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QUANTA CONFUSIONE SU BASILEA *

I limiti della regolamentazione finanziaria emersi nella crisi globale hanno riacceso il dibattito su quale sia il modo più efficace per regolamentare le banche. Ma è ragionevole continuare con un’architettura proporzionata ai rischi assunti dalle banche? Bisogna concentrarsi su quattro aspetti: tenere distinto il rischio di credito da quello di liquidità; non sottovalutare la dimensione temporale degli eventi; considerare il ruolo dell’arbitraggio regolamentare e il valore informativo della regolamentazione. Oltre alla capacità di imporne il rispetto.

I limiti della regolamentazione finanziaria emersi durante la crisi del 2007-08 e, più di recente, le difficoltà delle banche ad affrontare le forti tensioni originate dalla crisi del debito sovrano hanno riacceso il dibattito su quale sia il modo più efficace per regolamentare le banche. La direzione della riforma della finanza definita dopo la prima fase della crisi – di cui le norme di Basilea 3 (1) rappresentano la maggiore novità – è ormai tracciata, ma non mancano i dubbi e le preoccupazioni sull’opportunità di proseguire su questa strada. Ciò che è più controverso è quanto sia ragionevole continuare sul sentiero, intrapreso venticinque anni fa, di una regolamentazione proporzionata ai rischi. Il principio cardine degli Accordi di Basilea è rappresentato dal capitale proprio di cui ogni banca deve disporre per far fronte alle perdite a cui va incontro nello svolgimento delle sue attività. Tali perdite dovrebbero essere coperte dal capitale proprio, vale a dire quello versato dai propri azionisti, possibilmente senza intaccare le risorse gestite per conto dei clienti. Ma quanto capitale deve detenere una banca? Il problema è stato risolto imponendo una data proporzione tra il capitale e una misura dei rischi insiti nell’attivo bancario. Proprio la necessità di misurare i rischi fa sì che la normativa risulti molto tecnica e complessa. Sorge allora il dubbio che, grazie ad una disciplina tanto complessa, le banche possano facilmente nascondere la vera quantità di rischi che hanno assunto determinando in questo modo una sottostima del capitale di cui dovrebbero dotarsi. Il fallimento negli ultimi anni di alcune grandi banche che risultavano in linea con le regole di Basilea alimenta, questi dubbi e da più parti si invoca il passaggio ad un regolamentazione molto più semplice che preveda una proporzionalità tra il capitale e l’attivo nominale, non misurato quindi in base alla sua rischiosità. In questo dibattito, senzaltro stimolante, è tuttavia assai facile incorrere in errori e imprecisioni che non aiutano la comprensione. Senza la pretesa di toccare tutti i temi in campo, ci limitiamo a evidenziare quattro aspetti che, a nostro parere, se trattati in modo superficiale o trascurati, possono generare confusione: i) l’utilità di tenere distinto il rischio di credito da quello di liquidità, e i relativi presidi; ii) la necessità di non sottovalutare la dimensione temporale degli eventi di cui si discute; iii) il ruolo dell’arbitraggio regolamentare; iv) il valore informativo della regolamentazione e il suo enforcement.

