Lavoce.info

Come evitare il contagio finanziario alle imprese

Di fronte alla crisi provocata dal coronavirus l’obiettivo fondamentale della politica economica è evitare i fallimenti delle imprese. Una simulazione sui bilanci 2018 ci dà un’idea di quando e dove intervenire e dell’ammontare di risorse necessarie.

Gli effetti del coronavirus

Una questione fondamentale per prevedere gli effetti economici del coronavirus è capire se lo shock sarà temporaneo, cioè se dopo il blocco l’economia tornerà al livello precedente, o se la caduta nel reddito non verrà riassorbita in tempi brevi. Ciò dipende da quante imprese italiane falliranno per crisi di liquidità dovuta al calo delle vendite. I fallimenti richiedono molto tempo per essere riassorbiti, prolungando gli effetti dello shock; i mancati pagamenti potrebbero amplificare il contagio finanziario ad altre imprese, con un effetto a catena sull’intera economia, coinvolgendo anche i pochi settori non colpiti da questa crisi. In poco tempo, riprenderebbero a crescere i crediti deteriorati e il contagio si estenderebbe anche al settore finanziario.

In questa fase, obiettivo fondamentale della politica economica è quindi quello di evitare i fallimenti. È un obiettivo condiviso e la risposta data dalle istituzioni è quella giusta: whatever it takes, fare tutto il necessario. Ma per funzionare ha bisogno di essere credibile, e quindi sarebbe utile avere un’idea di how much it takes, quanto è necessario. Una promessa di garantire qualunque cosa, dato anche il debito pubblico italiano, potrebbe risultare non credibile e quindi non essere efficace.

L’utilizzo dei big data e dei bilanci delle imprese può aiutare a canalizzare le risorse in modo chirurgico verso le società che ne hanno bisogno, massimizzando i benefici per il sistema produttivo e minimizzando gli effetti sulla finanza pubblica. Così come le persone sono colpite dal virus con diversa intensità e hanno capacità diverse di reagire, anche le imprese hanno diversi gradi di esposizione (calo delle vendite della produzione) e di difese immunitarie (riserve finanziarie): non tutte hanno bisogno della terapia intensiva.

La simulazione

Abbiamo analizzato i bilanci di 720 mila società di capitali italiane, che coprono circa il 55 per cento degli occupati dipendenti e che generano un valore aggiunto pari a un terzo del Pil italiano. Sono disponibili i bilanci del 2018, l’analisi quindi implicitamente assume che le imprese abbiano bilanci simili nel 2019. A questa base si applicano le previsioni di variazione dei ricavi che Cerved ha elaborato per oltre 200 settori economici sulla base di due scenari:

  • uno scenario cauto, secondo il quale l’emergenza sanitaria durerebbe fino a giugno, sarebbero necessari due mesi per tornare a una situazione di normalità e da settembre si tornerebbe ai livelli pre-Covid-19;
  • uno scenario pessimistico, secondo il quale l’emergenza durerebbe fino alla fine dell’anno, con un sostanziale isolamento delle economie.

Per determinare quali imprese vanno in crisi, allo stock di liquidità dichiarata nel bilancio si somma mese per mese il cash flow, definito come le vendite meno costi. L’andamento delle vendite mese per mese è stimato per 200 settori dal modello previsionale Cerved. Si assume che la spesa per intermedi vari del 50 per cento rispetto a quella delle vendite (cioè se le vendite calano del 20 per cento, la spesa per intermedi cala del 10 per cento), e quella per i salari del 15 per cento. Questo riduce l’impatto di un calo delle vendite sul cash flow, e quindi le esigenze di liquidità.

