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Da popolari a spa: metamorfosi imposta per legge

La legge n. 33/2015 impone la trasformazione in società per azioni di dieci banche popolari, determinate sulla base del loro attivo. La norma lascia molti dubbi, a partire dalla presunta superiorità del modello spa. I meriti delle banche del territorio nella crisi e le sofferenze delle “grandi”.
La legge sulle banche popolari
Siamo davvero sicuri della bontà della legge n. 33/2015 che impone la trasformazione in società per azioni di dieci banche popolari, “discriminate” in base alla dimensione del proprio attivo?
In particolare, sono due le domande da porsi: qual è la motivazione individuata dal legislatore nel riconvertire in spa una parte del modello cooperativo-popolare? E se il modello di banca spa è realmente giudicato più efficace nella promozione dello sviluppo del territorio, perché non estenderlo all’intera gamma delle banche cooperative-popolari?
Il tema risulta interessante da affrontare anche in considerazione di quanto si legge sul sito della presidenza del Consiglio: “La finalità ultima dell’intervento è di garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese e favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più contenuti”.
Il sostegno al territorio
Quale parametro di riferimento da cui partire, si può considerare il ruolo che le “banche del territorio” rivestono in realtà culturalmente a noi vicine, come ad esempio la Germania. Le Volks-und Raiffeisenbanken danno da sempre un prezioso supporto al sistema imprenditoriale tedesco, trasferendo in modo efficace le risorse dalle economie in surplus a quelle in deficit. Pertanto, non risulta che il governo tedesco, sottoposto alle medesime difficoltà di contesto e normative, stia pensando a soluzioni che possano minare l’attuale struttura del proprio sistema bancario.
In Italia, così come in Germania, la storia degli ultimi anni ha mostrato una segmentazione dimensionale del settore bancario, evidenziando come, al crescere delle dimensioni, le banche riducano il rapporto dei crediti alla clientela sul totale impieghi a favore di investimenti in titoli, dotati di un livello più favorevole di assorbimento patrimoniale e di un rendimento a rimborso garantito, o presunto tale.
Piluso 1
Fonte: Banca d’Italia,  “Localismo bancario e crisi finanziaria” – Paper n. 264 (marzo 2015)
Le banche minori si sono dunque ritrovate a sostenere buona parte dell’economia reale in contrasto alle politiche degli istituti maggiori. La tabella 1 evidenzia come le banche locali abbiano svolto questo ruolo con più efficacia rispetto alle banche di maggiori dimensioni tanto nel periodo di pre-crisi (2005-2008), quanto nel periodo di crisi acuta (2008-2012). In particolare, nel periodo di pre-crisi il tasso di crescita dei prestiti alle imprese è stato circa il doppio rispetto alle banche maggiori; nel periodo successivo, anche se con minore intensità, la crescita dei prestiti erogati dalle banche locali è stato comunque positivo, mentre si osservano valori negativi per i cinque principali gruppi bancari italiani.
È evidente che questo modo di operare abbia prodotto un incremento di crediti giudicati inesigibili o (altrimenti detti) sofferenze bancarie (figura 1), ma anche questo dato va opportunamente pesato e interpretato. Le banche di credito cooperativo, ad esempio, risultano caratterizzate da un volume di sofferenze inferiore rispetto alle grandi banche quotate: lo 0,4 per cento del totale degli impieghi contro lo 0,8 per cento (Fonte: Federcasse).
Piluso 2
Fonte: Banca d’Italia,  “Localismo bancario e crisi finanziaria” – Paper n. 264 (marzo 2015)
Inoltre, le recenti cronache giudiziarie (ad esempio, i casi Monte dei Paschi, Sorgenia o Intesa-Zalesky) hanno mostrato una forte concentrazione del credito praticato dai grandi istituti a favore di poche aziende e concessi sulla base esclusiva di vincoli clientelari.
Due filosofie a confronto
D’altra parte, il modello spa, che snatura il concetto del solidarismo sociale (fondato tra l’altro, sul principio “una testa, un voto”), non sempre ha dato risultati eclatanti.
Lo stato di salute non proprio florido di diverse banche di interesse nazionale quotate è stato recentemente rilevato dalle authority internazionali di vigilanza; mentre Unicredit ha ceduto interi portafogli di crediti deteriorati, accanto a ipotesi di creare una bad bank in capo alla “cordata” Intesa-Unicredit.
Imporre, allora, trasformazioni nel modello societario di una banca senza che vi sia una rilevanza empirica che ne dimostri la supremazia qualitativa, appare pretestuoso e opaco.
Alcuni analisti ritengono che importanti banche popolari saranno ora chiamate ad acquisire banche spa, ma ciò significherebbe implicitamente ammettere la superiorità in termini di politiche gestionali delle popolari rispetto alle società per azioni e, a questo punto, apparirebbe privo di logica avere imposto loro un tale cambiamento “epocale”.
Il risultato, negli anni a venire, potrebbe essere quello di ritrovarsi a studiare soluzioni tampone per nuove entità “malate”, ma (a questo punto) dalle dimensioni abnormi.

