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Scomode verità sul referendum per l’autonomia

Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati.

La questione dei residui

Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze.

L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione.

Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica).

Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure 47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.

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Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.

Cosa farà il governo?

Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica.

Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti.

Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.

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Il Punto

  1. Quando Milano chiederà l’autonomia dalla Lombardia (anche finanziaria) e si pagherà i suoi debiti …
    Per le decisioni serie e di impatto vi aspetto, anche il bello di essere cittadini d’Europa

  2. Henri Schmit

    Ottimo articolo. Si tratta di un rapporto fra governi, locali e centrale. I cittadini dovrebbero diffidare da consultazioni popolari indette da chi governa. L’obiettivo non è MAI quello di lasciar decidere a loro. Anche quello di Ponzio Pilato era una forma di referendum. Il popolo poi non decide sempre come previsto; di solito soprattutto quando sta male vota più con la pancia che con la testa. A volte c’è quello che in inglese si chiama backfire. Cameron e Renzi ne sanno qualcosa. L’unico referendum (la parola peraltro non è molto appropriata, sarebbe referibile parlare di consultazione popolare su iniziativa di qualcuno) serio è quello di iniziativa popolare o di una minoranza, ovviamente a condizioni precise, predeterminate, rigorose e articolate, tendenzilamente contro chi governa.

  3. bob

    ..una becera lotta interno nell’ambito “clan Lega” tutto qui! Vorrei aggiungere la banale considerazione che il ” residuo fiscale” si genera perchè all’ interno di un sistema e soprattutto di un mercato interno che se analizzato da ben altri scenari. Non dimentichiamoci della ” consistenza culturale ” dell’elettorato di riferimento

  4. E.B.

    “È ovvio che se lo stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.” non capisco bene questa frase: se su qualel quota il rapporto tra denaro versato e denaro ricevuto era maggiore di 1 (che è la ragione per la quale esiste il residuo), allora l’effetto non può essere neutrale.

  5. Michele Lalla

    L’articolo è interessante perché fa comprendere complessità della questione, come deve accadere in questa sede. Alle dita arrivano lettere di fuoco per chi ha promosso il referendum e per chi è andato loro dietro, ma, restando in tema, nell’articolo avrei trovato interessante un cenno a altri tipi di trasferimento. Per esempio, i contributi alle imprese che sono, appunto del nord, per dirne una, sono state conteggiate? I contributi ai disoccupati? I costi delle infrastrutture? Altrimenti diventa che ciò è mio, è mio, e ciò che è tuo è anche mio. Penso di sì, ma a volte ho dubbi. Se cominciassimo a boicottare le merci prodotte in Lombardia e in Veneto, cosa accadrebbe? Ecco il mio invito a quelli del sud, sulla cui razionalità ho dubbi, visto i tanti voti che prende la lega al sud e anche i suoi accoliti: cominciamo a comprare straniero, rispetto alle merci prodotte nel Lombardo-Veneto, cosí vediamo se anche i cittadini che li votano rinsaviscono, visto che la classe dirigente è divisiva, invece di essere inclusiva. Ci si è dimenticati che è l’unione che fa la forza, non la divisione.

  6. Zazza

    Certo avremo qualcosa da sacrificare come veneti, però il trentino ci è da esempio… quindi non vedo il motivo di NON provare con questo iter visto che da anni la tassazione ad imprese, il welfare alle famiglie e le restanti imposte ai cittadini sono rimaste le stesse…quindi i pro sono di più rispetto ai contro… anche se sicuramente ROMA sarà restia a dare quello che spetta ad una regione che in merito a fedeltà fiscale non ha nulla da eccepire in tutti questi anni…

  7. Paolo

    Se invece dei referendum (inutili) abolissimo le regioni a statuto speciale? E magari anche le province, ma per davvero, non per finta, e se ancora, riducessimo un po’ il numero degli 8000 comuni che non ce la fanno da soli, e quindi mettessimo in galera chi sciupa il denaro pubblico con le centinaia di opere inutili ecc. ecc. ecc. Basta potere alla politica.

  8. Savino

    Le Regioni cercassero di esercitare al meglio quelle (poche o tante) materie di competenza che hanno ottenuto finora. La sanità è ancora più una spina che una rosa, anche in un quelle Regioni che credono di sentirsi virtuose ed efficienti. Idem per il trasporto pubblico locale, il sociale di competenza (casa, diritto allo studio, formazione professionale), per non parlare degli ambiti di competenza sulla salvaguardia del territorio ed ambientale.
    L’esempio in negativo sull’autonomia in senso stretto è, oggi, dato dalla Regione Autonoma Valle D’Aosta. Non stiamo parlando della Sicila, bensì di come si è riusciti a dilapidare il patrimonio di una Regione con sede nel cuore dell’Europa, con risorse straordinarie ed uniche, a partire dal turismo legato alla montagna.

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