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Tra i due soci litiganti, Tim sta male

Tim è oggi una società incapace di esprimere un management e una visione a lungo termine. Se è difficile comprendere le strategie dei due principali azionisti, Commissione europea e governo sembrano spingere per un maggior peso del settore pubblico.

Due visioni per due azionisti

Le vicende del maggiore operatore di telecomunicazioni italiano, Tim, si sono arricchite di nuovi capitoli rendendo sempre più difficile comprendere la – o le – direzioni verso cui l’azienda intende muoversi. Nell’ultimo consiglio di amministrazione si è preso atto che gli obiettivi indicati dal precedente amministratore delegato Amos Genish non verranno centrati, con un generale arretramento degli indici e dei dati su ricavi e volumi. Il nuovo ad Luigi Gubitosi, che dal suo arrivo ha visto il valore del titolo contrarsi ulteriormente, ha presentato un nuovo piano che sconta la revisione delle previsioni di crescita sul mercato italiano. Un mercato che sperava, con la fusione tra Wind e Tre, di superare l’esasperata concorrenza nei prezzi che aveva portato Tre a chiudere i bilanci sempre in rosso, e che invece, anche per le richieste della Commissione europea, ha registrato l’entrata di un operatore, Iliad, con strategie ancora più aggressive. Quello che sembra confermarsi, invece, è il dato di una società dove la governance è instabile e incapace di esprimere un management e una visione che sopravviva a prospettive di medio periodo.

Tim appare paralizzata dalla contrapposizione tra due gruppi di azionisti con visioni opposte, in grado di praticare un gioco di interdizione, ma non di definire un credibile piano di sviluppo e di attuarlo. Una partita tutta giocata a centrocampo, piena di falli tattici e inversioni di fronte, senza che la palla si avvicini mai all’area di una o dell’altra squadra. Dove le idee dei due allenatori appaiono estremamente difficili da comprendere. E dove il premio, per ora fermo sugli spalti in attesa di assegnazione, è il destino della rete fissa di telecomunicazione.

Da un lato, la compagine guidata dal fondo Elliott a cui partecipa anche Cassa depositi e prestiti è schierata decisamente per la cessione della rete, che in prospettiva potrebbe essere riunita a quella che sta costruendo Openfiber, creando un unico operatore di rete fissa. Elliott caldeggia questa soluzione, che dovrebbe coinvolgere anche la società Sparkle che gestisce le infrastrutture di comunicazione internazionale, sulla base di “benefici nascosti” valutati nell’ordine dei 7 miliardi di euro. Una cifra di difficile interpretazione se non si vogliono immaginare soluzioni che liberino la nuova società di rete dagli oneri pesanti del debito e del personale in eccesso che verrebbero lasciati in dote a Tim, trasformandola sostanzialmente in una bad company. Ma è arduo pensare che una operazione di questo genere si realizzi senza un supporto importante del governo, e che al contempo superi le scontate obiezioni che verrebbero dalla Commissione europea. Una cessione volontaria della rete, peraltro, costituirebbe una prima mondiale nel panorama delle telecomunicazioni.

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Sul fronte opposto, Vivendi si spinge fino a immaginare una società di rete interamente controllata da Tim e che operi in competizione con le altre infrastrutture di Openfiber, una separazione societaria, ma non proprietaria che mantiene in capo alla holding il controllo di un asset considerato strategico. Se questa opzione replica quanto si osserva nella gran parte dei paesi, quello che tuttavia rimane di difficile comprensione è l’obiettivo di medio periodo di Vivendi. La rapida crescita nell’azionariato di Tim e di Mediaset nel 2015-2016 da parte della società del finanziere bretone Vincent Bolloré è sempre risultata di difficile lettura laddove la normativa italiana proibisce a uno stesso azionista di assumere il controllo di un operatore di telecomunicazioni e dei media. Gli osservatori hanno sempre immaginato che Vivendi raccogliesse pacchetti azionari in entrambe le società per poi svelare, con una mossa a sorpresa, quale dei due tavoli fosse quello prescelto per le strategie di sviluppo. Ma per ora la situazione in Mediaset appare bloccata e quella in Tim vede Vivendi nell’angolo, con una perdita estremamente significativa nel valore del pacchetto azionario detenuto.

Gli obiettivi del governo e della Commissione europea

Se quindi gli obiettivi di medio periodo dei due contendenti non appaiono trasparenti e chiari, resta da capire quali siano le visioni che guidano le politiche pubbliche, che si intrecciano tra Roma e Bruxelles.
Per quanto riguarda la Commissione si ritrovano due obiettivi non necessariamente coerenti tra loro: da un lato, lo sviluppo ulteriore della concorrenza nei servizi, di cui la decisione in merito alla fusione tra Wind e Tre e il sostegno all’entrata sul mercato italiano di un operatore aggressivo come Iliad rappresenta il capitolo principale; e dall’altro un ambizioso sviluppo delle reti ultrabroadband in linea con gli obiettivi dell’Agenda digitale europea, che richiedono significativi investimenti. Come si possa finanziarli quando i ricavi dai servizi sono in contrazione rimane un punto non specificato.
Ma la soluzione di un ruolo maggiore del pubblico sembra essere l’unica opzione a portata di mano. Sul fronte interno, il governo Conte ha ereditato da quelli precedenti un piano di sviluppo coerente e imperniato sulla complementarietà tra investimenti privati nelle aree forti e di investimenti pubblici in quelle più arretrate, ma potenzialmente reso fragile dalla difficile compresenza di due operatori infrastrutturali, Tim e Openfiber.
La visione statalista che sembra ispirare l’attuale governo fa pensare a una società pubblica di rete unica come l’obiettivo ultimo.

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  1. Angelo

    La strategia del fondo Elliott è chiara : separare la rete dai servizi fonderla con Open Fiber e quindi beneficiare
    di tariffe determinate con il metodo R.A.B. che sono più generose rispetto a quelle determinate attualmente dall’AGCOM. Inoltre la vendita della quota maggioritaria della società della rete permetterebbe a Tim di diminuire
    il debito e incassare delle risorse da destinare in parte allo sviluppo del 5G. Invece sono apparentemente poco chiare le intenzioni di Vivendi che dopo aver liquidato con la cifra record di 25 milioni di Euro l’ex AD Cattaneo per soli 17 mesi di incarico senza specificarne bene i motivi, dopo aver spesato a carico del bilancio Tim 74 milioni
    per una multa delle autorità causata dai rappresentanti di Vivendi, dopo essere stata determinante per la mancata
    conversione delle azioni di risparmio che continua a costare a Tim 180 milioni l’anno in dividendi, dopo aver presentato un piano industriale con dei target che anche un bambino scimunito avrebbe capito che non erano raggiungibili continua ad asserire che Vivendi è un socio industriale di lungo termine e che fa l’interesse di tutti i soci. Mi chiedo se forse dietro questa strategia non ci sia la volontà di far entrare la Francia (Orange) nel settore delle telecomunicazioni dalla porta principale visto che l’avventura di ILIAD non si sa come andrà a finire.

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