L’ultimo Consiglio direttivo della Bce non segna alcun cambio di rotta sulla politica accomodante. D’altra parte, la posizione dell’amministrazione Usa a favore di un dollaro debole allontana le tre condizioni per mettere fine al Quantitative easing.
Nessun cambio di rotta per la Bce
La Banca centrale europea non cambia rotta. Dal Consiglio direttivo del 25 gennaio non sono usciti nuovi annunci. E la partita tra i mercati e la Bce continua. Da una parte, la convinzione di molti operatori finanziari che Francoforte non abbia altra scelta che mettere presto fine al Quantitative easing, un’anomalia impensabile fino a qualche anno fa, e che non può durare. E così, la fine del Qe è stata più volte, prematuramente, annunciata.
Dall’altra parte, il presidente della Bce a ribadire che la politica accomodante continuerà ancora a lungo. Da quasi un anno, Mario Draghi ripete le tre condizioni che secondo il Consiglio direttivo devono essere soddisfatte prima di cambiare rotta: che l’inflazione dell’area euro ritorni al livello obiettivo, che si dimostri stabile a quel livello e che sia in grado di reggersi anche senza il sostegno della politica monetaria. Ma a dare voce a opinioni diverse sulle prospettive del Qe ci hanno pensato, nelle scorse settimane, proprio alcuni membri del Consiglio direttivo. E se ci sia un problema di comunicazione per l’istituto di Francoforte, è stato un punto sollevato in più di una domanda in conferenza stampa, cui Draghi ha risposto minimizzando e rilevando invece un eccesso di emotività dei mercati finanziari.
Rispondendo alle domande, Draghi ha spiegato che la politica accomodante continua perché dall’ultima riunione “non è cambiato molto”. La crescita del Pil è un po’ più alta del previsto, ma è controbilanciata dall’apprezzamento dell’euro. Ed è il cambio la grande incognita, il “downside risk”, che potrebbe giustificare tempi più lunghi per il “tapering”, un punto sul quale ci si è già soffermati su queste colonne.
Uno degli effetti del Qe era stato per l’appunto un euro più debole (vedi grafico 1) che ha contribuito a sostenere la domanda nell’area euro nonostante gli effetti restrittivi degli aggiustamenti delle finanze pubbliche. Ma oggi, con un avanzo delle partite correnti che viaggia oltre al 4,5 per cento del Pil, salgono le pressioni per un euro più forte. L’impressione è che i mercati abbiano sopravvalutato i fattori di breve periodo, e cioè il divario dei tassi che gioca a favore di un euro più debole, rispetto ai fondamentali, e cioè l’avanzo delle partite correnti e il differenziale di inflazione, che giocano invece a favore di un euro più forte.
La posizione Usa
In questa delicata situazione è entrata a gamba tesa l’amministrazione Trump. Al World Economic Forum di Davos di questi giorni, il ministro del Tesoro Usa, Steven Mnuchin, ha dichiarato di guardare con favore a un dollaro più debole. Per tutta risposta, Draghi ha puntato il dito sugli effetti potenzialmente avversi “delle politiche altrui” e non ha esitato a riferire la profonda preoccupazione dell’intero Consiglio direttivo “per lo stato complessivo delle relazioni internazionali” (leggi: con gli Stati Uniti).
La Bce, ha dichiarato Draghi, non ha come obiettivo il cambio, ed è lontana dall’idea di voler favorire le esportazioni (ancorché il Qe, aggiungiamo noi, abbia fatto proprio questo). Senza troppi giri di parole, Draghi ha accusato l’amministrazione americana di non tener fede a quanto concordato nell’ambito del Fondo monetario internazionale, e cioè la rinuncia a svalutazioni competitive.
Un euro più forte può significare meno sostegno all’export e un rallentamento dell’area euro in assenza di altre componenti della domanda. E significa anche meno inflazione, quindi tempi più lunghi prima di vedere realizzate le tre condizioni per metter fine alla politica accomodante.
Grafico 1
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Stefano73
Interessante la considerazione dell’autore “Uno degli effetti del Qe era stato per l’appunto un euro più debole (vedi grafico 1) che ha contribuito a sostenere la domanda nell’area euro nonostante gli effetti restrittivi degli aggiustamenti delle finanze pubbliche”.
Quindi stiamo ammettendo che la BCE ha usato il quantitative easing per effettuare una svalutazione del cambio monetario per sostenere la domanda. Ma le svalutazioni del cambio non erano brutte e cattive quando le faceva la Banca d’Italia ante Euro per sostenere le esportazioni italiane (vedi Modigliani Il Miracolo possibile)? Invece quando lo fa la BCE per sostenere le esportazioni europee (vedi Germania) diventano buone ed assolutamente legittime come strumento della politica economica ?
Ringraziamo Trump che ha rinviato la fine del QE perché per i PIIGS saranno tempi duri quando finirà perché partiranno le speculazioni sui titoli di Stato e per ottenere l’intervento UE dovremmo accettare il Ministro delle finanze europeo, vale a dire la fine del potere degli stati membri di decidere la politica economica.
A quel punto potremmo evitarci di andare a votare per i prossimi anni senza contare che in un Paese ad alta evasione fiscale l’intervento della BCE sarebbe subordinato ad una garanzia sulla solvibilità costituita da una pesante imposta patrimoniale (che non colpirebbe i populisti), ma la classe economiche più benestanti del nostro Paese (salvo ipotesi di fuga all’estero modello 8 settembre 1943).