Un esempio può chiarire il meccanismo. Si consideri un hotel che deve chiudere, riducendo i ricavi per 100 euro. Allo stesso tempo, ridurrà le spese per servizi di pulizia per 50 euro. La caduta del cash flow per l’hotel è di 50 euro, mentre il resto si scarica sulla caduta di ricavi delle imprese di pulizia. Ma dato che le previsioni di crescita settoriale già tengono conto del calo per i settori fornitori, la somma della caduta complessiva delle vendite (100 euro per l’hotel e 50 per le imprese di pulizia) sovrastima il calo di risorse effettivo per le imprese. Per quel che riguarda il costo del lavoro, l’impresa può ridurre l’orario, utilizzare la cassa integrazione, o altro. Nel paragrafo finale spiego sulla base di quale evidenza ho scelto 50 e 15 per cento. Alla fine di questo capitoletto ripeto l’esercizio con dei valori diversi, per dare un’idea di come i risultati dipendano da questa scelta.

Per gli oneri finanziari consideriamo due scenari: uno in cui le imprese continuano a pagare gli interessi sui debiti e le rate dei mutui e uno in cui questi pagamenti vengono sospesi per una moratoria (come fatto dal decreto per le piccole imprese). Date queste ipotesi è possibile:

  • individuare puntualmente le imprese che entrano in crisi di liquidità, cioè che esauriscono la liquidità iniziale a causa di cash flow negativo
  • conteggiarle
  • conoscere il mese in cui si osserverebbero queste crisi.
Leggi anche:  Quando la legge diventa alchimia: la lista del Cda*

Nell’esercizio di base escludiamo quelle che avrebbero fatto registrare cash flow negativi anche senza l’emergenza sanitaria (186 mila società, pari al 20 per cento del campione, con circa due milioni di dipendenti). Alla fine della nota riportiamo i numeri nel caso si voglia includere anche queste imprese.

Figura 1

Secondo lo scenario cauto, potrebbero entrare in crisi di liquidità 124 mila imprese (il 17,2 per cento del campione), raggiungendo un picco a luglio. Successivamente, i casi di crisi causa Covid-19 si ridurrebbero velocemente. Secondo lo scenario estremo, il numero di imprese salirebbe a 176 mila (il 33 per cento) a fine anno. In entrambi i casi, il costo sociale dei fallimenti sarebbe importante: i lavoratori a rischio sarebbero 2,8 milioni nello scenario cauto e 3,8 milioni in quello estremo.

Questi numeri si basano sull’ipotesi che le imprese continuino a pagare interessi e rate di mutuo. Un pieno utilizzo della moratoria sui debiti consentirebbe di “salvare” circa 26 mila società nello scenario base (400 mila lavoratori) e circa 30 mila nello scenario pessimistico (600 mila lavoratori). È chiaro che è necessario intervenire con urgenza, perché un numero consistente di imprese uscirebbe dal mercato già dai primi mesi della crisi.

Grazie ai bilanci è anche possibile calcolare le iniezioni di liquidità minime necessarie per evitare le crisi, cioè la quantità di risorse necessarie a coprire l’accumulo di perdite una volta che l’impresa ha “bruciato” tutta la sua liquidità. Sotto l’ipotesi di moratoria sui debiti, nello scenario base sarebbero necessari circa 30 miliardi di euro tra marzo e agosto, con un supporto che toccherebbe un massimo di 8 miliardi in giugno. Nello scenario pessimistico le iniezioni per “salvare” tutte le imprese ammonterebbero a 80 miliardi: ai 30 spesi tra marzo e agosto secondo lo scenario base, se ne dovrebbero aggiungere altri 50 per far fronte al perdurare dell’emergenza.

Figura 2

Le iniezioni necessarie salirebbero rispettivamente a 42 e 107 miliardi senza moratoria sui debiti.

Nello scenario pessimistico, le imprese “salvate” brucerebbero 21 miliardi di liquidità, che potrebbe essere necessario ricostituire almeno in parte per permetterne l’operatività. L’ammontare complessivo dei debiti finanziari di queste imprese è di 136 miliardi, una cifra che andrebbe a pesare sui bilanci delle banche. A ciò si sommano 161 miliardi di debiti commerciali che, se non pagati, diffonderebbero la crisi anche alle imprese meno colpite direttamente.