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  1. Andrea Boitani

    Ottimo articolo. Concreto. Non ideologico. Peccato che il sommario contenuto nel “punto” sia così fuorviante. Leggendolo si ha l’impressione che l’articolo conterrà proprio l’opposto di quello che contiene!

  2. Stefano Ramelli

    Grazie delle belle riflessioni. Non penso peró che il decreto si basi su una contrapposizione tra il modello cooperativo e il modello spa, tra localismo e non localismo. Il problema sono le grandi popolari – una peculiarità tutta italiana – in cui i principi di mutalità e rilevanza territoriale si sono persi, e il sistema di controllo una-testa-un-voto è passato da essere una richezza ad essere un sistema politico per mantenere il controllo. Questo in qualche modo danneggia tutto il sistema bancario cooperativo a mio vedere, sopratutto le bcc e le piccole popolari che promuovono la reale partecipazione dei soci sul territorio. Vista la situazione, la trasformazione delle 10 grandi popolari in spa puó essere un’occasione per recuperare i principi cooperativi e mutalistici nel sistema bancario. In Euopa i grandi gruppi bancari cooperativi (tedeschi, francesi, finlandesi ecc..) sono gruppi composti da centinaia di piccole banche coooerative, non delle singole grandi banche popolari. Sarebbe bello riuscire ad avere lo stesso modello in italia…non ho peró capito se ció sarebbe possibile con il nuovo decreto (il tetto di 10 miliardi varrebbe anche per una cooperativa di banche cooperative?). Non so…

    • Fabio Piluso

      La ringrazio per il commento poiché mi permette di chiarire meglio alcune cose. Si può essere o meno d’accordo sulla trasformazione in spa di alcune popolari in base alla dimensione del loro attivo. Personalmente continuo a nutrire qualche perplessità alla luce dell’analisi dei conti delle spa, frutto di un modello di business – oltre che di governance – che lascia qualche dubbio. In ogni caso, il ragionamento è di più ampia portata se si considera che le stesse Bcc sono ora chiamate a studiare un modello di accorpamento (probabilmente sotto il controllo di una o più holding) a livello nazionale. Ciò metterebbe certamente in crisi il principio del mutualismo e del localismo bancario che ha sostenuto l’economia reale nei momenti di maggiore difficoltà. Del resto, da operatore del settore, oltre che da docente di materie bancarie, posso confermare che da più anni vi è un chiaro processo di consolidamento in atto tra le realtà più piccole….

      • Ramelli Stefano

        Grazie della sua risposta. È un tema molto importante su cui vale la pena continuare a discutere, almeno per immaginare il sistema bancario che vogliamo tra una ventina d’anni.

  3. gmn

    Da profano avevo capito che se una banca popolare smette di fare la banca popolare (non grandissima per progetto) e fa la grande banca ma non contendibile, allora o si risolve la governance o la dimensione.
    Non mi sembra che i dati da lei citati siano in contrasto con questa politica
    a meno che non abbia capito male.

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