L’esperienza di altri paesi dimostra che per il successo delle politiche attive per il lavoro le risorse finanziarie da sole non bastano. È invece cruciale il “governo” dei Cpi. In Italia potrebbe essere un organismo nazionale controllato dalle regioni.
L’esempio di Francia e Germania
È del tutto condivisibile il proposito del governo di impiegare risorse finanziarie per rafforzare i centri per l’impiego (Cpi). Una delle difficoltà cui possono andare incontro misure di contrasto alla povertà è creare la ben nota “trappola” e disincentivare l’offerta di lavoro. Di qui l’idea di legare il sussidio alla disponibilità a lavorare (principio di “condizionalità”) e mettere in grado i Cpi di raccogliere le informazioni sui posti vacanti esistenti presso le imprese e trasmetterli ai beneficiari dei sussidi perché le possano utilizzare. I Cpi dovrebbero poi verificare che i senza lavoro accettino le proposte “congrue” loro offerte e, in caso di rifiuto ripetuto, segnalarli all’Inps per la sospensione del sussidio. Ma basteranno i soldi per ottenerlo?
Le risorse sono certamente necessarie come dimostra il confronto con paesi, come Francia e Germania, che spendono almeno cinque volte più di noi per le politiche attive del lavoro. Ma proprio l’esperienza degli altri paesi dimostra come le risorse finanziarie da sole non bastano. La questione cruciale è quella della “governance” e in particolare del “governo” dei centri per l’impiego.
In Francia e in Germania, la “governance” è affidata a una agenzia nazionale statale che gestisce contemporaneamente la erogazione dei sussidi e la gestione dei servizi di politica attiva. E ciò avviene con l’articolazione in uffici operanti sul territorio (corrispondenti ai nostri Cpi) che dipendono gerarchicamente dal vertice nazionale.
Unificando a livello istituzionale (nazionale) la gestione dei due tipi di politiche del lavoro, quelle attive dei servizi con quelle “passive” di erogazione dei sussidi, Francia e Germania sono in condizione di rendere più efficaci ed efficienti le politiche di contrasto alla povertà e alla disoccupazione.
Due soluzioni per la governance
Fallito il referendum del 2016, una riunificazione delle politiche in un unico livello istituzionale da noi non è possibile. Occorrerebbe un forte coordinamento tra stato e regioni. È possibile raggiungerlo?
Più di un dubbio viene dall’esperienza passata. Le riforme del lavoro di questi anni hanno già imposto alle regioni il compito di attivare, tramite i Cpi, i percettori dei sussidi di disoccupazione, con le modalità già dette (offerta di lavoro congrua, possibilità di rifiutare una sola volta e così via).
Ma i risultati sono stati molto modesti. La percentuale di disoccupati che trovano lavoro tramite i Cpi è estremamente bassa. E non si ricorda un solo caso in cui un Cpi abbia segnalato il rifiuto di un’offerta di lavoro “congrua” da parte del beneficiario del sussidio.
Una soluzione è di seguire un modello simile a quello della sanità (sistema sanitario nazionale) dove la gestione spetta alle regioni, ma i livelli minimi essenziali delle prestazioni sono determinati dal governo centrale. In una certa misura, l’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, cerca di avviare questo modello.
Al governo dovrebbe essere riconosciuto il potere di controllare che i livelli minimi vengano rispettati, forte anche del fatto che gli spetterebbe il potere, come nel Ssn, di determinare e distribuire alle regioni le risorse finanziarie necessarie per far funzionare il servizio. L’applicazione del principio di “condizionalità” nei confronti dei beneficiari dei sussidi dovrebbe essere il cardine di queste prestazioni minime che ciascuna regione dovrebbe garantire.
Se si volesse mettere in pratica un modello di questo tipo occorrerebbe pur sempre una forte collaborazione da parte delle regioni e, in ogni caso, non basterebbe certamente un anno o due per metterlo in funzione. L’esperienza passata non induce certo all’ottimismo sulla disponibilità da parte delle regioni a collaborare e a riconoscere al governo centrale questi poteri. Se la necessaria collaborazione non ci fosse, la direzione di marcia dovrebbe essere un’altra.
Si può ipotizzare che le regioni cedano buona parte della loro “sovranità” non al governo centrale, ma a un organismo nazionale (può essere anche l’Anpal) diretto e controllato dalle stesse regioni, con il compito di gestire le politiche attive attraverso propri uffici territoriali (i Cpi). I Cpi dipenderebbero gerarchicamente da un’unica struttura nazionale gestita collettivamente dalle regioni con organi direttivi da loro nominati.
Il vantaggio di questa soluzione sarebbe di semplificare la “governance”. Il governo – cui spetta la responsabilità di una gestione corretta delle risorse nazionali e di dare indirizzi alle regioni – e l’Inps – cui spetta la effettiva erogazione dei sussidi – avrebbero un unico interlocutore con cui coordinarsi, invece di passare attraverso rapporti singoli con ciascuna regione. L’appropriazione da parte delle regioni della struttura nazionale dovrebbe rassicurarle riguardo alle possibili intrusioni dello stato. E sarebbe utile per garantire maggior uniformità sul territorio nazionale delle politiche attive e di attivazione dei beneficiari dei sussidi.
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Savino
L’italiano medio è tenuto a cambiare mentalità, da entrambe le parti della scrivania. Non si deve più trovare lavoro tramite il solito giro di conoscenze, raccomandazioni e favori. Il CPI deve, quindi, essere l’istituzione pubblica cui ci si rivolge. In questo senso, le politiche attive del lavoro devono essere quella parte di diritto del lavoro che rientri in pieno nell’ambito pubblico. I selezionatori e gli operatori hanno un ruolo con responsabilità che incide sul futuro delle persone. Si deve, quindi, trattare di gente molto qualificata e assai fedele ai criteri di obiettività, perchè c’è da scegliere in base al percorso formativo e professionale delle persone. Intollerabile un mondo del lavoro che continua a far passare avanti i meno qualificati.
Henri Schmit
L’idea di governance dei CPI attraverso un organo federale gestito dalle regioni, è interessante, ma rischia di essere inefficiente. Invece di gestire le agenzie come centri di potere (e di sistemazione dei clienti) contesi fra autorità locali e nazionali, bisogna garantire che siano gestiti in modo efficiente, con organigrammi piatti, con le figure professionali adatte, con salari moderati, in un’ottica di efficienza e di risultato, come nel mondo dell’impresa, e che siano controllati non (solo) da organi terzi indipendenti, ma dalla propria struttura direzionale. Chi garantisce questi risultati? 20 direzioni regionali, l’organo federale o un responsabile nazionale? L’on. autore sembra pure insinuare che è colpa di coloro che hanno fatto fallire il referendum costituzionale se la soluzione di massima efficienza non è disponibile. La lamentela esplicita è stata formulata dal presidente dell’ANPAL all’indomani del referendum (Del Conte, La Repubblica7 dicembre 2016). È tutt’al più una questione di punto di vista attribuire la colpa della bocciatura di una modifica valida impacchettata in una riforma truffaldina a coloro che hanno votato contro o a coloro che l’hanno escogitata. Quel che è vero è che è un peccato che non sono stati ricentralizzati alcuni poteri resi concorrenti nel 1999.