Per contrastare in modo efficace i cambiamenti climatici, evitando gli errori del passato, sarebbe utile passare da un criterio di territorialità delle emissioni a uno che incida sul consumo di CO2. Una tassa sul modello Iva per i combustibili fossili avrebbe molti vantaggi.
L’accordo di Parigi
A dicembre la conferenza mondiale di Parigi sul clima si è conclusa con un accordo teso a rafforzare gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 per contrastare i cambiamenti climatici. Le principali novità sono rappresentate dal coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo e dallo schema volontaristico, che lascia libero ciascun paese aderente nel fissare i propri contributi nazionali e nella scelta delle misure da adottare.
In passato, proprio la deresponsabilizzazione dei paesi in via di sviluppo (nonostante il Clean Development Mechanism) ha vanificato gli sforzi di riduzione delle emissioni a causa della migrazione di attività produttive (carbon leakage) dai paesi sviluppati verso quelli con costo nullo della CO2 e tecnologie disponibili più “sporche”.
Grafico 1 – Emissioni di CO2 da combustibili fossili (milioni di tonn.)
Fonte: IEA 2015
Di fatto, c’è stata una modifica della catena di offerta e uso, con i paesi sviluppati diventati importatori netti di beni ad alta intensità di emissioni di CO2 (“consumatori” di CO2) e i paesi in via di sviluppo esportatori netti (“produttori” di CO2).
Grafico 2 – Principali flussi di CO2 dalla generazione delle emissioni al consumo di beni e servizi
Inizio delle frecce: generazione delle emissioni da combustibili fossili
Fine delle frecce: consumo dei beni e servizi
Dati 2011 (MtCO2) Fonte: Global Carbon Budget 2015
Una tassa efficiente
Lo schema volontaristico presenta due importanti fattori di incertezza. Innanzitutto, il semplice coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo non equivale a fissare un costo uniforme delle emissioni e quindi a evitarne la rilocalizzazione (carbon leakage). In secondo luogo, non garantisce che i paesi assumano impegni soddisfacenti, soprattutto se l’adozione di misure unilaterali produce rischi per l’economia. È utile quindi chiedersi quali strumenti risultino più efficaci e meno costosi se adottati unilateralmente.
La carbon tax è indicata tra quelli più efficienti. Nella pratica grava sulla principale fonte antropogenica di CO2 nel momento in cui entra nel circuito produttivo (upstream) e assume la forma di accisa sulle vendite di combustibili fossili. È una imposta che risponde a un criterio di territorialità della produzione, in quanto la CO2 viene tassata nel territorio in cui viene emessa. Gli effetti su costi di produzione e competitività ne hanno tuttavia scoraggiato l’applicazione nei paesi con sistemi produttivi ad alto uso di combustibili, ovvero dove sarebbe stata più efficace.
Anche in Italia un’accisa di questo tipo comporterebbe una penalizzazione dei prodotti nazionali. Ma il discorso cambierebbe se si passasse a un criterio di territorialità del consumo di CO2, applicando la carbon tax nella fase finale (downstream), ovvero sul combustibile fossile “incorporato” nei beni consumati sul territorio nazionale, seguendo il modello dell’Iva. In pratica, verrebbe imposta sul combustibile “aggiunto” in ogni fase della produzione fino al consumo, prevedendo un sistema di crediti e debiti fiscali, l’esenzione delle esportazioni e la tassazione delle importazioni. Per una corretta tassazione dei beni importati sarebbe necessario disporre di una adeguata tracciabilità del “contenuto” di combustibile dei singoli prodotti. Nell’impossibilità di individuarlo con esattezza, il bene importato dovrebbe essere tassato con una aliquota pari alla media di quelle implicitamente gravanti sui beni nazionali analoghi. Dovrebbe infine essere previsto un meccanismo di restituzione delle tasse sulle vendite di combustibili già pagate all’estero. Così disegnata, la tassa richiederebbe uno sforzo limitato dal punto di vista amministrativo e ridurrebbe l’incentivo a evadere. Inoltre, avrebbe l’effetto di indurre anche negli altri paesi cambiamenti di comportamento e tecnologia che potrebbero portare a un risparmio strutturale di combustibili fossili, incentivando la diffusione di pratiche di tracciabilità e favorendo la diffusione di tasse sui combustibili (anche di tipo upstream). Altrimenti, i partner commerciali vedrebbero una riduzione della domanda dei propri beni nei paesi che impongono la tassa (in misura proporzionale al carburante incorporato e nella stessa misura di tutti gli altri beni concorrenti consumati nel paese), senza beneficiare dell’aumento di gettito fiscale, che andrebbe totalmente nelle casse dei paesi consumatori. Tali paesi sarebbero quindi più facilmente incentivati a tassare a loro volta i combustibili, nella forma upstream o downstream, sia per beneficiare del gettito sia perché, con il meccanismo di restituzione, la competitività non verrebbe danneggiata. I risultati di simulazioni effettuate con il supporto del modello macroeconomico dell’Istat indicano i significativi vantaggi che l’imposizione in Italia di una simile carbon tax (Fuel Added Carbon Tax-Fact) produrrebbe rispetto a quella tradizionale (a parità di gettito ex-ante). La Fact infatti, non gravando né sulla produzione né sulle esportazioni, avrebbe un’influenza limitata sulla competitività e permetterebbe il pieno esplicarsi degli effetti positivi di cui il nostro paese può beneficiare, soprattutto in quanto forte importatore netto di combustibili (terms of trade gains). Gli investimenti in tecnologie pulite verrebbero incentivati e si potrebbe ottenere, anche mediante un adeguato uso del gettito, la riduzione dello scambio tra crescita e ambiente, se non un “doppio dividendo”. La Fact risulterebbe anche compatibile con le regole del commercio internazionale, in quanto assimilabile a un’Iva “flessibile”, dove le aliquote si modificano per rispecchiare il contenuto di combustibile fossile. Il fatto che l’imposta gravi, analogamente all’Iva, sul consumatore finale del paese che la impone e non alteri la competitività tra prodotti se non sulla base dei combustibili fossili incorporati e indipendentemente dalla provenienza, limiterebbe anche i rischi di opposizione da parte degli altri paesi.
* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autore e non rappresentano necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.
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Claudio B
L’articolo cita spesso il carbon leakage, ma non vengono menzionati studi che ne confermano l’esistenza con evidenza empirica. A me risulta che ci siano ben altri fattori che spingono le aziende a delocalizzare. C’è labour leakage piu che carbon leakage. Ne consegue che il messaggio dell’articolo è piu rilevante per pochi settori estremamente inquinanti che per la maggior parte dell’economia.