Lavoce.info

QUALI SONO LE IMPRESE CHE BATTONO LA CRISI

La crisi ha colpito duramente le Pmi italiane. Ma l’evidenza dei dati di bilancio indica che il processo di ristrutturazione è andato avanti comunque. Il risultato è una marcata polarizzazione dei risultati. Le imprese espulse dal mercato erano già fragili prima e il credito bancario è stato allocato in modo selettivo. Quelle che sono cresciute sono caratterizzate da una maggior quota di capitale immateriale rispetto al totale dell’attivo. Anche durante la crisi, il successo è passato attraverso la “terziarizzazione” della strategia d’impresa.

La crisi iniziata nel 2007 ha investito il sistema produttivo italiano nel mezzo di un processo di ristrutturazione. Come già argomentato su queste pagine, il contesto competitivo in cui operano le imprese manifatturiere italiane è radicalmente mutato dalla metà degli anni Novanta. Sono entrati sullo scenario internazionale paesi a basso costo del lavoro (in particolare la Cina) ed è venuta meno la possibilità di ricorrere a svalutazioni competitive dopo l’adozione dell’euro. Questi fattori hanno eroso il vantaggio competitivo di molte piccole e medie imprese, abituate a competere prevalentemente sui costi di produzione. Ne è conseguito lo stallo della produttività che dura ormai da quindici anni. Le evidenze pre-crisi indicavano tuttavia che alcune imprese di successo avevano modificato il loro modello di business, focalizzando la loro strategia sulle attività a monte (R&S, design, pubblicità) e a valle (reti distributive, accesso a nuovi mercati, assistenza) della pura fase produttiva, tipico focus delle Pmi tradizionali. Così facendo, hanno differenziato i loro prodotti da quelli dei concorrenti e sono sfuggite alla pura competizione di prezzo. In questo schema, che potremmo definire di terziarizzazione dell’attività manifatturiera, hanno acquistato importanza gli investimenti immateriali, tipici delle attività menzionate sopra, rispetto a quelli materiali.

GLI EFFETTI DELLA CRISI

Quale è stato l’effetto della crisi sul processo di ristrutturazione? Da una parte, potrebbe aver accelerato la transizione, espellendo dal mercato le imprese non in grado di affrontare questa trasformazione. Dall’altra, è possibile che le aziende che avevano ristrutturato, investendo in capitale immateriale, fossero finanziariamente più esposte delle altre, e quindi maggiormente a rischio di essere travolte dalla tempesta finanziaria. I dati di bilancio di un insieme molto esteso delle società di capitali (oltre la metà) tratti dall’archivio di Cerved Group permettono di affrontare questa domanda. (1)
La crisi economica ha colpito duramente le Pmi (definite come imprese con ricavi compresi tra 2 e 50 milioni di euro). Fra il 2007 e il 2009, ultimo anno con dati comparabili fra paesi, il fatturato delle Pmi si è contratto di circa il 12 per cento in Italia, più del doppio di Francia e Germania, anche se decisamente meno del 19 per cento della Spagna (figura 1). Nonostante la ripresa del 2010 (+4,4 per cento per l’impresa mediana), il fatturato rimane inferiore al valore del 2007 del 5,4 per cento. La contrazione è stata più forte nelle piccole rispetto alle medie imprese. Le aziende hanno reagito alla caduta dei ricavi tagliando i costi esterni e tentando di contenere quelli per il personale. La crisi ha comunque fatto diminuire i margini lordi più dei ricavi, con un forte aumento nel numero di aziende che hanno chiuso in rosso il bilancio. Sono aumentati i ritardi nei pagamenti e le società con un rilevante squilibrio corrente. La platea di Pmi si è ridotta di circa il 10 per, sono aumentati i casi di default e sono diminuite le nascite.
Questo quadro generale fortemente negativo nasconde una marcata eterogeneità nelle performance individuali. La figura 2 riporta la distribuzione dei tassi di crescita del fatturato fra il 2007 e il 2010. Emerge una forte polarizzazione della crescita: il 44 per cento delle imprese ha registrato una contrazione superiore al 10 per cento mentre il 31,6 per cento ha realizzato una crescita superiore al 10 per cento. Il 12 per cento delle imprese ha sempre accresciuto i ricavi tra 2007 e 2010 e il 3,3 per cento migliore è riuscito ad aumentare il fatturato ogni anno a ritmi superiori al 10 per cento. Anche restringendo l’attenzione alle Pmi manifatturiere, maggiormente colpite dalla caduta della domanda, la presenza di imprese che hanno navigato contro corrente non è trascurabile: il 37 per cento ha superato nel 2010 i ricavi del 2007, l’8,4 per cento è sempre cresciuta nel periodo 2007-2010 e il 2,3 per cento lo ha fatto sempre con tassi a due cifre. I casi di successo si trovano in tutti i settori, a indicazione del fatto che le determinanti della performance sono le caratteristiche individuali delle imprese e degli imprenditori più che il settore di appartenenza.
Una questione a lungo dibattuta riguarda il ruolo dell’offerta di credito nel corso della crisi. I dati di bilancio non confermano la tesi di un forte “credit crunch” che si ricava da altre fonti. Il valore complessivo dei debiti finanziari nei bilanci delle Pmi è infatti leggermente diminuito nell’annus horribilis (-0,4 per cento tra 2009 e 2008), ma tra 2007 e 2010 risulta in crescita del 9,6 per cento (figura 3). Come per il fatturato, anche per i debiti finanziari si è registrata una forte differenziazione degli andamenti: fra il 2007 e il 2010 il 44 per cento delle imprese li ha accresciuti e il 37 per cento li ha ridotti più del 10 per cento. Questa evidenza suggerisce che le banche hanno operato una selezione attenta nel valutare il rischio di credito e nella conseguente concessione di prestiti. A conferma di ciò, la figura 4 riporta la distribuzione delle società fallite rispetto a un indice di solidità desumibile dal bilancio depositato tre anni prima del fallimento. La gran parte delle società fallite era già fragile prima della crisi. Rispetto al periodo pre-crisi, la quota di società “fragili” nel totale dei fallimenti si è accresciuta leggermente durante la crisi: non si è attenuato il meccanismo di selezione.