Terminata la crisi, queste imprese avrebbero una struttura sostenibile o sarebbero schiacciate dall’indebitamento? Il leverage (rapporto fra debiti finanziari e mezzi propri) delle società “salvate” aumenterebbe dal 73 al 117 per cento. Anche se l’aumento è consistente, il forte processo di deleveraging delle imprese italiane dall’inizio della crisi finanziaria fa sì che il valore rimarrebbe comunque ampiamente sostenibile, tenendo anche conto dei bassi tassi di interesse sul debito. Inoltre, queste imprese hanno a bilancio ben 174 miliardi di crediti commerciali. Sarebbe sufficiente che il sistema finanziario ne scontasse poco più della metà per coprire i bisogni di liquidità delle imprese.

Le stime prodotte in questa nota dipendono da una serie di assunzioni, descritte in dettaglio nel paragrafo finale, e vanno quindi prese con prudenza. Facciamo due esempi per dare un’idea di come cambiano i numeri a seconda delle assunzioni:

  1. Se assumiamo che l’elasticità della spesa per intermedi sia 0,7 invece che 0,5 e che quella per salari sia 0,3 invece che 0,15 (ad esempio per il ricorso a cassa integrazione), le necessità finanziarie si dimezzerebbero: servirebbero 15 miliardi nello scenario base e 40 in quello pessimistico
  2. Se si finanziano anche le imprese con un cash flow negativo già nei bilanci 2018 (escluse nei calcoli illustrati sopra), servirebbero 57 miliardi nello scenario base e 138 in quello pessimistico.

Gli esempi chiariscono che i numeri che si ottengono dipendono in modo cruciale dalle assunzioni. Ci sono però una serie di lezioni che valgono in generale. La prima è che è fondamentale intervenire subito perché le imprese a rischio sono tante. La seconda è che le iniezioni di liquidità sono notevoli, ma non rendono insostenibile la struttura finanziaria delle imprese. La terza è che vale la pena investire risorse pubbliche per salvare le imprese. Si stima che le garanzie pubbliche abbiano una leva di 1 a 14, cioè ogni euro di soldi pubblici può garantire 14 euro di prestiti alle imprese. Per coprire gli 80 miliardi dello scenario pessimistico, quindi, servirebbero meno di 6 miliardi di euro. L’ultima è che l’utilizzo di strumenti analitici permette di canalizzare le risorse in modo chirurgico verso le imprese che più ne hanno bisogno.

La procedura per calcolare il bisogno di liquidità delle imprese

La logica generale è la seguente: dato lo stock iniziale di liquidità, si fanno alcune assunzioni sull’andamento delle vendite e dei costi. Ciò permette di calcolare il cash flow e quindi l’evoluzione della liquidità. Una impresa viene definita illiquida quando la liquidità diventa negativa.

Leggi anche:  Il derby d'Italia: risultati in campo e risultati di bilancio

L’equazione di base è la seguente:

cash flowit=venditeit-costiit =Delta liquiditàit-Delta Debitoit -Interessiit

dove i è l’impresa e t il mese, e delta indica la variazione fra t-1 e t. Fra i costi, vengono conteggiati quelli per beni intermedi, salari e oneri finanziari (si assume che la spesa per investimenti si azzeri). Per semplicità, illustriamo l’equazione sotto l’ipotesi di moratoria sui debiti e congelamento dei pagamenti sugli interessi, cioè con Delta Debito=Interessi=0.  Riarrangiando si ottiene:

liquiditàit= liquiditàit-1+ venditeit-costiit

Questa equazione permette di calcolare quando la liquidità diventa negativa, e per quale ammontare. Sommando tutte le liquidità negative si ottiene il bisogno di liquidità aggregato.