LIQUIDITÀ E SOLVIBILITÀ

Il primo aspetto da chiarire riguarda le diverse fonti di rischio che una banca fronteggia, e in particolare il confine tra rischio di liquidità e rischio di credito. Il rischio di credito si manifesta attraverso il fallimento (default) delle controparti a cui la banca presta risorse finanziarie. Eliminare completamente tale rischio non è possibile, a meno di non snaturare completamente l’attività e il ruolo stesso delle banche, tuttavia esso deve essere mantenuto entro limiti accettabili. Infatti, l’insolvenza di un cliente determina per la banca una perdita ovvero un costo. Oltre un certo livello, tali costi non sono più sostenibili nel senso che la banca non è grado di generare reddito a sufficienza sia per coprire i costi sia per garantire unadeguata remunerazione al capitale investito. Anche il rischio di liquidità è insito nella normale attività di una banca che raccoglie risorse a breve termine (ad esempio i depositi) e le impegna a lungo termine (ad esempio con i mutui): la trasformazione delle scadenze è il core business delle banche (almeno di quelle tradizionali). Il rischio di liquidità si manifesta nel momento in cui la banca non è in grado di far fronte alle richieste di rimborso da parte dei creditori, non perché le risorse siano andate perse ma perché sono impegnate in attività non facilmente liquidabili. È vero che nella pratica la distinzione tra rischio di credito e di liquidità è meno netta di quanto lo sia nella teoria, se non altro perché una situazione di prolungata illiquidità non può che degenerare in insolvenza. Crediamo sia tuttavia opportuno mantenere i due piani concettualmente distinti. Tirare in ballo i capital ratios per le banche fallite nell’attuale crisi non è un esercizio sempre corretto, posto che in molti casi anche di banche ben patrimonializzate è stata la liquidità la dimensione lungo la quale la crisi ha acquisito forza e velocità; in altri termini, la solidità patrimoniale è condizione necessaria ma non sufficiente per la stabilità di un intermediario.
I regolatori internazionali avevano senz’altro sottovalutato il rischio di liquidità, non disciplinato in alcun modo fino a pochissimo tempo fa. Tuttavia, esso ha trovato ampio spazio nelle recenti norme di Basilea 3, pubblicate dal Comitato di Basilea nel dicembre del 2010. Sarebbe quindi utile discutere, piuttosto, sulla loro potenziale efficacia e magari proporre correttivi o possibili alternative.

L’ASPETTO TEMPORALE

Sgombrato il campo da questo equivoco, è legittimo domandarsi quanto i ratios patrimoniali avessero catturatocorrettamente il rischio di credito che andava accumulandosi nei bilanci delle banche. Per questo, è importante ricostruire correttamente la tempistica degli sviluppi regolamentari degli ultimi anni, per non fondare le proprie argomentazioni su nessi causa-effetto sbagliati. (2)
Basilea 2
 è entrata in vigore praticamente in concomitanza con la crisi 2007-08 e di certo non ha potuto dispiegare a pieno i propri effetti nel corso di quegli eventi. (3) Ricalcolare quindi i ratios patrimoniali che le banche avrebbero avuto secondo le regole di Basilea 2 nel periodo precedente alla crisi, non fornisce alcuna prova che il loro comportamento fosse condizionato da queste regole quando ancora non erano in vigore. Piuttosto, sorprende che non ci si domandi quanto le precedenti norme di Basilea 1 di cui sino a poco tempo fa erano chiari a tutti i limiti, a partire dai forti incentivi all’arbitraggio
abbiano favorito l’accumularsi dei rischi che hanno poi innescato la crisi.

 COMPLESSITÀ E ARBITRAGGIO

La misurazione regolamentare dei rischi (a partire da quello di credito) viene spesso indicata come tallone d’Achille dell’attuale regolamentazione, proprio per via della sua eccessiva complessità. Tante, troppe opportunità di arbitraggio si nasconderebbero nella Babele di tecnicismi che richiedono alle banche di calcolare il cosiddetto attivo ponderato per il rischio (risk-weighted assets, Rwa).
Che Basilea 2 introduca maggiore complessità è un fatto incontrovertibile. Si potrebbe argomentare che il fenomeno regolamentato (l’operatività bancaria) è di per sé complesso e concludere facilmente citando George Bernard Shaw:
Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Tuttavia, il nostro intento non è quello di perorare una particolare causa, ma solo di fornire spunti per una discussione più proficua e circostanziata. Preferiamo allora soffermarci a ricordare che una delle ragioni che condussero alla riforma di Basilea 2 fu proprio quella di ridurre l’arbitraggio regolamentare. Ammesso anche che tale obiettivo non sia stato raggiunto, ci si dovrebbe sforzare di spiegare in che modo le alternative proposte, qualora prevedano più semplici modalità di classificazione delle poste degli attivi bancari, possano risolvere il problema.
Prendiamo la più estrema delle alternative, i limiti alla leva finanziaria, in cui nessuna ponderazione viene applicata (il che in realtà equivale a dire che tutte le attività sono ponderate al 100 per cento) e vediamo come funzionerebbe, con un semplice esempio.
Due diverse banche hanno identico valore del totale attivo. Una delle due ha investito in attività relativamente sicure (ad esempio, crediti verso famiglie garantiti da ipoteche su immobili); l’altra ha investito unicamente in fondi speculativi, dunque potenzialmente molto rischiosi. Se la regolamentazione si limitasse a imporre un livello di fondi propri proporzionato al solo valore contabile delle attività, le nostre due banche verrebbero chiamate a raccogliere la medesima quantità di capitale. Diverse sono le domande che bisogna porsi: sarebbe corretto ritenere le due banche, che avrebbero lo stesso livello di leva finanziaria, ugualmente solvibili? Non si determinerebbe un incentivo per la prima banca a spostarsi verso le attività più rischiose (infatti, il costo in termini di capitale proprio sarebbe lo stesso ma il rendimento atteso sarebbe maggiore)? Reputiamo questo incentivo utile per lo sviluppo dell’economia reale?
In assenza di risposte a queste domande, sarebbe lecito il dubbio che affidarsi a un unico criterio, come la leva, potrebbe equivalere a gettare una pesante coperta sopra al mondo del rischio di credito creando, in un osservatore esterno, la pericolosa illusione ottica che tutte le poste dell’attivo siano uguali e consentendo invece, al di sotto della coperta, i più arditi arbitraggi. Se invece si pensa che il limite alla leva possa rappresentare uno strumento aggiuntivo e complementare a metriche basate sui rischi, è bene ricordare che ciò è già previsto da Basilea 3 e da lì partire. D’altra parte, proprio la genesi del leverage ratio di Basilea 3 dimostra quanto sia difficile, se non illusorio, regolare il mondo di oggi con regole troppo semplici. Partiti dal principio di una totale aderenza alle norme contabili, per non introdurre elementi di stima o comunque soggettivi, i regolatori internazionali hanno poi introdotto un numero non trascurabile di eccezioni, ancorate alle metriche prudenziali.

IL RUOLO INFORMATIVO E L’ENFORCEMENT

A prescindere da quali saranno gli sviluppi nel prossimo futuro, crediamo che un aspetto centrale di qualsiasi regolamentazione sia (e debba essere) comunque il suo enforcement. È illusorio confidare che un qualsiasi insieme di regole possa di per sé garantire il conseguimento degli obiettivi di fondo, nel nostro caso la stabilità del sistema finanziario. In alcuni paesi questa illusione non ha mai trovato terreno fertile: le regole di Basilea sono state considerate strumenti aggiuntivi all’azione di vigilanza e non come suoi sostituti.
Chiedere alle banche di differenziare, anche sulla base di stime interne, le poste dell’attivo in base alla loro rischiosità rende disponibile ai supervisori un’enorme quantità di informazioni, preziose per meglio capire operatività e rischi dei soggetti vigilati. Tutto ciò però è inutile se le autorità di controllo non hanno l’ambizione di comprendere davvero come la banca stia operando, se non sono attrezzate (tecnologicamente e culturalmente) per sfruttare questa mole di informazioni e, soprattutto, se non hanno la volontà e l’autorità o l’autorevolezza di intervenire preventivamente anche in assenza di violazioni formali delle regole. Viceversa, nel caso in cui i supervisori abbiano queste caratteristiche, limitare le informazioni a loro disposizione con norme che comprimano artificialmente le eterogeneità insite nell’operatività bancaria, può ridurre l’efficacia in chiave preventiva della stessa azione di vigilanza.

* Banca d’Italia. L’articolo riflette esclusivamente l’opinione degli autori e non impegna in alcun modo la responsabilità dell’Istituto di appartenenza.

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(1)  I cosiddetti “Accordi di Basilea” sono raccomandazioni in materia di regolamentazione prudenziale delle banche, emanate dal Comitato di Basilea, organismo istituito nel 1974 che costituisce il principale organismo di regolamentazione bancaria e di cooperazione tra autorità di vigilanza dei paesi G20. Il primo Accordo risale al 1988, il secondo al 2004, il terzo al 2010. Le raccomandazioni del Comitato di Basilea non hanno forza di legge o di trattato internazionale; esse necessitano pertanto delle procedure formali di recepimento previste nelle varie giurisdizioni.
(2) Per una più ampia trattazione si veda Cannata-Quagliariello (2009), “L’impatto di Basilea 2 sulla crisi finanziaria: tra tanti indiziati un solo colpevole?”, Bancaria, n. 1.
(3) Il default di Lehman Brothers risale al settembre 2008 mentre le regole di Basilea 2 sono entrate in vigore a giugno dello stesso anno.

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I PRESTITI DELLA BCE E LA STRETTA SUL CREDITO

  1. titef

    “Basilea 2” postulava la capacità delle banche di assume rischi, col supporto di modelli interni opportunamente normati (Primo Pilastro). Invitava a misurare tutti i rischi e a individuare le fonti patrimoniali di copertura, in piena autonomia, per poi avviare il confronto con i supervisor (Secondo Pilastro). Vedeva nel mercato il guardiano ultimo di tutte queste scelte (Terzo Pilastro). La crisi è il naufragio del punto di vista. I modelli interni sono stati utilizzati per mistificare, anzichè rappresentare, la realtà. Il “Secondo Pilastro” fa venir voglia di ripetere, con Revell, “è ancora lontano il giorno in cui le banche potranno calcolare i livelli di capitale applicando la teoria della probabilità a complessi insiemi di dati”. E sul vaglio del mercato, il capitolo XIII della “General Theory” non sarà mai abbastanza conosciuto. I supervisori sono orologiai. Devono accertarsi che l’orologio segni l’ora esatta, dare una spinta se si inceppa, togliere la polvere dagli ingranaggi. Spingere le lancette avanti rispetto al proprio tempo è una mostruosità paragonabile al riportarle indietro di secoli.

  2. F.P.

    E’ un articolo molto chiaro e ben scritto anche nelle conclusioni. Sarebbe stato comunque opportuno riportare, anche in calce, con la stessa chiarezza una elaborazione sintetica del contenuto degli accordi di Basilea 1,2 e 3 . Tutti ne parlano e ne scrivono ma nessuno ne spiega il loro contenuto.

  3. Ricardo_D

    Intervento molto utile che offre spunti per ragionare su elementi forse trascurati. Da anni mi occupo di regole e mercati. Da un po’ di tempo con Basilea e il mondo regolamentare finanziario molto, molto complesso. Il rischio che vedo come in ogni regola è che ci sono eserciti di innovatori pronti a trovare il modo più pulito per eludere o limitare gli effetti delle norme. E’ un mestiere, in parte anche il mio. Più le regole sono complesse più questi spazi si aprono. Concordo assolutamente che il miglioramento culturale e negli strumenti a disposizione di chi controlla è cruciale, ma per migliorare l’enforcement c’è bisogno di semplificare il quadro anche prendendo decisioni drastiche su alcune pratiche (ad es. non consentire il trattamento favorevole di alcune poste di bilancio ‘ibride’).

  4. titef2

    Complimenti a TITEF: un commento davvero eccellente! In fondo bastano poche righe e qualche riferimento giusto per mettere ordine in mezzo a …. tanta confusione…

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