Il prevedibile scoppio della bolla cinese non avrà un effetto contagio sulle borse internazionali. Ma se dovesse contribuire all’instabilità politica ed economica del paese che più di tutti ha trainato la crescita mondiale, le conseguenze sarebbero devastanti. Diseguaglianze sempre più evidenti.
Un crollo previsto
Repentino e fulmineo, forse, eppure molti analisti si attendevano il crollo della borsa di Shanghai – oltre 3 mila miliardi di dollari bruciati in meno di un mese, circa un terzo del suo valore.
Con i prezzi delle azioni aumentati del 150 per cento nell’ultimo anno, senza un corrispondente miglioramento della crescita dell’economia (che al contrario ha subìto una forte battuta d’arresto dalla fine del 2014), né tanto meno della redditività delle imprese quotate (crollata del 37 per cento, per le grandi imprese di Stato, nei soli primi due mesi del 2015), era evidente che il mercato si trovasse nel bel mezzo di una bolla speculativa e che una qualche forma di correzione sarebbe stata inevitabile (figura 1).
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La spiegazione tecnica è che a sostenere i corsi azionari nell’ultimo anno sono stati i prestiti a margine (margin loans), aumentati tra cinque e sette volte (secondo Goldman Sachs, figura 2), cioè acquisti a leva, realizzati prendendo a prestito buona parte della liquidità necessaria e garantendola con depositi o con le azioni in proprio possesso. I margin loans, caratterizzati da un rapporto loan-to-value che non può superare una certa soglia, hanno un effetto fortemente pro-ciclico: incentivano la speculazione in periodi di boom (ulteriori acquisti finanziati dall’aumento del valore delle azioni già possedute), mentre quando i corsi azionari scendono costringono a trovare liquidità, smobilizzando altre attività, per far fronte ai richiami di margine (margin calls) e ripristinare il loan-to-value. È proprio quanto sta succedendo in questi giorni: l’inversione di tendenza dei corsi azionari – soprattutto delle grandi imprese di Stato, fortemente indebitate e di fronte a un calo dei profitti – ha innescato vendite massicce di titoli e attività immobiliari per recuperare immediatamente liquidità.
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Le possibili ripercussioni
C’è però anche una lettura più politica. Lungi dall’essere stato semplice spettatore degli animal spirits che oggi incolpa del crollo e che pretende di voler imbrigliare, il governo cinese ha fomentato il boom per distogliere l’attenzione interna dal rallentamento della crescita e incoraggiare il finanziamento delle imprese attraverso equity. Ha inoltre permesso alla banca centrale cinese di concedere credito alla China Security Finance Corporation – il braccio operativo delle borse di Shanghai e Shenzen – per acquistare azioni e intervenire sul mercato interbancario. In più, la capacità del regolatore di salvaguardare la stabilità del mercato è dubbia: per molti, sospendere le quotazioni per oltre la metà dei titoli avrebbe addirittura peggiorato la situazione, estendendo le vendite anche ai titoli più sicuri. Se diagnosticare le cause della bolla è relativamente agevole, non si può dire lo stesso della cura, né delle possibili ripercussioni sull’economia cinese e mondiale. Quali possono essere gli effetti sulla ricchezza delle famiglie cinesi? E quali le implicazioni sulla credibilità del governo nel gestire la transizione verso un nuovo modello di crescita? A gonfiare la bolla non sono state tanto le imprese (il cui flottante è una percentuale spesso bassa del capitale), quanto i piccoli investitori (BloStock stima che ci siano 90 milioni di piccoli trader). E sarebbero le famiglie a restare più colpite dallo scoppio della bolla, con un effetto ricchezza potenzialmente dirompente. Se al crash si unisse il crollo del valore delle abitazioni, andrebbe in fumo gran parte della ricchezza dei risparmiatori cinesi, con effetti drammatici sulla fiducia dei consumatori e sulla domanda interna, perno sul quale ruota tutto il nuovo modello di crescita varato dal presidente Xi Jinping. E di conseguenza sulla domanda di importazioni dal resto del mondo. Le implicazioni sul sistema finanziario internazionale invece sono per ora limitate, soprattutto perché quello cinese è relativamente isolato: il 95 per cento delle azioni sono in mano a cinesi, mentre gli investitori esteri sono ancora pochi, a causa dei tetti alla proprietà straniera delle imprese quotate. Per questo stesso motivo, le vendite allo scoperto degli investitori esteri hanno un peso al più marginale nel crollo di Shanghai. Inoltre, nonostante il valore assoluto delle azioni quotate sia molto consistente (la perdita nell’ultimo mese è superiore al Pil della Francia, per esempio), in Cina il mercato finanziario equivale a circa il 40 per cento del Pil, mentre nelle economie avanzate lo stesso rapporto supera spesso il 100 per cento. Le implicazioni politiche sono le più incerte. La popolarità del governo era già incrinata dal dilagare della corruzione e dal rallentamento della crescita. Far accettare il New Normal del 7 per cento di crescita con disuguaglianze economiche e territoriali sempre più ampie ed evidenti, nella convinzione che sia la sola strada sostenibile verso una nuova armonia sociale, potrebbe diventare un‘impresa epica se la popolazione si considerasse la vittima sacrificale in un esperimento di creazione dell’economia di mercato. Insomma, lo scoppio della bolla cinese non avrà un effetto contagio sulle borse internazionali, ma se dovesse contribuire all’instabilità politica ed economica del paese che più d’ogni altro ha trainato la crescita mondiale, avrebbe certamente ripercussioni devastanti su tutti noi.

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