Le grandi aziende di Internet meritano sicuramente lo scrutinio delle autorità antitrust. Ma con cautela. Perché c’è il rischio che una politica eccessivamente interventista non favorisca la concorrenza, ma riduca gli incentivi alla continua innovazione.
Gli effetti di rete premiano i più grandi
Titani, giganti, i termini evocativi negli ultimi tempi abbondano per riferirsi alle grandi aziende di Internet, da Google a Facebook ad Amazon, al centro delle riflessioni sulla concorrenza e sulle società odierne. Cerchiamo quindi di dipanare la matassa guardando prima di tutto alle ragioni che spiegano l’emergere di imprese di grandissime dimensioni, per utenti, fatturato, capitalizzazione, nei segmenti dell’alta tecnologia.
Gran parte di queste realtà hanno un tratto in comune, le imprese rappresentano altrettante piattaforme attraverso cui diversi gruppi di soggetti economici interagiscono. Restringendo l’attenzione al nucleo di servizi su cui inizialmente queste imprese sono nate, in Amazon (o eBay) i venditori di beni e servizi interagiscono attraverso la piattaforma con i clienti, in Google gli utenti che compiono una ricerca sono messi in contatto con gli inserzionisti, mentre Facebook è il prototipo di una piattaforma di social network attraverso cui gli utenti si incontrano, ma vengono anche raggiunti da messaggi pubblicitari da parte degli inserzionisti. Nulla di nuovo, si dirà, la televisione tradizionale in chiaro da molti decenni vende agli inserzionisti l’attenzione degli utenti distribuendo gratis a questi ultimi i contenuti.
Quello che, in più, osserviamo nel mondo di Internet è la capacità di raccogliere informazioni sulle caratteristiche e i gusti degli utenti, attraverso i modi con cui questi utilizzano i diversi servizi messi a loro disposizione. Quella che nella televisione tradizionale era una campagna pubblicitaria indifferenziata, che raggiungeva consumatori più o meno interessati al prodotto, può diventare, nel mondo di Internet, una campagna selettiva, che raggiunge e si adatta ai gusti dei diversi utenti, differenziando messaggi e proposte a seconda dei singoli utenti. Con un valore molto maggiore per gli inserzionisti e introiti pubblicitari più elevati per le piattaforme.
Entriamo quindi nel mondo dei big data, la enorme massa di informazioni che le piattaforme raccolgono sui propri utenti e che, adeguatamente analizzate attraverso i propri algoritmi, permettono di profilare il pubblico e offrirlo in modo selettivo e appropriato agli inserzionisti e venditori.
Questi meccanismi sono governati dai cosiddetti effetti di rete, esternalità tra i diversi versanti raggiunti da una piattaforma, che determinano una progressiva crescita del soggetto vincente. Maggiore è il numero di utenti, più efficaci diventano gli algoritmi di profilazione, migliore è la capacità di raggiungere il pubblico adeguato che la piattaforma offre agli inserzionisti, maggiori gli introiti da questi ottenuti. E, nella direzione opposta, più rispondenti ai propri gusti sono i suggerimenti, ad esempio proposti da un motore di ricerca nella parte sponsorizzata dei risultati, maggiore è l’utilizzo da parte degli utenti. Ma le esternalità di rete operano anche in modo indiretto: perché i maggiori introiti pubblicitari consentono di investire in un miglioramento e arricchimento dei servizi offerti al pubblico, aumentandone il grado di partecipazione. Il mercato, a un certo punto, tende a concentrarsi su un numero molto limitato di soggetti vincenti.