Leggi anche:  Sovraturismo, un successo da gestire bene

L’IMPORTANZA DEL CAPITALE IMMATERIALE

L’evidenza discussa indica che la crisi non ha interrotto il processo di ristrutturazione delle imprese italiane. Al contrario, sembra aver accelerato la selezione delle imprese, aprendo il ventaglio della performance fra aziende che hanno saputo comunque crescere durante la crisi e quelle che invece ne sono state travolte. Ma quali sono le caratteristiche delle imprese che hanno saputo crescere nonostante la crisi? La figura 5 riporta la quota di capitale immateriale rispetto al totale attivo per le imprese manifatturiere che hanno sempre aumentato il fatturato durante la crisi e per le altre imprese, separatamente per macrosettore. Con la sola eccezione dei metalli, in tutti i settori le aziende che sono cresciute registrano un peso maggiore degli investimenti immateriali, in molti casi nell’ordine del doppio delle altre imprese. Come atteso, la quota varia notevolmente fra settori, in particolare in relazione al contenuto tecnologico. Allo stesso tempo, anche nei settori tradizionali del “made in Italy” (sistema moda e casa) le imprese di successo hanno investito molto più decisamente in immateriali. Anche in questi settori, la crescita passa per la differenziazione del prodotto ottenuta investendo in “intangibles”.
In conclusione, la crisi ha colpito duramente le Pmi italiane. Allo stesso tempo, l’evidenza dei dati di bilancio indica che il processo di ristrutturazione è continuato anche in questo scenario difficile. Si è verificata una marcata polarizzazione della performance. Le imprese espulse dal mercato erano già fragili prima della crisi e il credito bancario è stato allocato in modo selettivo. Infine, le imprese che sono cresciute durante la crisi sono caratterizzate da una maggior quota di capitale immateriale rispetto al totale dell’attivo: anche durante la crisi, il successo è passato attraverso la “terziarizzazione” della strategia d’impresa.

Figura 1: Tassi di crescita dei ricavi delle PMI (2009 rispetto a 2007)

Fonte: Bach

Figura 2: Distribuzione della crescita di crescita dei ricavi, 2010 vs. 2007

Leggi anche:  Sulle telecomunicazioni il Rapporto Draghi ha luci e ombre

Fonte: Cerved Group

Figura 3: tassi di crescita dei debiti finanziari delle PMI

Fonte: Cerved Group

Figura 4: Società fallite per rating economico-finanziario tre anni prima del fallimento

Fonte: Cerved Group

Figura 5: Il peso degli investimenti immateriali fra il 2007 e il 2010

Fonte: Cerved Group. Le imprese definite come “crescita” sono quelle che hanno sempre accresciuto il fatturato dal 2007 (12% del totale). L’attivo immateriale sul totale attivo è calcolato come media del triennio.

(1) Osservatorio Cerved Group sui bilanci 2010, numero 2 – www.cervedgroup.com

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Calciomercato: il momento di un cambio di passo

Precedente

PERCHÉ L’ITALIA NON CRESCE

Successivo

IL PATRIOTTISMO ECONOMICO È UN’ALTRA COSA

10 commenti

  1. Giuseppe Cadel

    La svalutazione competitiva in voga nel passato ha portato a una scarsa cultura dell’innovazione e della ricerca, con le imprese (grandi o piccole) che, anziché investire con convinzione sullo sviluppo del prodotto, aspettavano semplicemente la svalutazione della Lira per tornare a essere competitive sui mercati stranieri. Riguardo invece alla crescita della quota di “capitale immateriale”, mi chiedo se (ed eventualmente quanto) i dati risentano delle rivalutazioni di voci come i marchi e l’avviamento, di recente diffusione proprio per cercare di dare ai bilanci un po’ di sollievo.

