo del capitale della Mazda e, malgrado i trasferimenti di conoscenze tecnologiche e lintegrazione tra stabilimenti, ha finito per vendere tutto tra 2008 e 2010. Daimler, dopo la fusione proprio con la Chrysler, si alleò con la Mitsubishi nel 2000, ma quattro anni dopo dovette gettare la spugna.
Marchionne può iniziare col trarre ispirazione dallesperienza di Louis Schweitzer e Carlos Ghosn di Renault. La casa francese acquistò il 36,8 per cento del capitale della Nissan nel 1999, preferendo fin da subito parlare dalleanza piuttosto che di matrimonio. La strategia è stata stimolare lo scambio didee e di pratiche tra il personale delle due case, mantenendo lidentità culturale di ciascuna, spiegano Ulrike Mayrhofer e Christoph Barmeyer.
…FINO A OLIVETTI – UNDERWOOD
E il Lingotto può anche studiare un caso, ormai dimenticato, di grande takeover italiano, anzi piemontese, negli Stati Uniti. Quando lOlivetti acquistò lUnderwood nel 1959, realizzò la maggior operazione mai tentata da una multinazionale straniera negli Stati Uniti. Al tempo non cera dubbio su chi tenesse il coltello dalla parte del manico lazienda di Ivrea aveva il vento in poppa, grazie alleccellenza dei suo prodotti, alla capillarità della propria rete di vendita e alla propensione internazionale che laveva caratterizzata fin dalla nascita. Eppure quellacquisizione fallì, certo per molteplici motivi (la repentina morte di Adriano poche settimane dopo il closure delloperazione, la debolezza della struttura di governante dellimpresa orfana del suo artefice, limminente e improvviso deterioramento della congiuntura) ma anche per la scarsa attenzione che lOlivetti dedicò a preservare lidentità e la cultura della gloriosa società del Connecticut.
La fortuna arride agli audaci, ma la prudenza non è mai troppa nella post-merger integration ed è fondamentale evitare di apparire troppo smaccatamente come il socio che domina la nuova entità.
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Massimo Tosatto
I partner tedeschi non sono i migliori per le operazioni di fusione. Troppo monolitici e convinti di essere i numeri uno, hanno fallito miseramente con Daimler nel take over di Chrysler, portando la casa più redditizia del mondo, Chrysler appunto all’inizio dei ’90, con modelli trendy come la PT Cruiser e simili, sull’orlo della bancarotta in breve tempo. Certo, occorre una scelta, e la scelta è stata fatta sulla base di Chrysler, non di Fiat, che rimane alla fine abbastanza collaterale rispetto a Chrysler.
roberto rovatti
il problema legato alla globalizzazione dei manager è affascinante ma non facile da realizzare per questioni di mentalità diverse e stili di vita senza trascurare le gelosie interne. il lato positivo è dato dalla nascita di una maggiore creatività nei progetti e di nuovi stimoli, è comunque un segnale di cambiamento nell’approccio imprenditoriale.
marco Alimonti
Non mi sembra ci siano indicazioni che sarà la Fiat a gestire la nuova entià. Piuttosto il contrario. Il mercato di riferimento sembra essere sempre di più il Nord Amerca, è chiara l’intenzione di massimizzare l’utilizzo degli impianti al di fuor dell’Italia, non si fa mistero dell’intenzione d trasferire il quartier generale a Detroit. Lo stesso Marchionne si è guardato bene dallo spostare la famiglia in Italia e continua a pagare le tasse a Zug. Si appiccica uno stemmino Fiat o Lancia a modelli Chrysler e li si vende in Italia mentre la sola Fiat venduta negli Stati Uniti, la 500, è poco sostenuta e sta già mancando i suoi obiettivi di vendita. Con l’Alfa Romeo senza più modelli e la Ferrari facile da vendere, resterà solo il Brasile e la Polonia da integrare nella nuova Chrysler. A Torino si potrà sempre ammirare il Lingotto …