Il risultato delle elezioni in Gran Bretagna ha molto a che vedere con la parabola dell’Ukip. Con la Brexit avviata, i conservatori pensavano di “ereditare” i voti di Farage. Invece, la strategia laburista ha ribaltato il quadro e cambiato il dibattito.
La parabola dell’Ukip
Per capire quello che è successo nelle elezioni dell’8 giugno nel Regno Unito bisogna partire da un dato marginale dal punto di vista politico, ma fondamentale da quello elettorale: il collasso dello UK Independence Party, il partito che aveva fatto dell’uscita dall’Unione Europea la sua stessa ragione di esistere.
Dopo il referendum su Brexit e la linea dura del primo ministro Theresa May che ha dichiarato di volere abbandonare non solo la UE, ma anche il mercato unico e l’unione doganale, il ruolo di Ukip è in un certo senso finito. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona è stato formalmente invocato a fine marzo e la Brexit è ormai un processo avviato, seppure fra molte incertezze e in una situazione politicamente caotica.
Nel 2015 Ukip aveva ottenuto il 13 per cento dei voti, ma un solo seggio in parlamento per i meccanismi del sistema uninominale. E tuttavia quei quasi quattro milioni di voti rappresentavano un bottino notevole che i Conservatori si apprestavano a ereditare. L’atteso collasso di Ukip è la ragione per cui May ha convocato le elezioni. In un sistema uninominale maggioritario secco, l’aggiunta anche di una piccola percentuale di voti può determinare l’esito in molti collegi. Per questo motivo il suo margine di vantaggio iniziale nei sondaggi era del 20 per cento e ci si attendeva un parlamento con almeno 400 deputati conservatori (alcuni sondaggisti arrivavano fino a 430) e un Labour massacrato e ben sotto i 200.
Grafico 1
Il grafico mostra una media mobile dei sondaggi elettorali: il blu rappresenta i conservatori, il rosso i laburisti e il viola Ukip. La linea verticale mostra la data in cui l’elezione è stata convocata. Il “coccodrillo” formato dai voti conservatori e laburisti indica il miracoloso recupero del Labour a partire dal momento in cui ha presentato il suo manifesto elettorale.
La strategia di Corbyn
È solo in questo contesto (e aggiungendo lo scetticismo dei deputati laburisti moderati sulle capacità di leadership di Jeremy Corbyn) che si può comprendere la soddisfazione del leader laburista per il risultato dell’8 giugno. Corbyn ha ottenuto il 40 per cento dei voti, più di qualunque altro leader laburista in questo secolo (per una percentuale superiore bisogna tornare alla storica vittoria di Tony Blair del 1997). Il Labour ha retto bene in seggi marginali in cui Ukip era forte ed è riuscito a strappare 28 seggi ai conservatori in tutta l’Inghilterra, non solo nelle grandi città. I Tory hanno limitato il danno e sono oggi in grado di formare un governo di minoranza solo grazie al successo in Scozia, dove hanno preso 12 seggi allo Scottish National Party. Dunque, pur non avendo vinto le elezioni, i laburisti hanno compiuto un piccolo miracolo: recuperare 20 punti di svantaggio in cinque settimane e fare in modo che il collasso di un partito di destra come Ukip non avvantaggiasse i conservatori.
Il risultato combina flussi elettorali in entrata e in uscita. Due fattori meritano particolare attenzione: 1) una parte degli stessi elettori Ukip è tornata a votare Labour; 2) i laburisti hanno avuto una capacità di mobilitazione sul territorio che i “partiti leggeri” delle ultime elezioni non avevano avuto.
Da questo punto di vista, la strategia di Corbyn è stata molto efficace: appoggiando la Brexit in parlamento ha fatto sì che venisse di fatto derubricata a questione secondaria nella campagna elettorale, dato che entrambi i partiti maggiori si sono impegnati ad uscire dalla EU. Ciò ha permesso ai laburisti di focalizzare la strategia elettorale su temi quali l’austerità, i tagli dei Tory allo stato sociale e la crescita delle disuguaglianze, sui quali hanno raccolto ampio consenso, particolarmente fra i giovani.
Ciò spiega anche la pessima campagna dei Tory, che si aspettavano un campo di battaglia delineato dalla Brexit e non dal loro operato al governo. Gli errori dei conservatori in campagna elettorale non sono stati accidentali, sono stati forzati da un dibattito che si è progressivamente spostato sulle politiche di austerità degli ultimi sette anni.
Un partito laburista anti-Brexit sarebbe stato ricondotto dai Tory a un dibattito sulla UE e sul rispetto dell’esito del referendum. Pur non condividendo le posizioni del partito laburista su questo tema, credo si debba riconoscere la sensatezza della strategia complessiva di Corbyn.
Cosa sarebbe successo con un leader più moderato e anti-Brexit, alla Blair per intenderci? La risposta più onesta è che non lo sapremo mai.
Possiamo però porci alcune domande: come avrebbe votato la percentuale non marginale di elettori laburisti che si era espressa per il “leave” al referendum? I giovani si sarebbero mobilitati nello stesso modo per un partito centrista? I sondaggi suggeriscono che il Labour ha prevalso nettamente nella fascia di età dai 18 ai 49 anni, con percentuali superiori al 60% nella fascia 18-29 anni (fonte Yougov). Ha peraltro vinto in diversi collegi in cui il contendente non apparteneva ai conservatori ma ai liberal-democratici, nettamente anti-Brexit e certamente più vicini a Blair che a Corbyn. Lo stesso Nick Clegg, leader storico dei LibDem, ha perso il suo seggio a favore di un candidato laburista. Un Labour più al centro o anti-Brexit avrebbe forse guadagnato alcuni voti, ma certo ne avrebbe persi altri.
Grafico 2
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Henri Schmit
Thatcher prima, Cameron poi sono stati ‘bravi’ a negoziare condizioni speciali per il loro paese. Gli altri stati e l’UE hanno sbagliato di accettare, indebolendo l’UE e minando la credibilità. Cameron è stato bravissimo e sfacciato (reckless) negoziando prima il nuovo accordo che l’UE e gli altri stati (non convincenti perché non convinti) hanno sbagliato di accettare, e indicendo poi il referendum per provare a creare il massimo vantaggio per l‘UK a scapito degli altri paesi europei e della stesa UE. Il referendum doveva servire ridimensionare la critica anti-UE fuori (UKIP e direzione Labour) e soprattutto dentro il suo partito (minoranza prima, maggioranza dopo il verdetto). La scommessa non ha funzionato, ma ha chiarito il discorso per tutti. L’UE perde un socio importante, ma guadagna in coerenza e possibilmente in forza. L’UK ci perde in ogni caso a meno che l’UE e l’€ (D e F e i loro alleati, gli altri non contano) falliscano. Ci perde moltissimo se va avanti come prima delle snap elections, meno se comincia a ragionare. Ma perde: dovranno stare alle regole dell’UE senza più potervi influire. I Labouristi sono fortunati, non bravi. Saranno osservatori (all’opposizione) in un negoziato con l’UE che comunque vada danneggerà l’UK. Se l’UK dovesse tornare sui suoi passi e rinunciare alla Brexit (come Macron ha osato ipotizzare durante la conferenza stampa con May l’altroieri a Parigi), perderebbe tutti i vantaggi negoziati in precedenza. Brexit è una benedizione per l’UE.