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Pir, un investimento che piace agli italiani

I piani individuali di risparmio hanno un obiettivo: favorire l’investimento di lungo periodo in strumenti finanziari emessi da imprese italiane medio-piccole. Tra i risparmiatori hanno avuto successo. E i malumori delle aziende sono ingiustificati.

Perché sono stati introdotti i Pir

I piani individuali di risparmio (Pir), istituiti con la legge di stabilità del 2017, sono “contenitori fiscali” all’interno dei quali i risparmiatori italiani possono collocare diversi strumenti finanziari, come azioni e obbligazioni. I Pir beneficiano di una importante agevolazione fiscale che consiste nell’esenzione da tassazione dei redditi prodotti dagli investimenti effettuati. Per ottenerla, la normativa prevede alcuni vincoli. Primo, almeno il 70 per cento del valore degli strumenti finanziari nel Pir deve essere investito in strumenti emessi da imprese residenti in Italia, o con stabile organizzazione in Italia. E almeno il 21 per cento del valore complessivo deve essere investito in strumenti finanziari emessi da imprese diverse da quelle quotate nell’indice Ftse Mib di Borsa italiana. Secondo, la normativa prevede un periodo minimo di investimento pari a cinque anni e un limite all’ammontare massimo di risparmio che ogni risparmiatore può impegnare in Pir.

L’istituzione dei Pir è legata a un obiettivo chiaro. Favorire l’investimento di lungo periodo in strumenti finanziari emessi da imprese italiane medio-piccole e comunque non esclusivamente nelle imprese di dimensioni maggiori quotate sull’indice Ftse Mib.

L’idea è che una maggiore offerta di risparmio possa da un lato convincere molte imprese a quotarsi sui segmenti di Borsa italiana dedicati alle Pmi, come Star e Aim, che prevedono meno vincoli e minori costi di quotazione; e dall’altro possa diminuire il costo del capitale. Per conseguire l’obiettivo, i Pir offrono un incentivo fiscale rilevante, se pensiamo che in Italia i rendimenti sono tassati al 12,50 per cento nel caso dei titoli di stato e assimilati e al 26 per cento per le altre tipologie di investimento.

L’apprezzamento dei risparmiatori e i dubbi delle aziende

I risparmiatori italiani hanno apprezzato i Pir più delle attese. Secondo gli ultimi dati Assogestioni, i fondi Pir hanno raggiunto una massa totale pari a circa 18 miliardi di euro, raccolta quasi interamente nel 2017. Il loro successo ha sicuramente contribuito all’aumento della raccolta di capitale sul mercato Aim. Nel 2017, la raccolta è stata pari a circa 1,2 miliardi di euro, in aumento del 500 per cento rispetto al 2016, con 24 nuove quotazioni di Pmi. Questi numeri sono stati favoriti da altri incentivi presenti nella legge di bilancio 2017, come il credito di imposta pari al 50 per cento dei costi di consulenza relativi alla quotazione.

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In un precedente articolo avevo spiegato come i rischi per i risparmiatori non siano pochi. Innanzi tutto, i costi di gestione dei Pir tendono a essere maggiori rispetto a prodotti con rapporto rischio-rendimento simile. Anche piccole differenze nei costi di gestione, per investimenti di lungo periodo, comportano differenze sostanziali nel valore finale. Bisogna quindi auspicare che maggiore concorrenza tra i gestori porti a una riduzione dei costi. Oggi, uno dei fondi Pir a maggiore raccolta chiede commissioni di gestioni pari all’1,5 per cento all’anno, mentre un Etf azionario europeo tra quelli più di successo richiede solo lo 0,10 per cento. Inoltre, i Pir, per loro natura, offrono poca diversificazione e investimenti in attività poco liquide e tipicamente rischiose. Per queste ragioni, è importante verificare con attenzione tutti i costi impliciti ed espliciti, oltre che il grado di diversificazione complessivo del proprio portafoglio.

Se i Pir hanno raccolto l’apprezzamento dei risparmiatori, molte Pmi sono meno contente. Gran parte del risparmio confluito nei Pir è servito per acquistare strumenti finanziari nel mercato secondario e non in quello primario che porta risorse fresche alle imprese. Tuttavia, i malumori sono poco giustificati. Nel lungo periodo, la maggiore domanda di strumenti finanziari sul mercato secondario comporta una diminuzione dei costi di finanziamento per le imprese. Piuttosto, tocca alle Pmi dimostrare trasparenza gestionale e validità del modello e dell’idea imprenditoriale, in modo da convincere gli investitori.

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C’è davvero un effetto spread sui mutui?

  1. Gianni

    …un investimento che era piaciuto agli italiani, ma che li ha lasciati delusi. Almeno a me, che ne ho sottoscritto uno di un gestore importante e ho perso il 6% in un anno

    • Luigi

      Va bene Gianni, però bisogna che studi… il FTSE MIB ha perso il 10% dall’inizio del’anno, quindi ti è andata di lusso

  2. Henri Schmit

    Mi domando se è compatibile con la normativa UE la limitazione dell’investimento in titoli emessi da soggetti pubblici o privati residenti in Italia. E se lo fosse rifaccio la domanda per la normativa futura. Il governo ha capito la possibilità di questo tipo di strumento per favorire fiscalmente l’investimento privato in titoli di stato. In quel caso la distorsione della regole del mercato unico sarebbe ancora più evidente. Qual è la situazione negli altri paesi, diciamo in F e in D?

  3. Henri Schmit

    Ho controllato le condizioni dei PEA (plan d’èpargne en actions) che valgono – ovviamente – per azioni (francesi o) europee; se no la normativa fiscale violerebbe la normativa europea, che prevale. L’idea governativa di combattere l’aumento dello spread con un PIR-TS (in titoli di stato) è quindi l’ennesimo colpo di genio fondato sull’ignoranza.

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