Il ruolo delle autorità antitrust
Ma allora andiamo verso un mondo dominato da un ristretto numero di soggetti che possiedono moltissime informazioni su ciascuno di noi? O Internet per sua natura rimane un mondo contendibile, dove i vincitori di oggi verranno rimpiazzati da nuovi campioni domani? I big data sono una barriera all’entrata che può bloccare la crescita dei futuri concorrenti che non vi accedono? Un semplice rimando alla nostra esperienza quotidiana suggerisce come siamo oramai abituati, magari incautamente, a disseminare informazioni personali attraverso l’uso di Internet e delle moltissime applicazioni, a una pluralità di soggetti. Esistono, in altri termini, molti giacimenti di informazioni. Inoltre, i dati possono essere acquistati da intermediari specializzati. Non è poi il dato di per sé, ma la capacità di analisi attraverso gli algoritmi a fare la differenza. Infine, l’entrata nel mondo di Internet è prima di tutto attraverso la creazione di nuovi servizi e applicazioni, ciascuno dei quali, se di successo, percorre il proprio sentiero verso la leadership in quel particolare segmento. Nel mondo di Internet gli utenti utilizzano molti servizi contemporaneamente, quello che nel gergo viene chiamato multi-homing, e attraverso questa naturale condotta lasciano aperte le porte alla concorrenza. Una concorrenza che, attraverso la competizione per l’attenzione degli utenti, mette le piattaforme in rivalità tra loro, ma anche con i media tradizionali e gli altri soggetti impegnati nell’informazione e nell’intrattenimento.
In conclusione, i nuovi Titani, come recentemente li definiva l’Economist, sono sicuramente meritevoli di scrutinio e attenzione da parte delle autorità antitrust, e la Commissione europea si distingue in questa prospettiva. Ma con la cautela che è suggerita dal rischio che una politica eccessivamente interventista, invece di mantenere aperti i canali di competizione riduca gli incentivi alla continua innovazione che osserviamo in questi mercati.
I big data inoltre evocano spesso nel dibattito politico gli spettri di un grande fratello che minaccia la privacy e la democrazia. La dimensione delle grandi aziende e le informazioni che possiedono giustificano una riflessione in questo senso. Ma suggeriscono anche di non assegnare alle autorità della concorrenza compiti ulteriori che esorbitano dal proprio ruolo di controllori della competizione, esponendole a incursioni in terreni non propri e a scelte che non sarebbero guidate dalla loro consolidata cassetta degli attrezzi.
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Henri Schmit
Tutto giusto, ma penso che il problema sia molto, molto più grave. Digitale e big data sono risorse, opportunità, ma anche un rischio: per la privacy e per la sicurezza (evidente, ma difficile da gestire), per l’economia e per i mercati (sviluppo vs squilibri; le regole del passato non tengono conto del potenziale digitale, potenziale di sviluppo e potenziale di abusi vari) e infine per la società (impatto della digitalizzazione e robotizzazione sul lavoro, complessità e opacità della gestione, servilismo delle singole funzioni, aumento delle disuguaglianze e dei conflitti), e per la democrazia (impossibile senza libertà e uguaglianza, non solo formali, finti, ma veri, sostanziali): finora la democrazia digitale è solo un inganno;forse perché la democrazia ante-digitale non era effettiva, ben compresa e applicata effettivamente. Ultimo rischio: per ragioni d’interesse chi se ne occupa, gli esperti, sta dalla parte dei potenziali usurpatori, raramente dalla parte delle vittime. “Meno male che Soros c’è”.
Mr. Digital
Non sono affatto d’accordo. La prudenza è sempre una “non scelta”. Abbiamo già dmenticato com’è nata l’antitrust? Per “demolire” una società (la Standard Oil) che aveva finito per monopolizzare produzione, raffinazione, trasporto e commercializzazione di petrolio. E – oggi – quale materia prima è più rilevante del controllo sulle informazioni? C’è un assunto, poi, che non mi aspettavo. Il “mito” che possa nascere una start up in grado con la sua innovazione di “cambiare paradigma” (es: un nuovo algorimo per un nuovo motore di ricerca). Ebbene, semplicemente, le major di internet la acquisirebbero seduta stante… arricchendo l’innovatore ma concentrando ancora più il predominio (basta, a riprova, quante società ha acquisito google negli ultimi anni). Altro che prudenza … è già tardi.