Poiché al momento sono disponibili i bilanci del 2018, assumiamo che il bilancio 2018 approssimi i valori di stock e flusso che si sarebbero verificati in assenza della crisi coronavirus. Assumiamo che la liquidita a fine febbraio è quella che l’impresa aveva al 31.12.2018. Per ogni mese a partire da marzo, il tasso di crescita delle vendite è calcolato da Cerved sulla base di un modello settoriale, sotto due ipotesi: a) che lo shutdown duri tre mesi e poi si torni gradualmente alle vendite di trend; b) che la caduta di marzo (che è il valore massimo) permanga per tutto il 2020. Definite dit la caduta percentuale di vendite, e Si le vendite nel 2018, le vendite mensili sono Sit=(1-dit)*S/12.

Assumiamo che le imprese abbiano esborsi solo per beni intermedi e salari. I due parametri necessari per calcolare l’evoluzione degli esborsi sono l’elasticità degli intermedi e del costo del lavoro alle vendite, cioè la variazione percentuale di ciascuno per data variazione percentuale delle vendite. Chiamate eM la prima elasticità e eW la seconda, dove M è spesa per intermedi e W il monte salari, l’equazione diventa:

liquiditàit= liquiditàit-1+(1-dit)*S/12-(1- eM*dit)*M/12-(1- eW*dit)*W/12

Una regressione della variazione percentuale della spesa per intermedi e delle ore lavorate sulla variazione percentuale del fatturato fornisce eM=0.9 e eW=0.27 rispettivamente. La regressione utilizza dati annuali e in periodi “normali”. Per tener conto della minor capacità di aggiustamento nel breve periodo e dell’eccezionalità della crisi, assumiamo valori più conservativi, cioè 0.5 per la spesa per intermedi e 0.15 per il costo del lavoro.

Con questa struttura si calcola l’evoluzione mensile della liquidità impresa per impresa. Quelle con liquidità negativa richiedono un’iniezione di fondi, pari a di quanto la liquidità diventa negativa. Il valore complessivo dei fondi necessarie è la somma dei fondi individuali.

La logica dell’approccio

È utile spiegare la logica sottostante l’esercizio. La caduta totale delle vendite non è un indicatore corretto della necessità di liquidità del sistema. Un calo di vendite di un’impresa viene in parte “scaricata” sui fornitori, riducendo l’impatto in termini di liquidità per l’impresa a valle. Un esempio può chiarire questo punto. Supponiamo che l’impresa 1 registri una caduta di vendite di 100 euro, a cui fa corrispondere una riduzione della domanda per intermedi all’impresa 2 di 50 euro. Nel complesso, il sistema registra una caduta compressiva delle vendite di 150 euro, ma l’effettiva riduzione è 100 euro, divisa fra le due imprese. Sommare quindi tutte le riduzioni di vendite sovrastima la caduta di fondi per il sistema nel suo complesso. Questo meccanismo è catturato nell’esercizio dal fatto che si assume un’elasticità dei beni intermedi alle vendite del 50 per cento e dal fatto che le stime settoriali sulla riduzione delle vendite utilizzate sono quelle complessive (cioè 150 nell’esempio sopra). Un’analisi più rigorosa richiede di mettere in relazione i cali settoriali con l’elasticità degli intermedi alle vendite attraverso la matrice input-output. Questo approccio richiede un supplemento di analisi più complesso. La metodologia utilizzata rappresenta una prima stima che non impone questa consistenza interna. I numeri vanno quindi presi con cautela. La metodologia illustra comunque l’utilità di valersi dei dati per formulare gli interventi a sostegno delle imprese.