  2. Marcello Battini

    Il testo non è da commentare in se. Per fare questo occorrebbe avere dei dsti statistici alternativi, rispetto a quelli presentati. Una cosa, però, mi sento di suggerire alla redazione della “voce”: quello di pubblicare, per ogni articolo, le fonti d’informazioni utilizzate. Cordialità.

  3. gabriella bettiol

    Bella analisi che corrisponde con quanto stiamo osservando nelle aziende del Veneto. Riguardo all’investimento negli “intangibles” sarebbe interessante esplodere maggiormente gli indicatori e capire quanto competenze e accurata gestione delle risorse umane oltre che, magari!!, una maggiore connessione con centri di ricerca e/o università abbiano contribuito al famigerato sviluppo nuovo prodotto – che non può essere “un magico apparire” ma frutto di nuove combinazioni delle formule imprenditoriali.

  4. bob

    i numeri e le statistiche non fanno la realtà, la fotografano con molta approssimazione! Volete fare un giro nella realtà quotidiana di banche e altro per toccare con mano qualcosa di completamente diverso da quello che dite? Dico una sola cosa: questo è un Paese vecchio soprattutto nelle istituzioni, con le banche al 1° posto! Saluti, titolare di impresa.

  5. l.albertini

    il dato è interessante assai. resta un dubbio: cosa si intende di preciso per captiale immateriale? ricerca e sviluppo (innovazione tecnica e/o commerciale organizzativo distributivo)? marchi? e come si misura?

  6. francesco pontelli

    Al di là delle varie tematiche e risultati emerge in modo inequivocabile come la ” sbornia” da ITC sia venuta a bomba. L’innovazione ha senso solo se applicata al mondo industriale espressione della OLD economy in moda da ridurre il Time Market , per ridurre la intensità di mano d’opera per unità di fatturato. In altre parole gli ultimi vent’anni sono stai persi a correre dietro a falsi miti , Francesco Pontelli

  7. Bruno Stucchi

    E’ da almeno mezzo secolo che ovunque non si parla che di innovazione, ricerca, sviluoppo. Mesta nenia, tiritera, litania, ritornello, mantra, manfrina, psittacismo, eccetera. Come se l’innovazione fosse un prodotto. Già, perché una mattina, un progettista si sveglia e decide: oggi vado a innovare. No. L’innovazione, come la qualità, non sono un prodotto, ma un processo, che non si inventa a tavolino, in accademie, tavole rotonde, congressi eccetera.

  8. Paolo

    La scarsa propensione agli investimenti si vede macroscopicamente anche nell’industria automobilistica: mentre Marchionne affermava che fare nuovi modelli in tempi di crisi non ha senso, i vari Audi, Volkswagen, Bmw e altri hanno ottenuto risultati importanti anche negli ultimi due anni, seppure in una situazione di calo delle vendite.

  9. Massimiliano Tornati

    Ritengo che la crisi economica che ha investito le Pmi italiane e non solo sia da accreditarsi a un modello industriale in grave crisi culturale. E’ necessario lasciare andare concetti di pianificazione arcaici ma è necessario rimodernare e se necessario passare per modelli Lean StartUp se necessario ma è necessario crescere in valori di conoscenza. Oggi a dirigere aziende sono figli di imprenditori costretti a farlo in una mentalità vecchia retrograda formata da interconnessioni che non hanno più nulla da dare, simile alla politica, forse questo vuol dire che la cultura italiana che sia politica che sia industriale ha bisogno di essere rilanciata. Allora partiamo dalle scuole, da organizzazione su social network e quant’altro …

  10. Roberto Santoro

    Mi congratulo per l’analisi e mi chiedo se l’innovazione, quale fattore di successo da voi rilevato, sia ascrivibile alla capacità di riformarsi di imprese storiche piuttosto che all’ingresso di nuovi e valenti imprenditori sul mercato. La risposta non sarebbe indifferente in termini di politiche di sviluppo da proporre a livello nazionale. Inoltre sarebbe interessante apprezzare eventuali concentrazioni geografiche del fenomeno (sono zone depresse che recuperano più velocemente terreno? e che ruolo gioca la vicinanza ai distretti industriali?). Infine avete parlato di capacità selettiva delle banche ma non mi è chiaro se vi sia una correlazione con i risultati conseguiti dalle imprese; d’altronde incrementi dei fidi potrebbero essere alternativamente destinati a finanziare investimenti o coprire debolezze finanziarie. Grazie dell’attenzione, RS PS: Concordo con gli altri commentatori sull’opportunità di indagare più in dettaglio i driver dell’innovazione.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén