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Referendum costituzionale bocciato dal metodo statistico*

Il referendum del 4 dicembre può essere considerato una ricerca statistica per misurare l’atteggiamento degli elettori nei confronti della legge costituzionale. La formulazione del quesito e le regole sulla necessità che si rilevi un solo concetto, in modo chiaro e senza suggerire la risposta.

Statistica e referendum

È chiara al cittadino comune la formulazione del quesito del referendum del 4 dicembre? Sono state date risposte a partire dal punto di vista politico e da quello giuridico, ma non ancora da quello della metodologia statistica. Il referendum, infatti, può essere considerato una ricerca statistica che, tramite la definizione, la misurazione, la raccolta e l’elaborazione di dati qualitativi, vuole misurare l’atteggiamento (l’insieme di preferenze, inclinazioni, convinzioni, motivazioni, punti di vista) degli elettori nei confronti della legge costituzionale. L’atteggiamento però non è una variabile osservabile direttamente, ma solo attraverso le sue manifestazioni: i comportamenti che produce. I risultati della misurazione saranno attendibili solo se la ricerca viene condotta seguendo una sequenza logica di fasi caratterizzate dall’utilizzo di opportune tecniche statistiche.
Tralasciamo la prima fase (formulazione del problema) in quanto le regole per l’indizione del referendum sono stabilite da un’apposita legge. Per ciò che riguarda la seconda fase, che consiste nella scelta del metodo di ricerca più appropriato, si può invece obiettare sulle modalità di presentazione del referendum.
In ogni ricerca con questionario è necessario spiegare agli intervistati con chiarezza e in modo corretto qual è l’oggetto della rilevazione. La scelta di caricare la consultazione referendaria di un significato politico sull’operato del governo ha però privato lo strumento della sua più importante proprietà: la “validità” e cioè la capacità di rilevare l’atteggiamento che deve misurare. La modalità di comunicazione inizialmente adottata ha reso effettivo il rischio (e questa campagna referendaria ne è un esempio emblematico) che il voto di molti elettori non esprima il loro atteggiamento sulla legge costituzionale, ma sull’operato del governo, se non del solo presidente del Consiglio. Che il rischio sia reale lo sta percependo anche Matteo Renzi che da settembre ha iniziato ad adottare una strategia di comunicazione incentrata sulla necessità di discutere del merito e di parlare di contenuti.

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Una sola domanda. E chiara

La terza fase riguarda la raccolta dei dati. Quando i dati raccolti sono originali e raccolti appositamente per le esigenze della ricerca, si parla di dati primari e lo strumento base per rilevarli è il questionario (la scheda referendaria). Poiché dalle scelte metodologiche e operative messe in atto nel costruirlo dipendono la qualità e la capacità informativa dei risultati della consultazione, esaminiamo il testo del referendum (lo strumento di misura). È immediato rilevare che il modo in cui è formulato il quesito contravviene a tre delle regole che la letteratura raccomanda di seguire:

  1. ogni domanda deve essere funzionale agli scopi della ricerca e deve presentare identico significato per tutti gli elettori;
  2. le domande non devono mai essere “caricate”, nel senso che non devono suggerire in modo più o meno evidente la risposta;
  3. il fraseggio (wording) deve essere chiaro (deve cioè indicare con chiarezza che cosa viene chiesto) e non deve essere ambiguo (la domanda deve rilevare un solo concetto, mai più concetti insieme).

Che il quesito non rispetti la prima e la terza regola trova conferma nel ricorso presentato al Tar del Lazio da Sinistra italiana e M5S. Vi si legge infatti: “Il quesito così formulato finisce per tradursi in una sorta di spot pubblicitario (…) a favore del governo che ha preso l’iniziativa della revisione e che ora ne chiede impropriamente la conferma ai cittadini (…)”. Se le considerazioni espresse nel ricorso sono pertinenti, non lo erano però né le motivazioni (mancato rispetto di quanto stabilito dall’art. 16 della legge 352 del 1970) né il destinatario. Il Tar del Lazio lo ha infatti “dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione”.
È indubbio inoltre che il quesito non rispetta la terza regola, almeno per quanto riguarda la necessità che si rilevi un solo concetto e non più concetti insieme. Sotto il profilo della metodologia statistica, appaiono quindi giustificati, i due ricorsi d’impugnazione (al Tar del Lazio e al tribunale civile di Milano) presentati dal presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida, e da Barbara Randazzo.
Come pubblicato dall’Ansa l’11 ottobre, “la motivazione centrale dell’azione (…) riguarda il fatto che in un unico quesito vengono sottoposti all’elettore una pluralità di oggetti eterogenei. Nei ricorsi (…) si chiede il rinvio della questione alla Corte costituzionale”.
La richiesta di annullamento, previa sospensione, del decreto del Presidente della Repubblica è però stata bocciata dalla giudice civile del tribunale di Milano Loreta Dorigo, che comunque non aveva il potere di sospendere il voto. Tuttavia, se avesse accertato il diritto degli elettori a partecipare al referendum nel rispetto della libertà di voto violata dalla eterogeneità del quesito, avrebbe potuto domandare alla Consulta di dichiarare incostituzionale, nella parte in cui non prevede che il voto debba svolgersi su quesiti omogenei, la legge del 1970 sui referendum. In questo modo, colmando una evidente lacuna della legge e “spacchettando” il quesito, sarebbe stato possibile rispettare il requisito c).