Lo studio è stato realizzato in collaborazione con l’ufficio studi di Cerved.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L’indicazione geografica che piace al consigliere regionale

Precedente

Ospedali, dove e perché si è tagliato

Successivo

Lavori che possiamo continuare a svolgere

  1. L’articolo è molto interessante e bene sviluppato.
    Si concentra principalmente sul fabbisogno di liquidità, dopo la chiusura determinata dall’emergenza sanitaria.
    L’altro aspetto è meramente economico. Poniamo che il conto economico, in percentuale, di un’impresa (al dettaglio, così il problema della liquidità è più diretto) che abbia, fatto 100 di ricavi, 60 alle merci da rivendere, 15 al personale, 15 affitti e utenze, 5/10 ad altri costi, con un margine di un 10/15 (dati verosimili in Italia). Tre mesi di ferma comporterebbero il sostenimento di almeno metà del costo personale (ricorrendo alla CIG) e gli altri costi di gestione, quindi dai 90 ai 100, se non 120. Quante azienda saranno disposte a rifinanziarsi (anche a tassi modesti) per 120, (forse più perché le dilazioni di pagamento per merci sarebbero state già assorbiti dalla residua liquidità)? Se quei 120 comportassero un risultato negativo, da ricapitalizzare con mezzi propri (anche per non ricorrere a violazioni delle norme del codice) e non con nuova finanza, quanti sarebbero disposti a farlo?. Grazie. Forza e coraggio.

  2. Henri Schmit

    Giusto voler smussare l’inevitabile problema di liquidità ed evitare un numero sproporzionato di fallimenti. La crisi innescata dall’epidemia e dalle misure di contenimento è però anche, come TUTTE le crisi, un’opportunità di riforma e di innovazione. Questo potrebbe riguardare tanto le attività (digitalizzazione, intelligenza artificiale) che la fiscalità. Tutti i sussidi saranno largamente sprecati se dopo l’economia non è relativamente più competitiva. Intanto altri paesi si ammoderneranno in quest’occasione. Se l’Italia non fa arretrerà ulteriormente. È pronta per dare di più? Temo di no. Dopo anni di discussioni intorno ad una enigmatica e miracolosa flat tax, mancano i presupposti “ideologici” (concetti, scenari, consenso) per l’indispensabile rivoluzione.

  3. L’impostazione dell’analisi è corretta e sicuramente condivisa. Ricavi – Costi non ha nulla a che fare con la cassa. La situazione è straordinaria e quindi dovremo attenderci scenari mai visti prima. Va considerato però che nella storia nessun settore ha perso (nel complesso) più del 3, 4 o 5% al massimo in media (discorso diverso riguarda le singole imprese). Le simulazione viste fino ad ora ipotizzando perdite medie addirittura del 55%; se cos’ fosse difficilmente si potrebbe ipotizzare una ripresa. Complimenti per l’analisi. Cordialmente

  4. Aldo Mariconda

    Analisi raffinata e utile. Scendendo di livello, vi è un problema x il negozio. Se obbligato a chiedere ha per il fitto non pagato a marzo il 60% de detraz. Irpef; se è un tabaccaio che non chiude, nulla. Prevedo che molti saranno in difficoltà a pagare i canoni se la crisi continua. Se il proprietario rinunzia, rimane comunque obbligato all’IRPEF sui canoni non incassati!

  5. Articolo veritiero e che molto bene sa mettere in luce che “È chiaro che è necessario intervenire con urgenza, perché un numero consistente di imprese uscirebbe dal mercato già dai primi mesi della crisi”

  6. Giulio

    Scusi professore, a me non pare tanto una grande analisi. Magari sbaglio a capire io…
    Però secondo me (almeno nei cash flow che redigo settimanalmente io..) il vero problema è il debito commerciale pregresso (che lei non menziona mai, parlando solo di costi correnti) che scade a aprile/maggio/giugno; do per scontato che tutti facciano la moratoria mutui, do per scontato che si ricorra (almeno in parte) alla cassa integrazione, ma la verità è che se io non sono in grado di ripianificare le scadenze commerciali (cioè non ho una grande forza di contrattazione perchè magari il mio fornitore è strategico) spalmandole in un orizzonte temporale più lungo (4 mesi almeno?) e il mio delta fatturato è quello stimato da CERVED (a cui vanno aggiunti l’aumento di crediti insoluti ipotizzato.. questo si che sarebbe un dato interessante da elaborare!!) sarò di fatto insolvente già a ……breve…

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén