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Politiche per demografie in mutamento

Nell’era del cambiamento demografico, la popolazione del pianeta cresce a ritmi più lenti e invecchia. Ma non tutti i paesi sono uguali. Un rapporto individua quattro gruppi distinti. Per bilanciare le differenze servono politiche adeguate, che dovrebbero puntare su commercio e processi migratori.

Il pianeta invecchia

Il recente rapporto Global Monitoring Report della Banca mondiale ci dice che la popolazione del nostro pianeta cresce a ritmi sempre più lenti e invecchia. La proporzione delle persone tra i 15 e 64 anni di età – la popolazione in età lavorativa – ha raggiunto il suo zenit nel 2012. La catastrofe malthusiana non sembra dunque alle porte. Al contrario, il tasso di fertilità mondiale è diminuito da 5 nascite per donna nel 1950 a 2,45 nel 2015. L’aspettativa di vita, nello stesso lasso di tempo, è aumentata da 47 a 72 anni.
Il processo che spinge il tasso di natalità di una nazione a diminuire favorisce, secondo il rapporto, un vero e proprio “dividendo demografico”. Se la parte di lavoratori attivi sul totale della popolazione aumenta, crescono la produzione e le risorse e si facilita il risparmio, causando un aumento della produttività e una maggiore crescita economica.
Sono queste oggi le prospettive dei paesi in via di sviluppo, così come lo sono state quelle dell’Europa nel periodo del dopoguerra.

Quattro gruppi con esigenze diverse

Il rapporto esamina quattro tipologie demografiche distinte: 1) paesi che non sono ancora entrati nella fase di dividendo demografico, la maggior parte in Africa subsahariana, e che sono caratterizzati da tassi di fertilità alti, una crescita molto rapida della popolazione giovanile e indicatori di sviluppo umano molto bassi. 2) Paesi “emergenti” che stanno entrando in una fase di vero e proprio dividendo demografico – in America centrale e latina (Messico, Argentina), Africa settentrionale e meridionale, Medio oriente e Asia meridionale (India, Bangladesh) – e dove i tassi di fertilità si sono ridotti notevolmente e la forza lavoro è aumentata in maniera considerabile. 3) Paesi caratterizzati da un dividendo demografico tardivo – in Asia Orientale (Cina), Europa dell’Est e Brasile – dove il tasso di fertilità è intorno al 2,1 e la popolazione cresce a tasso zero. 4) Paesi che hanno già superato la fase di spinta demografica e dove il rapporto tra nascite e decessi è talmente basso che la maggior parte della popolazione inizia a uscire dal mondo del lavoro, pesando sul welfare e sui sistemi pensionistici nazionali. Parliamo di Stati Uniti, Australia, Giappone e dell’Europa occidentale, Italia compresa. Proprio da noi la situazione demografica è ancora più critica: nel 2015 in Italia hanno compiuto 20 anni 567mila giovani, mentre 732mila persone ne hanno compiuti 65.
I paesi dei quattro gruppi si trovano di fronte a problematiche differenti. Nel gruppo 1, la priorità è essenzialmente il miglioramento della condizione di vita della popolazione attraverso un’espansione dei servizi di sanità e d’istruzione – con una spiccata attenzione alla parità di genere – e la pianificazione familiare. Tutto ciò per poter sfruttare al meglio la transizione demografica in corso, una volta che le masse di giovani arriveranno all’età lavorativa.
Il gruppo 2 ha invece l’onere di creare posti di lavoro per una popolazione attiva già consistente e dunque beneficiare del dividendo demografico. Qui bisogna favorire la mobilità lavorativa, ridurre le barriere che impediscono l’accesso delle donne al mercato del lavoro, investire nel capitale umano – in particolare nella formazione tecnica e professionale – e incentivare il risparmio.
Il gruppo 3 deve puntare su un aumento della produttività della forza lavoro e prepararsi all’invecchiamento graduale della popolazione. Le politiche devono mirare alla canalizzazione del risparmio in investimento produttivo e a sistemi di welfare sostenibili e rilevanti per le problematiche da affrontare (salute, servizi per l’infanzia, assistenza agli anziani).
Il gruppo 4 deve adattarsi nel modo più soddisfacente per far fronte all’invecchiamento inesorabile della popolazione. La sostenibilità fiscale dei sistemi di welfare – pensioni, assistenza sanitaria, incluso quella di lungo periodo – acquisiscono un’importanza particolare in questi contesti. Allo stesso tempo non deve diminuire il focus sulla produttività del lavoro, anche con sistemi di incentivi per mantenere i meno giovani nel mercato del lavoro. Infine, è importante realizzare politiche che favoriscano la natalità e sostengano i servizi per l’infanzia per incentivare il lavoro.
I quattro gruppi non costituiscono compartimenti stagni. Per questo motivo, tra le politiche che potrebbero aiutare a bilanciare e sfruttare al meglio le differenze demografiche globali spiccano quelle relative a un commercio internazionale più dinamico e a una maggiore mobilità dei fattori di produzione (capitale, lavoro), anche attraverso processi migratori legali e ben regimentati, che possano beneficiare sia i paesi d’origine che quelli riceventi. Ma i venti populisti, isolazionisti e protezionisti che spirano nel nostro vecchio continente, e anche oltre Atlantico, non sembrano per ora propizi a un dibattito serio e maturo su questi grandi temi.

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Camera e Senato, così uguali e così diversi

  1. E singolare che, almeno per quanto riguarda la situazione italiana, un economista confonda la economia con la demografia. Ai fini della sostenibilità del sistema del welfare e pensionistico nazionali conta ben poco il fattore demografico se il tasso di popolazione attiva è tra i più bassi d’Europa a causa della debolezza strutturale del nostro sistema economico, e 100.000 giovani emigrano annualmente verso paesi che offrono opportunità di lavoro non disponibili in Italia. La teoria della necessità di flussi migratori necessari alla copertura del “saldo demografico negativo” che causerebbe lo squilibrio di risorse da destinare al welfare nazionale appare quindi del tutto priva di validità economica: presuppone infatti immigrati non solo “residenti”, ma attivi e con media capacità contributiva. Cioè posti di lavoro e redditi che il nostro sistema economico da tempo mostra di non saper produrre nemmeno per gli italiani. Non invertiamo l’ordine dei problemi, per cortesia.

    • Daniele Ciceri

      Aggiungiamo: ma se è vero che l’automazione farà scomparire milioni di posti di lavoro, tanto da rendere necessaria l’Universal Basic Income, che senso ha usare i flussi migratori per rimpolpare una forza lavoro che il mercato non richiede e destinate anch’esse a pesare sullo stato, invece di ”rendere sostenibile il welfare”?

  2. David Cermegna

    ”Serio e maturo” cioè eliminazione completa delle frontiere, altrimenti si grida al razzismo.
    Bel dibattito davvero, quando si inizia con il presupposto di una superiorità morale.

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