Tutti gli anni quasi un magistrato ogni quattro si trasferisce in un altro ufficio. L’alta percentuale dei trasferimenti e l’assenza di una disciplina che ne regoli le modalità possono aggravare la già considerevole durata dei processi in Italia.
Magistrati in movimento
Ogni anno, un cittadino su dieci inizia una causa. Per rispondere a questa domanda di giustizia vi sono circa 10mila magistrati, il 90 per cento dei quali svolge funzione giudicante. Ciascun giudice italiano ha diritto a chiedere un trasferimento ogni tre anni (art. 19 Dlgs n. 160/2006; articoli 104-107 Cost). I trasferimenti sono molto frequenti: ogni anno, in media il 26 per cento dei magistrati si trasferisce ad altra sede o altro ufficio (tabella 1).
Fonte: Elaborazioni su dati del ministero della Giustizia e del Csm.
Il 26 per cento dei magistrati corrisponde alla gestione di più di un milione di procedimenti giudiziari: che cosa succede a questi casi quando il loro giudice originario si trasferisce? I processi sono temporaneamente sospesi, in attesa dell’arrivo del sostituto. In media, ogni magistrato ha sulla scrivania 715 casi nuovi l’anno, dunque oltre 1.550mila procedimenti finiscono per qualche tempo “nel congelatore”.
Così come accade con il turnover del personale all’interno di aziende o istituzioni pubbliche, le nostre statistiche confermano l’esistenza di una forte correlazione fra numero di trasferimenti e durata media di processuali civili e penali. Se consideriamo i tribunali ordinari, le sedi con un’alta percentuale di trasferimenti hanno anche una elevata durata media dei processi (figura 1).
Figura 1 – Trasferimento dei magistrati e giacenza media processuale nei tribunali ordinari, per distretto (media 2008 – 2012)
Nota: I dati sono aggregati per distretto come medie quinquennali. Il trasferimento dei magistrati viene calcolato come la somma dei magistrati entrati e usciti in rapporto al numero di quelli in servizio (“presenze”), in termini percentuali. Come stima della durata media dei procedimenti abbiamo fatto ricorso alla formula già utilizzata dall’Istat della giacenza media, calcolata come il rapporto tra la somma dei procedimenti pendenti a inizio anno e i procedimenti pendenti a fine anno, e la somma tra casi iscritti e i procedimenti esauriti nell’anno, moltiplicato per 365 giorni.
Fonte: Elaborazioni su dati del ministero della Giustizia e del Csm
Attraverso elaborazioni statistiche, abbiamo calcolato che un aumento dei trasferimenti si ripercuote negativamente sulla durata dei processi non solo nell’anno in cui avvengono, ma anche in quelli successivi (per maggiori dettagli, rimandiamo al nostro libro e articolo). I dati a nostra disposizione non permettono di “seguire” ogni singolo magistrato, un livello di dettaglio che sarebbe tuttavia indispensabile per identificare inequivocabile una relazione causa-effetto tra trasferimenti e durata. È possibile infatti che i magistrati si spostino dalle sedi con una elevata congestione dei processi, lasciando così scoperte quelle in cui ci sarebbe, probabilmente, più bisogno.
Come intervenire
Il “gioco delle sedie”, particolarmente problematico per i tribunali con un carico processuale pendente già elevato, ha effetti tanto più indesiderati quanto più alta è la frequenza dei trasferimenti e quanto maggiore è “l’arretrato” del magistrato che cambia sede. Per limitare le conseguenze negative dei trasferimenti, occorre agire su ognuno di questi aspetti.
Iniziamo dal primo: il problema deriva in parte dal sistema concorsuale nazionale su cui è basato il reclutamento dei magistrati, che non assicura la possibilità di coprire per tempo e con continuità i posti divenuti vacanti, oltre che per pensionamenti, anche in seguito a trasferimenti. L’assegnazione ideale dei magistrati alle sedi dovrebbe essere più “stabile”, ossia dovrebbe rispondere il più possibile alle preferenze individuali, alzando così il tempo di permanenza in un dato ufficio e riducendo i tempi dei trasferimenti.
Il secondo aspetto è la gestione del carico pendente di chi si trasferisce. Un magistrato che rimane più a lungo in uno stesso ufficio non solo riesce a dare continuità a un “ciclo” di processi, ma può anche sfruttare la specializzazione acquisita nello svolgimento del suo incarico (sempre rimanendo all’interno del termine massimo di permanenza decennale). Invece di essere fissata a priori, la permanenza minima nell’incarico in un determinato ufficio potrebbe essere calibrata in relazione al carico di lavoro da smaltire. Per esempio, si potrebbe permettere il trasferimento solo quando l’arretrato sia esaurito o comunque veloce da gestire per il subentrante.
Proposte per una più efficiente gestione dell’arretrato provengono dal Programma Strasburgo e dalla calendarizzazione delle udienze (Coviello, Ichino e Persico (2014)). Dato l’ingente volume di affari giudiziari, sembra sempre più opportuno che i magistrati acquisiscano abilità di project (o meglio, case) management. Alcune applicazioni, come l’agenda elettronica del magistrato A–Lex®, consentono un’organizzazione ottimizzata del calendario dei processi, determinando il momento migliore per effettuare il trasferimento sulla base delle preferenze del magistrato e dei vincoli amministrativi e legislativi.
Un’altra soluzione riguarda l’informatizzazione degli uffici giudiziari. Raccogliendo informazioni dettagliate sui magistrati, sul loro carico di lavoro e sui trasferimenti si potrebbe stimare per tempo il numero di posti per cui indire nuovi concorsi tenendo in considerazione spostamenti e pensionamenti.
Prima di una qualsiasi eventuale ristrutturazione della disciplina dei trasferimenti, l’efficacia di ciascuna proposta andrebbe testata e discussa. Perché non provare?
* Le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire agli autori e non investono la responsabilità delle istituzioni di appartenenza.
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Michele
L’articolo tratta un tema interessante evidenziando un problema sicuramente esistente. Tuttavia, a mio avviso, la correlazione tra elevato numero dei trasferimenti e durata dei processi non è poi così grave, come del resto concesso in via possibilistica nello stesso articolo (vista la natura aggregata dei dati considerati).
Mi pare infatti che l’esperienza di alcuni uffici giudiziari virtuosi abbia dimostrato come il fattore principale nel determinare il prodursi di arretrato sia proprio la presenza o meno di una organizzazione razionale del lavoro all’interno di ciascuna singola sede.
Tra l’altro l’articolo mi pare trascurare un dato fondamentale per capire l’attuale sistema. Ossia l’accesso in magistratura è congeniato in modo da permettere a chi ha “punteggi” più elevati di scegliere per primo i posti più ambiti ed il “punteggio” in questione si guadagna poco a poco per esercitando funzioni oppure, più rapidamente, scegliendo le sedi “disagiate”, cioè quelle che logorano maggiormente il magistrato (di norma luoghi dove è ben radicata la criminalità organizzata). A ciò aggiungasi che il magistrato deve obbligatoriamente cambiare funzioni su base periodica (per evitare il nascere di clientelarismi e eccessivi consolidamenti di potere personale). Perciò è attualmente fisiologico che il magistrato mediamente inizi la carriera in zone del Paese ove la qualità della vita è inferiore e provi poco a poco a trasferirsi ove essa è più elevata appena ne ha la possibilità.
sandra
Gli autori partono da uno spunto interessante ma svolgono un’analisi incompleta : non viene infatti per nulla valutato il rilevantissimo apporto dei magistrati onorari di tribunale (GOT), ovvero di circa 2500 professionisti (per il solo primo grado) ai quali di norma i Capi degli Uffici affidano, per lo più “in blocco” i ruoli dei magistrati ordinari trasferiti, promossi, posti fuori ruolo o temporaneamente assenti.
Occorrerebbe, in tal senso, un opportuno supplemento d’indagine.