Quando l’addetto è solo uno
Francesco Daveri nel suo pezzo del 31 maggio evidenzia un problema noto e dibattuto: la relazione diretta tra dimensione d’impresa e prodotto medio per addetto concludendo che, sì, sarebbe opportuno che la dimensione crescesse, ma che se non accade è anche perché i costi di produzione, in particolare del lavoro, sono relativamente ridotti per le imprese più piccole, concludendo che “piccolo è (appunto) brutto, ma conviene”. Riproduco la tabella di Daveri qui sotto.
Tabella 1
Dunque, il rapporto tra remunerazione dei fattori di produzione – capitale, lavoro e imprenditorialità (cioè il valore aggiunto) – e il costo del solo lavoro è molto più elevato per le micro-imprese (2,6) rispetto a quelle più grandi. Le prime sono più profittevoli: converrebbe dunque, secondo la tesi, produrre in queste strutture, il che, data la scarsa produttività delle medesime, costituirebbe un freno al prodotto aggregato e, quindi, alla crescita. La conclusione non convince. Propongo la tabella 2, che è la seconda riga di tabella 1 con apertura delle prime due classi di addetti (cioè non più da un addetto a 9 addetti, bensì un addetto rispetto alla classe 2-9 addetti) in modo tale che risulti evidente la ragione dell’elevato valore (2,6) del rapporto valore aggiunto/costo del lavoro per le micro imprese (fino a 9 addetti).
Tabella 2
Il problema sta tutto nella classe mono-addetto (imprenditore da solo), che ha un rapporto valore aggiunto/costo del lavoro pari a 23,11 (mentre la 2-9 ha un moltiplicatore di 1,88). Dunque, dovremmo osservare un sistema produttivo fatto solo di ditte individuali in senso stretto perché lì la produttività sarebbe di 23 euro per ogni euro sostenuto in costo del lavoro (che diventano, tanto per fare un esempio, 179,6 per il solo settore della sanità, cioè per i nostri medici). Ovviamente, c’è un problema contabile (come intuiva un ottimo commentatore dell’articolo originale). Le ditte con il solo imprenditore come addetto non hanno costo del lavoro e il fatto che il rapporto non risulti infinito è dovuto alla presenza di poste secondarie a denominatore (formazione, oneri accessori e non so che altro). Tralasciando i tecnicismi, per fare un confronto corretto bisognerebbe, per le imprese con un addetto, togliere la remunerazione del lavoro dell’imprenditore dal numeratore e metterla a denominatore. Il risultato sarebbe un abbassamento per la classe specifica e, di conseguenza, per il totale dell’economia, del rapporto tra valore aggiunto e costo del lavoro (a meno di non pensare che il mio fruttivendolo sia un capitalista, cioè che il suo non sia reddito da lavoro, ma (tutto) da capitale).
Come far crescere la produttività
Sul fatto che le micro imprese “sfuggano tasse e regole” eccepisco, sul piano delle battute e non della scienza, che le grandi imprese si rifanno con strutture dedicate all’elusione fiscale (oggi si chiama abuso di diritto). Eccepisco, poi, sul piano delle suggestioni, che una larga frazione dell’integrazione di lavoratori-extra comunitari passa dalle imprese individuali (+70mila tra il 2009 e il 2015): c’è qualche evidenza di accentuazione di sommerso presso queste imprese, ma piuttosto che fare lo scarica barile tra chi evade di più, mi limito a suggerire apprezzamento per il ruolo – talvolta sgangherato, sempre migliorabile – della micro impresa italiana. Come Daveri, anch’io sono iscritto al partito della produttività e mi domando se non sia preferibile sviluppare un ragionamento diverso sul tema della produttività sistemica. Sulla base di dati della Commissione europea (Annual Report on European SME, 2015) è possibile fare un confronto tra la produttività per addetto delle micro-imprese nei diversi paesi europei. Emergono scarti eccezionali (quasi) a parità di taglia: attorno al 20 per cento nei confronti, per fare un esempio, delle micro-imprese tedesche. Qui si aprono due strade: quella che dice, appunto, che dovremmo cambiare i connotati alla nostra società e al nostro sistema produttivo per diventare tutti più grandi (cioè con le micro che diventano piccole, le piccole medie e così via), e l’altra, che personalmente preferisco per la sua caratteristica di maggiore realismo, di capire come fare ad accrescere la produttività delle nostre micro-imprese, a parità di taglia. I dati dicono che larghissima parte del divario di prodotto medio dell’Italia nei confronti delle economie più robuste e dinamiche dipende in larga misura dal deficit di produttività delle nostre imprese più piccole.
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Miguel
Eh, gran bella domanda quella su come aumentare la produttività. Non so quanto possa essere significativa la mia attuale situazione lavorativa considerato che si tratta di una piccola (15 dipendenti + 4 soci lavoratori) azienda di informatica (non la classica manifatturiera) del Veneto. In ogni caso, quello che vivo ogni giorno sono ritmi di lavoro serrati, con straordinari non pagati e nemmeno premiati, e, paradossalmente, infrastruttura hardware non al passo con i tempi e i bisogni. Mi vien da pensare che la filosofia padronale sia che, finché i dipendenti non se ne vanno o danno segni di cedimento, allora non c’è motivo per cambiare.
Non so come sia la produttività di aziende informatiche analoghe tedesche o inglesi, certo è che da un lato si legge sempre di nuove esperienze di smart working (altro che cartellino da timbrare!) e di settimane lavorative ben sotto le 40 ore. Sono balle? In ogni caso le Average Worked Hours nel sito dell’OECD (https://data.oecd.org/emp/hours-worked.htm) parlano chiaro, con i tedeschi che lavorano 400 ore in meno degli italiani.
Invece nel Nord-Est è ancora viva l’approccio lineare alla produzione, anche in campo intellettuale come quello informatico: per produrre il doppio basta lavorare il doppio.
Il risultato, secondo me, è che i lavoratori sono troppo stanchi e occupati per poter spendere il proprio stipendio e far girare l’economia. E infatti in Veneto l’alcolismo è un problema.
Michele
Tralasciando i dati delle micro imprese (non facilmente utilizzabili visto come sono costruiti), la convenienza economica a crescere è ben chiara. Ciò che manca sono le capacità imprenditoriali (cosa diversa dalla intuizione su come sviluppare un prodotto) e cioè il primo e fondamentale ingrediente della produttività. Di questa mancanza grande segnale è il ridottissimo numero di imprenditori seriali. In secondo luogo mancano i capitali disposti a finanziare tali imprese. Anche questo non stupisce, viste le vicende di queste settimane del sistema bancario e l’arretratezza di tutto il settore del Venture Capital in Italia