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Quel lavoro inutilizzato per colpa della crisi

L’aumento della disoccupazione non è la sola conseguenza della crisi sul mercato del lavoro italiano. Si aggiunge anche una diminuzione dell’utilizzo della forza lavoro occupata. Ne è un esempio il massiccio ricorso alla cassa integrazione. Ripercussioni anche sulla qualità della domanda di lavoro.
Il lavoro in crisi
Le conseguenze della crisi economica sul mercato del lavoro italiano non si limitano alla sola contrazione occupazionale e all’aumento del tasso di disoccupazione. Tanto la quota di occupati che quella di disoccupati nascondono una realtà per certi versi ancora più drammatica. Il Rapporto di monitoraggio sul mercato del lavoro 2014 (http://bw5.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?web=ISFL&opac=Default&ids=20163), pubblicato dall’Isfol, mostra come la distruzione di posti di lavoro sia stata accompagnata, negli ultimi anni, da una contrazione anche dell’utilizzo della forza lavoro occupata, sia in termini intensivi che qualitativi.
Le statistiche fornite dall’Istat indicano che dagli anni Duemila in poi il volume di ore lavorate pro capite è andato costantemente diminuendo, pur con una crescita degli occupati totali e delle unità di lavoro equivalente (anche in virtù dell’apertura della legislazione sul mercato del lavoro a forme contrattuali più flessibili). Tra il 2007 e il 2008 le ore lavorate per occupato, però, si contraggono drasticamente, sfiorando prima la soglia delle 1.800 ore a persona, per poi posizionarsi costantemente al di sotto di questo valore.
Al contempo, l’andamento delle curve relative alle unità di lavoro equivalente e al volume degli occupati segnano anch’esse una repentina inversione di tendenza, ma con la curva delle unità di lavoro equivalenti (che misura il complesso del lavoro utilizzato) che si mantiene al di sotto di quella degli occupati e da questa si allontana progressivamente; segno, appunto, di una riduzione delle ore medie lavorate per individuo.
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Sono le conseguenze della crisi economica, che ha portato a una marcata riduzione delle ore di lavoro complessive, ma non a una contrazione dell’occupazione altrettanto forte. Le imprese hanno massicciamente fatto ricorso alle cosiddette politiche di labour hoarding, ovvero quegli interventi tesi a trattenere l’occupazione in eccesso rispetto ai fabbisogni di produzione. Tali interventi si sono esplicitati in primo luogo attraverso il massiccio ricorso al sistema della cassa integrazione guadagni, e della Cig in deroga in particolare, ma anche attraverso una riduzione dell’orario di lavoro, soprattutto tramite il ricorso al part-time involontario.
In sostanza, esiste oggi una quota di forza lavoro che opera al di sotto delle proprie potenzialità, contribuendo sì a sostenere il tasso di occupazione (i lavoratori in cassa integrazione a zero ore non vengono conteggiati tra i disoccupati), ma nello stesso tempo nascondendo, agli occhi della statistica, una massa di persone potenzialmente annoverabili tra i disoccupati.
Cala la richiesta di lavoro qualificato
Parallelamente, gli effetti della crisi hanno avuto ripercussioni anche sulla qualità della domanda di lavoro, attraverso un processo di job-reallocation verso profili professionali più bassi. Tra il 2007 e il 2013, in Italia l’occupazione tra i 15 e i 64 anni è diminuita di 852mila unità; ebbene, il valore risulta da un saldo la cui componente negativa è tutta da ricondurre alle professioni maggiormente qualificate che, nei sei anni presi in esame, si sono contratte di 1 milione e 427mila unità, vale a dire del 15,7 per cento rispetto all’inizio del periodo. Al contrario, i lavoratori occupati in professioni di profilo intermedio e non qualificate sono aumentati, rispettivamente, di 216mila e 359mila unità. La riallocazione ha determinato un aumento della quota di occupati overeducated, ovvero lavoratori che si trovano a ricoprire posizioni per le quali, generalmente, si richiede un titolo di studio inferiore a quello posseduto.
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Nel 2013 il 7,4 per cento degli occupati italiani era sovra-istruito: rispetto alla media europea, il valore risulta relativamente basso. Ma l’Italia, insieme alla Grecia, presenta la variazione assoluta più elevata dal 2007 per questa particolare categoria di occupati, con aumenti molto più consistenti di quelli riscontrati in altri paesi europei e in controtendenza con quanto registrato in Germania e Danimarca, dove la quota di occupati overeducated è diminuita (grafico 2). Al di là delle ragioni che determinano il fenomeno dei lavoratori sovra-istruiti, in parte riconducibile a un non corretto allineamento tra la scelta dei percorsi di istruzione (e la sua qualità) e le esigenze del sistema produttivo, la variazione delinea un arretramento della domanda di lavoro anche in termini di competenze richieste.
In definitiva, il quadro che emerge evidenzia un clima di grande incertezza, che determina un’occupazione solo parzialmente utilizzata rispetto alle sue potenzialità. Ciò non potrà non avere conseguenze sulle prospettive di crescita futura. Quando la ripresa rimetterà in movimento il mercato del lavoro, gli effetti sull’occupazione saranno, almeno inizialmente, moderati: gli imprenditori, prima di procedere a nuove assunzioni, “riporteranno a regime” il volume di occupazione sotto utilizzato. In secondo luogo, i dati sull’overeducation sembrano mostrare che il sistema produttivo si sta posizionando, almeno in parte, su profili professionali meno qualificati, e quindi con produttività più bassa, di quelli precedenti la crisi economica. Il rischio è che così l’Italia non riesca ad agganciare il treno della ripresa, incapace di competere con paesi che hanno impostato il loro cammino di sviluppo lungo direttrici più coerenti con l’idea di “crescita intelligente” prospettata dalla strategia europea.

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  1. Maria Cristina Migliore

    Non mi convince la tesi che la crescita di lavoro inutilizzato e poco qualificato sia colpa della crisi. Penso che questi fenomeni vadano inquadrati nel substrato culturale italiano di gran parte della classe dirigente imprenditoriale e politica, tesa ad aggirare le questioni piuttosto che affrontarle con lucidità e professionalità. E’ dagli anni ’90 che sappiamo che il sistema Italia sta perdendo competitività e nulla si è fatto. E nulla si sta facendo perchè si discute solo di riforme e regole e non di approcci culturali.

    • bob

      …d’accordissimo! Io ho sempre sostenuto che l’ attuale situazione sia frutto di un “approccio culturale” che da 40 anni ad oggi ha minato le fondamenta del Paese. Un blocco oggi maggioritario di società civile ha pensato di poter vivere di burocrazia e di regole. L’ unica ” economia” cresciuta è quella fittizia creata dai “politici” . Basti pensare solo alla divisione folle del Paese in almeno 6-7 livelli di potere dallo Stato all’ultima circoscrizione ( qualcuno ancora viene a parlarmi di bufala Federalista). ” Substrato culturale” o ” incrostazione burocratica”. Un Paese: dove 1% delle aziende usa Internet -senza piani o linee guida di progetti industriali e di sviluppo lungimiranti – senza più una azienda guida affermata su mercati internazionali – senza un sistema-Paese ma tanti “ambulanti” in giro per il mondo a mò di accattoni

  2. Guido baronio

    Lei ha perfettamente ragione. Non è certo una novità per l’Italia la scarsa capacità di valorizzare il capitale umano della propria forza lavoro e il basso livello di innovazione (la caduta della produttività del lavoro è solo uno dei numerosi indicatori che possono confermarlo).
    Lo scopo dell’articolo era evidenziare come durante la crisi tale fenomeno si sia accentuato, determinando così un sottoutilizzo del lavoro sia in termini qualitativi che intesivi.

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