Tim è ora guidata da una coalizione variegata, nella quale manca un socio dominante. La situazione che si è creata dà al cda un’occasione storica per fare il suo dovere. Che non è garantire un profitto ai soci, ma agire nell’interesse dell’impresa.

Strana alleanza in Tim

Continua la guerra sulle spoglie di quella che fu una grande impresa; oggi Telecom Italia potrebbe essere protagonista in Europa, ma nel nome aveva l’Italia, costretta dai vincoli di bilancio e dal patto Andreatta-Van Miert a cederne il controllo.
Non è che i soci del “nocciolino duro” che nel 1997 ne rilevò il 6 per cento volessero tirare sul prezzo; si degnarono di entrare nella società – oggi ridenominata Tim – senza vedere il suo vero valore. Per limitare i danni comprarono solo il 6 per cento; credevano nella superiorità del capitalismo privato (di cui si ritenevano il culmine) su quel management, inadeguato proprio perché pubblico.
Telecom era monopolista, certo, ma a quei privati avrebbe giovato un corso di management in alcune di quelle imprese pubbliche. Il socio-stato era certo invadente, spesso corrotto e incapace;  lo stesso si poteva dire di alcuni “nocciolinisti”. Per privatizzare servono i privati, ognuno fa con quelli che ha. Veniamo all’oggi. L’assemblea del 4 maggio ha disarcionato il consiglio di amministrazione espresso da Vivendi, azionista al 24 per cento, appena sotto la soglia che, se superata, obbliga a un’offerta pubblica di acquisto (Opa) sul residuo capitale. Tim ora ha un cda scelto per due terzi dall’alleanza fra un fondo di private equity dai metodi aggressivi – Elliott (con poco meno del 9 per cento) – e la Cassa depositi e prestiti (al 4 per cento circa), cui si sono uniti molti investitori istituzionali, stufi delle angherie di Vivendi: dall’idea di vendere asset di Tim per ottenere un via libera dell’Antitrust europeo, trascurando però di chiedere l’ok di Tim, a quella di usarla per dirimere i contrasti con Mediaset.
Se non lancia un’Opa a bocce ferme, con il proprio 24 per cento Vivendi può far poco più che bloccare, in assemblea straordinaria, delibere a lei sgradite. Le bocce, però, ferme non sono mai, e qui tanto meno. Elliott è un fondo speculativo, come tutti vende o compra un titolo per guadagnare, solo lo fa in grande. Probabilmente venderà quando il corso di Tim supererà una data soglia. Ognuno tiene coperta la propria agenda; sarebbe però bene chiarirla al mercato e qui la nuova Consob potrebbe battere un colpo.
Elliott forse resterà quanto basta per un buon guadagno, ma cosa farà Cdp? Vorrà “arbitrare” solo questa partita o sorvegliare la direzione di marcia di una Tim da cui pian piano uscire, o infine ricondurla a tutela pubblica? Le idee in materia forse sono già definite; magari Elliott è stato sollecitato a entrare o forse Cdp gli si è affiancata per condizionarlo e mettere all’angolo Vivendi.
Tim ha davanti scelte importanti, non può aspettare i tempi lenti delle trattative; molto soffrirebbe da un lungo stallo o, peggio, da una guerra fra soci, possibile data l’aggressività di Vincent Bolloré, dominus di Vivendi.

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Qual è il ruolo del cda

Cosa vuol davvero essere Tim in uno scenario in caotico mutamento? Davvero il nuovo corso separerà Tim dalla rete, dopo tanti capovolgimenti di rotta, visti i venti di una politica non meno volatile?
Il nuovo cda ha confermato come amministratore delegato Amos Genish che, nonostante sia stato appena installato dai francesi, parrebbe deciso a restare. Ciò potrebbe avvenire davvero solo nel quadro di un’intesa fra i duellanti.
Sullo sfondo c’è il grande tema della governance. Il nuovo cda, figlio dell’ibrida coalizione che lo esprime, non ha più davanti un socio dominante; ne ha diversi di peso, ognuno con la propria agenda. Questa sospensione del controllo gli offre un’occasione unica. Esso potrà scegliere se continuare con certe brutte abitudini passate, accucciarsi sotto un nuovo padrone, oppure fare il suo dovere. Che non è “creare valore per i soci”;  se anche lo fosse, di quale fra i molti tipi di soci? Il cda deve invece agire nell’interesse dell’impresa: soggetto che, come un minorenne privo di autonoma capacità decisionale, è affidato al tutore, il cda appunto. Dopo lo sviluppo, rapido e armonico del “trentennio glorioso” dal Cinquanta all’Ottanta, vennero le teorie sulla creazione di valore per l’azionista che vedono l’impresa come un “fascio di contratti”. Essa è invece una persona, sia pur giuridica, che nasce per dare ai clienti che vogliono comprarli, beni o servizi a prezzi che consentano di rinnovare il capitale fisso e remunerare i soci. Il profitto è condizione necessaria alla vita dell’impresa, non il suo scopo, tanto meno unico.
I terremoti elettorali seguiti alla crisi finanziaria ci mostrano i pericoli che corre l’economia di mercato se non rimette al centro l’impresa, anziché i soci che la finanziano. Nel 2014 Martin Wolf scrisse sul Financial Times, non sulla Pravda, che il capitale, come una polizza di assicurazione, protegge l’impresa da rischi avversi. L’impresa non ha padroni e neanche i suoi assicuratori lo sono.
Come scrisse Lynn Stout, giurista alla Cornell da poco deceduta, negli Usa, tempio del capitalismo, non c’è statuto, sentenza statale o federale, tanto meno legge, a dire che scopo dell’impresa sia il profitto. Se non riprendiamo la strada giusta, rischia anche la democrazia: anche chi non ha lavoro vota, solo con più rabbia.

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