Alitalia è rimasta ancorata a un vecchio modello di business, fondato sul monopolio dei voli nazionali. E di fronte a una concorrenza agguerrita, ha abbassato i prezzi dei biglietti, senza però diventare una low-cost. Nasce da qui la sua ultima crisi. Che si può risolvere con scelte precise.
Vecchia Alitalia in un mercato nuovo
La nuova crisi di Alitalia appare incomprensibile ai cittadini, ragionevolmente preoccupati di essere chiamati di nuovo a contribuire al suo salvataggio. Ma anche chi è più addentro al settore si domanda come sia possibile che una gestione privata, volta teoricamente al profitto e guidata da un importante gruppo internazionale, possa perdere così tanto. Già dal 2009 al 2014, la compagnia è stata guidata da azionisti privati che però non avevano alcuna competenza specifica nel settore aereo. Ora le competenze vi sono, ma l’insuccesso si è persino accentuato. In realtà, Alitalia è un caso aziendale molto semplice e risolvibile a determinate condizioni, che sono tuttavia difficili da realizzare.
Alitalia è un vettore vecchio in un mercato totalmente nuovo. È vecchio perché, dal lato dell’offerta, si è storicamente adagiato sul monopolio dei voli nazionali e sui duopoli tra vettori di bandiera dei collegamenti internazionali. Dal lato della domanda, si è abituato a trasportare viaggiatori prevalentemente italiani e principalmente sui cieli italiani ed europei, lasciando ai charter i collegamenti turistici intercontinentali.
Con la liberalizzazione americana della seconda metà degli anni Settanta e di quella europea degli anni Novanta, le grandi compagnie hanno compreso che l’unico modo per salvare la profittabilità era il lungo raggio. Alitalia non li ha seguiti, salvo i tentativi, boicottati dalla politica e dai sindacati, di aggregazioni internazionali con vettori forti in quel segmento.
Oggi il settore aereo è fatto di mercati nuovi e di vettori nuovi o profondamente rinnovati. I viaggi intercontinentali sono ormai alla portata di molte tasche; quelli di breve hanno come clienti persone che mai avrebbero potuto permettersi l’areo prima della liberalizzazione e che ora viaggiano con costi spesso inferiori alla corsa del taxi per andare in aeroporto. L’Italia ha poi il mercato più nuovo col vettore più vecchio. Nel nostro paese, infatti, grazie anche all’assenza di una forte compagnia di bandiera, i vettori low-cost hanno conquistato le quote di mercato maggiori: nel 2015, il 51 per cento dei passeggeri sui voli nazionali (nel 2016 sarà presumibilmente il 52 o 53 per cento); addirittura il 57 per cento sui voli infraeuropei (46 milioni di passeggeri su 81 totali) e probabilmente più del 60 per cento su quelli infracomunitari. Sull’intero mercato, compreso l’intercontinentale su cui i low-cost non volano ancora, siamo sopra il 50 per cento. In nessun altro grande paese europeo, i low-cost si sono avvicinati alla soglia del 50 per cento. Fa eccezione la Spagna, ove tuttavia metà del mercato low-cost è coperta da Vueling, emanazione della storica compagnia di bandiera Iberia.
I ricavi mancati
L’Alitalia a guida araba trasporta pochi passeggeri in meno di quella vecchia a guida pubblica (22 milioni all’anno contro 24) e lo fa con molto meno personale e aeromobili. Tuttavia l’elevata pressione concorrenziale proveniente dai vettori low-cost ha prodotto una caduta dei proventi medi, tanto che sul mercato nazionale ed europeo Alitalia è ormai a tutti gli effetti un vettore low-fare pur non essendo, sull’altro versante del conto economico, un vettore low-cost. Dal suo bilancio 2015 si desume per i voli nazionali un ricavo medio per passeggero di 63 euro che, per gli 11,9 milioni di persone trasportate, ha generato 750 milioni di ricavi. Il vecchio piano Fenice del 2008, fondamento della gestione Cai, prevedeva per il 2009 a parità di km volati un incasso medio di 106 euro a passeggero. Se nel 2015 si fosse raggiunto tale valore, ipotizzando che la pressione concorrenziale potesse limitarsi ad azzerare l’inflazione, Alitalia avrebbe incassato 1,26 miliardi, dunque oltre 500 milioni in più. Nei sei anni intercorsi, la quota di mercato dei low-cost è salita dal 16 al 51 per cento, la rete ferroviaria ad alta velocità è stata completata e aperta a un’effettiva concorrenza con l’arrivo di Italo, cosicché i proventi unitari di Alitalia sono diminuiti di oltre il 40 per cento.
Per i voli a medio raggio il discorso è simile: nel 2015 Alitalia ha trasportato 7,9 milioni di passeggeri, con un ricavo medio di 95 euro e totale di 750 milioni. Nel piano Fenice il provento medio era previsto, a parità di km volati, in 118 euro: il vettore avrebbe così incassato oltre 930 milioni, 180 in più di quelli effettivi.
Sul complesso dei due segmenti, i mancati ricavi sfiorano i 700 milioni e questa è la principale spiegazione delle perdite aziendali dell’ultimo biennio (oltre 400 milioni nel 2015 e 500 indicati dai media per il 2016). Ne è riprova il fatto che, nel lungo raggio, sottratto alla competizione dei low-cost, il provento medio 2015 di Alitalia è stato di 450 euro, quasi identico a quello previsto nel piano Fenice (455 euro).
Si può allora concludere che 1) Alitalia non ha avuto un tracollo di passeggeri ma di ricavi; 2) sul breve-medio raggio è ormai un vettore low-fare, con un ricavo medio di 76 euro contro 78 di Vueling senza essere low-cost; 2) la gestione aziendale ha semplicemente sbagliato nel non prevedere effetti così dirompenti della competizione; 3) la situazione attuale è insostenibile: o Alitalia diventa anche low-cost, seguendo l’esempio di Iberia-IAG con Vueling, oppure lo vende oppure lo chiude. Ma, per divenire low-cost, Alitalia deve essere in grado di tagliare i costi unitari (per volo e per passeggero). Sembra invece che il piano d’impresa in corso di preparazione voglia tagliare i costi totali, diminuendo il personale, gli aerei e con essi anche i posti offerti. In questo caso saremmo assai presto punto e a capo.
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Carlo
Strano che Ugo non se la prenda ancora una volta col costo lavoro…………. si sarà forse accorto che sta appaiato con le low cost. Ed esse non hanno personale di terra ma strangolano gli aeroporti col co-marketing. Ci sarebbe da chiedersi perchè nessuno in Italia ha il coraggio di puntare il dito verso di esso, che è il vero problema ben contingentato e controllato nel resto di Europa. Invece da noi i pirati atterrano a Fiumicino e pretendono che i contratti siano secretati. Comunque la giriate, senza affrontare il problema principale, ritorna il fallimento. Perchè qualunque accordo per i servizi terzi, anche di una eventuale low cost nostrana, sarebbe viziata dall’ingordigia dei maGnagers compatrioti.
CF
Le low cost strangolano gli aeroporti col co-marketing. Ci sarebbe da chiedersi perchè nessuno in Italia ha il coraggio di puntare il dito verso di esso, che è il vero problema ben contingentato e controllato nel resto di Europa. Invece da noi i pirati atterrano a Fiumicino e pretendono che i contratti siano secretati. Comunque la giriate, senza affrontare il problema principale, ritorna il fallimento. Perchè qualunque accordo per i servizi terzi, anche di una eventuale low cost nostrana, sarebbe viziata dall’ingordigia dei maGnagers compatrioti.