L’evidenza empirica mostra che ritardare la nascita del primo figlio ha effetti positivi sui risultati delle madri nel mercato del lavoro. Anche in Italia. Se però si rimanda troppo, diventa difficile riuscire ad avere il numero di figli desiderato. L’importanza delle politiche di conciliazione.
ETÀ DELLE MADRI, PRIMO FIGLIO E CARRIERA
È dello scorso ottobre la notizia che alcune imprese della Silicon Valley (Facebook e Apple) si sono offerte di pagare alle proprie dipendenti i costi per il congelamento di ovuli (vitrificazione) e il canone annuale per il loro mantenimento. Si tratta di spese nell’ordine di decine di migliaia di dollari. La ragione, neanche troppo velata, è quella di promuovere l’attaccamento delle proprie dipendenti al mercato del lavoro, in questo caso all’azienda, quando sono ancora giovani e altamente produttive e spingerle ad avere figli in età avanzata, solo quando si sono pienamente realizzate sul lavoro. La vitrificazione consentirebbe a queste donne di avere carriera e figli, senza dover rinunciare a nulla.
Ma qual è l’effetto dell’età alla prima nascita sugli esiti lavorativi delle madri? Iniziamo col dire che stimare questo effetto è tutt’altro che semplice. Non è infatti possibile confrontare semplicemente probabilità di partecipazione, numero di ore lavorate o salari medi di donne che hanno il primo figlio “presto” con quelli di donne che lo hanno “tardi”, dato che differiscono per caratteristiche osservabili (come i livelli di istruzione), ma soprattutto non osservabili, come il grado di orientamento alla carriera. Inoltre, alcune donne potrebbero posticipare la nascita del primo figlio proprio per realizzarsi completamente sul lavoro.
Per far fronte a questi problemi analitici, gli studi economici più recenti hanno utilizzato esperimenti naturali forniti dagli shock di natura biologica alla fecondità (mortalità fetale) e alla fertilità, ovvero una scarsa capacità a concepire. Sono shock che contribuiscono ad accrescere l’età delle madri alla prima nascita, mentre dalla letteratura medica risultano scarsamente correlati alle loro caratteristiche socio-economiche, tra cui potenzialmente anche l’orientamento alla carriera. Gli studi pubblicati sono generalmente concordi nel trovare che il ritardo della prima nascita ha effetti positivi sul lavoro delle madri. Una ricerca per gli Stati Uniti stima che l’aumento di un anno dell’età alla prima nascita accresce i redditi delle madri del 9 per cento, le ore lavorate settimanalmente del 6 per cento e i salari del 3 per cento.
In un nostro recente studio per l’Italia – che utilizza i dati Istat dell’“Indagine campionaria sulle nascite” – abbiamo stimato che accrescere di un anno l’età alla prima nascita aumenta la probabilità di partecipare al mercato del lavoro (quando il figlio è ancora piccolo, tra 18 e 26 mesi di età) dell’1,2 per cento e le ore lavorate settimanalmente del 2,2 per cento. Per mancanza del dato, invece, non abbiamo potuto stimare l’effetto su salari e redditi. Sembra pertanto che posticipare la prima nascita possa essere un metodo efficace per le madri di riconciliare famiglia e lavoro. Ma è tutto veramente così semplice?
IL NUMERO DI FIGLI
Purtroppo no. La letteratura empirica mostra anche che in alcune circostanze ritardare la prima nascita ha un impatto negativo sulla probabilità di progredire alla parità successiva. Detto in parole povere, donne che diventano madri più tardi hanno anche minori chance di avere altri figli e di raggiungere il numero che ritengono ideale, in genere due: si parla in letteratura di effetti di posticipazione (postponement effects). Questa è la cattiva notizia.
Ma ce n’è anche una buona. Come mostrato da uno studio comparativo a livello europeo gli effetti negativi sulla fecondità sarebbero particolarmente forti in contesti caratterizzati da poche politiche family-friendly (scarsa fornitura di servizi pubblici all’infanzia, rare opportunità di lavoro part-time, brevi congedi di maternità), come nei paesi del Sud Europa. In quelli caratterizzati da istituzioni family-friendly l’effetto di posticipare la prima nascita sarebbe invece positivo (catch-up effect), come nel caso di Danimarca e Francia. Come sostenuto da altri contributi, un potenziamento dei servizi pubblici all’infanzia e politiche del lavoro family-friendly rappresenterebbero per le donne una via privilegiata per riconciliare famiglia e lavoro, soprattutto in contesti come quello italiano, con bassa partecipazione al mercato del lavoro e occupazione femminile.
VALUTARE BENE TUTTI I PRO E CONTRO
È improbabile che una reale conciliazione tra lavoro e famiglia passi attraverso metodi come la vitrificazione, o simili, a cui solo un limitato numero di donne privilegiate può avere accesso. Molto dipende invece dalla vasta disponibilità di child-care di qualità e a basso costo (non a caso la disponibilità di nonni appare ancora un importante fattore di conciliazione famiglia-lavoro in Italia) e da un contesto istituzionale che supporti e faciliti le scelte di donne che decidono di assumere un doppio carico di lavoro, a casa e nel mercato.
Inoltre, anche le donne che pensano di ricorrere a metodi come la vitrificazione dovrebbero valutarne bene tutti i pro e i contro. Primo, il tasso di successo nell’impianto di embrioni dopo i 40 anni, secondo una recente meta-analisi, è solo del 4,3 per cento per lo slow freezing (il vecchio metodo di congelamento degli ovuli) e dell’8,6 per cento per la vitrificazione (il nuovo metodo). Sebbene queste tecnologie possano rappresentare un utile supporto in caso di problemi di infertilità, l’American Society for Reproductive Medicine avverte che il “marketing di queste tecnologie per lo scopo di rinviare la riproduzione può dare alle donne false speranze e incoraggiarle a ritardare la gravidanza”.
Secondo, la ricerca scientifica ha ampiamente mostrato gli svantaggi socio-economici per i figli di avere madri adolescenti, tuttavia la letteratura sugli effetti di avere madri di età avanzata è molto meno sviluppata. I pochi studi esistenti non mostrano effetti negativi sui figli ancora piccoli. Una ricerca per il Regno Unito ne ha al contrario mostrato di positivi sulla salute e lo sviluppo psichico dei bimbi fino a 5 anni. Un altro studio per lo stesso paese ha utilizzato dati relativi a famiglie che erano ricorse a tecniche di riproduzione assistita, giungendo alla conclusione che sebbene i contesti familiari con madri in età più avanzata fossero anche caratterizzati da fattori potenzialmente negativi per lo sviluppo dei bambini, come la presenza di sintomi depressivi sia nelle madri che nei padri, non sono risultati comunque associati negativamente al benessere dei figli piccoli. Un limite dell’evidenza esistente è indubbiamente che si basa su figli in età molto giovane, mentre non considera quelli in età adolescenziale o adulta, in cui alcuni effetti negativi potrebbero manifestarsi nel tempo, ad esempio per i differenti stili educativi o la perdita di un genitore con conseguente stress psico-fisico ed economico.

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