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(*) Questa nota è una sintesi, aggiornata, dell’articolo “Il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 dal punto di vista di una statistica sociale.” pubblicato su www.accademiadifilosofiaprisma.com

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  1. guido

    articolo che lascia un po confusi. che il referendum costituzionale copra materie eterogenee che potevano essere scorpate e’ indubbio. questo sarebbe stato probabilmente un bene ma non c’era nessun altro se non il legislatore a dover decidere su cio. chi se non il legislatore poteva decidere quali modifiche debbano rappresentare un pacchetto e quali potevano essere scorporate. il legislatore ha optato per considerare tutte le misure come parte di un pacchetto unico e su di esso, conformemente alla legge, gli elettori dovranno pronunciarsi.
    per cui, di cosa stiamo parlando?

  2. Non di metodo statistico, ma di teoria della scelta razionale (logica e normativa, Arrow) si tratta. Non si misura, si decide. Mesi fa ho fatto notare su questo sito che il quesito non è decidibile. Ma è un falso problema, perché è chi pone la domanda che decide su che cosa si decide. In perfetta sintonia con la costituzione l’elettorato è chiamato ad esprimersi su una revisione non approvata da una maggioranza qualificata delle camere. Si dà al popolo la possibilità di bocciare una riforma qualora la ritenesse lesiva dei diritti o semplicemente mal fatta. Secondo dei sondaggi (letti oggi online) solo il 20% degli Italiani (o di quelli che intendono andare a votare? poco più della metà) ha capito di che cosa si tratta, benché il 37% di loro ritenga che la riforma sia una cosa importante. Il referendum non riguarda gli elementi della revisione, ma l’approvazione o la bocciatura nel suo insieme. Siccome il governo presenta la riforma costituzionale come strumento per le (future) riforme eco-socio-finanziarie e quindi come scusa del suo scarso successo in quel campo, il popolo si pronuncia giustamente ed inevitabilmente su tutto questo. Nemmeno chi vota si, ci crede veramente all’adeguatezza di tutte le singole modifiche. Chi ha preso l’iniziativa del referendum, né ha determinato la natura plebiscitaria. Per farne uno strumento di scelta democratica razionale, nel rispetto dei criteri menzionati nell’articolo, bisogna introdurre l’iniziativa popolare vincolante con referendum.

  3. Andrea

    intanto il governo poteva spacchettare il CNEL con una semplice legge costituzionale senza chiedere agli elettori, fuori uno…..sugli altri si può solo dire che sono scritti veramente male

  4. enrico rettore

    La decisione di spacchettare avrebbe generato una quantità di problemi – e di contenziosi – infinita. Chi e secondo quali criteri decide la composizione dei pacchetti? Il pacchetto unico ha un’ovvia ragione di essere: è il pacchetto che è stato votato – con un unico voto – dal parlamento in sede di decisione finale. Il referendum serve per ratificare quella decisione.

  5. Roberto

    Infatti, non una scheda di rilevazione statistica per misurare l’atteggiamento degli elettori verso la legge. E’ parte di un procedimento stabilito per legge che non prevede nessun spacchettamento o articolazione del quesito (con quali criteri? e le figurine a lato sì o no?) e, idealmente, una graduazione del gradimento (da uno a 9, quanto ti piace?). Quindi, di che cosa stiamo parlando? O per meglio dire, l’autrice è completamente uscita fuori tema…..

  6. Michele Lalla

    Ha ragione Enrico Rettore: spacchettare è complicato, perché molti articoli di argomenti diversi sono interconnessi: l’unico quesito distinto/ evidente, rispetto agli altri possibili, è l’abolizione del CNEL. Credo che non sia stato attuato per motivi di convenienza politica-organizzativa, che non avrebbero dovuto esserci. Da questa considerazione emerge anche che Enrico non ha del tutto ragione: l’abolizione del CNEL non interagisce con nessun altro articolo, in modo rilevante, e poteva essere spacchettato.

    • luigi

      COMPLIMENTI, SONO PIENAMENTE CONCORDE CON H. SCHMIT! RITENGO CHE SIA L’INTERVENTO CON L’ANALISI PIù SCIENTIFICA, GLI ALTRI MI SEMBRANO Più VIZIATI POLITICAMENTE!

  7. Henri Schmit

    Era possibile spacchettare in parlamento, al momento del voto: approvare per blocchi indipendenti. Per esempio il titolo V poteva passare alla maggioranza qualificata, senza referendum, mentre sul senato ci sarebbe stata comunque solo una maggioranza semplice che permetteva l’utilizzo del referendum da qualsiasi numero sufficiente di deputati. Ma i promotori (governo e maggioranza) hanno fatto una scelta diversa invitando loro stessi al plebiscito, tutto o niente – che in caso di fallimento diviene un gioco al massacro. Chi ne ha colpa? Chi vota di no sul tutto perché non può accettare il nuovo senato diciamo mal definito?

  8. Wallerstein

    Mah… io penso che il voto sarà l’espressione del proprio stato di benessere o malessere. Già Max Veber aveva notato che le adesioni al partito comunista erano provenienti dai disoccupati. Perciò se di qualche cosa dev’essere indicatore, il voto lo sarà dell’umore generale – e non dei meriti o demeriti di una riforma – su cui probabilmente l’1% della popolazione ne sa qualcosa.

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