Nell’emergenza sanitaria anche il governo italiano ha ampliato i suoi poteri speciali per evitare acquisizioni predatorie di società considerate di rilevanza strategica per l’economia. È una mossa condivisibile, purché rimanga limitata e provvisoria.
L’intervento dello stato
Con un decreto legge di ampia portata e incerte ricadute, l’esecutivo ha recentemente rivisitato i poteri speciali di intervento in capo allo stato – meglio noti come golden power – finalizzati, innanzitutto, a evitare indebite intrusioni in certi settori strategici del tessuto economico nazionale da parte di operatori stranieri, ancor più probabili di fronte alla volatilità dei mercati collegata all’emergenza Covid-19 e alla conseguente vulnerabilità degli interessi del paese.
La disciplina, che non è esente da alcune criticità, risulta in linea con le più recenti evoluzioni della materia, sia in ambito nazionale, sia in ambito europeo e internazionale.
Già nel tardo 2019, infatti, è stata aggiornata la regolamentazione del golden power italiano. Simili misure “protezionistiche” sono state predisposte da altri paesi europei (si pensi solo, di recente, a Francia, Germania e Spagna) e non (ad esempio, Australia, Cina e Usa). In particolare, al di là delle soluzioni adottate dagli altri stati membri Ue – che, sebbene in diversa misura, dovrebbero pur sempre muoversi in un quadro tendenzialmente armonizzato – proprio le disposizioni australiane risultano particolarmente stringenti, richiedendo per tutta la durata della crisi pandemica, che gli investimenti esteri sottoposti al Foreign Acquisitions and Takeovers Act del 1975 ottengano l’approvazione “indipendentemente dal valore o dalla natura dell’investitore straniero”(“regardless of value or the nature of the foreign investor”). Risultato, questo, che, ferme restando alcune previsioni specifiche per le società quotate, viene raggiunto riducendo a zero le “soglie di screening monetario” (“monetary screening thresholds”) per gli investimenti in questione.
Il nuovo perimetro del golden power
Il nuovo golden power italiano è disciplinato dall’articolo 15 e dall’articolo 16 (e, indirettamente, dall’articolo 17, che prelude a una realizzazione della trasparenza sui mercati) del decreto legge n. 23 dell’8 aprile 2020.
In estrema sintesi, il quadro delineato dalle nuove previsioni è il seguente: in forza del richiamo diretto attuato ai settori già indicati dall’articolo 4, paragrafo 1, lettere a), b), c), d) ed e) – ivi inclusi, nel settore finanziario, quello creditizio e quello assicurativo – del regolamento (Ue) 2019/452, è soggetto a notifica l’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in società che detengono beni e rapporti nei settori (a) delle infrastrutture critiche fisiche o virtuali, (b) delle tecnologie critiche e prodotti a duplice uso (si pensi a robotica, cibersicurezza, tecnologie aerospaziali), (c) della sicurezza dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, (d) dell’accesso alle informazioni sensibili e (e) della libertà e pluralismo dei media.
Nondimeno, per contrastare l’emergenza epidemiologica e contenerne gli effetti negativi, fino al 31 dicembre 2020 sono soggetti all’obbligo di notifica anche le delibere, gli atti o le operazioni, adottati da un’impresa che detiene beni e rapporti nei settori indicati (ovvero individuati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri), che abbiano per effetto modifiche della titolarità, del controllo o della disponibilità di detti attivi o il cambiamento della loro destinazione.
Nello stesso periodo e nelle ipotesi determinate dalla norma, l’obbligo di notifica (e correlato intervento statale) è esteso, altresì, agli acquisti effettuati a qualsiasi titolo di partecipazioni da parte di soggetti esteri – anche appartenenti all’Unione europea – di rilevanza tale da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente straniero in forza dell’assunzione del controllo della società, la cui partecipazione è oggetto dell’acquisto.
Il “controllo” della società non è, tuttavia, l’unica condizione che comporta l’obbligo di notifica, posto che, con specifico riferimento ad attori non europei, andrà comunicato anche l’acquisto di partecipazioni che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale sociale almeno pari al 10 per cento, tenuto conto delle azioni o quote già direttamente o indirettamente possedute. Ai fini della disciplina, il valore complessivo dell’investimento deve essere pari o superiore a un milione di euro. Sono altresì oggetto di notifica le acquisizioni che determinano il superamento delle soglie del 15 per cento, 20 per cento, 25 per cento e 50 per cento.
Non è tutto oro quel che luccica
Le previsioni disegnano gli estremi di un’architettura intesa ad assicurare un deciso intervento pubblico su determinate operazioni di mercato, delineate sulla base di una delimitazione per settori e di una individuazione tipologica, con alcune distinzioni di regime calibrate sul criterio della provenienza – europea o meno – dello straniero “invasore”.
La disciplina così riformulata implica la necessità di affrontare, fin da subito, alcune questioni che – andando oltre ragionamenti dettati da comprensibili attuali preoccupazioni e dalla volontà politica di ricondurre sotto lo scudo dello stato anche altri settori economici sulla base della loro potenziale strategicità – sembrano capaci di minare le scelte appena adottate con il decreto legge 23 del 2020. In particolare, con riferimento alla corretta linea di confine tra pubblico e privato in un’economia di (supposto) libero mercato.
In altri termini, se da un lato è evidente che solo una decisa difesa pubblica può tutelare i settori “chiave” dell’economia italiana da scalate ostili (e in tal senso, i poteri di intervento in capo allo stato paiono essere lo strumento più adatto, ancor più per l’urgenza della problematica e per l’imminenza del pericolo), dall’altro lato sorge spontanea la preoccupazione circa l’incapacità delle misure di contenimento del golden power di circoscrivere, nel concreto, le conseguenze potenzialmente negative dell’intromissione pubblica nei settori indicati dalla norma. Se portata agli estremi (o già solo non debitamente circostanziata), l’intromissione non potrebbe che costituire, nel medio e lungo termine, un chiaro indice disincentivante per gli investimenti stranieri, con correlata perdita di competitività del sistema produttivo italiano. In tal modo, la cura si mostrerebbe ancora più letale del male da sconfiggere.
A una prima e sommaria analisi, sia il termine del 31 dicembre 2020, sia l’esercizio dei poteri di intervento solo qualora e nella misura in cui “la tutela degli interessi essenziali dello stato, ovvero la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, (…) non sia adeguatamente garantita dalla sussistenza di una specifica regolamentazione di settore” risultano infatti essere linee difensive forse eccessivamente deboli innanzi al rischio prospettato.
Ciò poiché, per quanto riguarda il profilo temporale, non è da escludere che la scadenza venga prorogata a causa del perdurare della crisi o anche solo per confermare la forza dei poteri di intervento in capo allo stato, la cui portata verrebbe altrimenti depotenziata già a fine anno (come se, dal gennaio 2021, il pericolo di “attacchi” ai settori strategici italiani venisse meno), con conseguente sostanziale inutilità delle misure ora in essere (che sono appunto provvisorie). D’altra parte, come diceva Giuseppe Prezzolini, “in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo”).
Per quanto riguarda invece il limite all’intervento statale posto dall’adeguata garanzia fornita dalla sussistenza di una specifica regolamentazione di settore, indirizzata alla tutela degli interessi essenziali dello stato ovvero della sicurezza e dell’ordine pubblico, vi è da temere che, a fronte di finalità così “sensibili”, l’argine sia più formale che di sostanza, con correlato diffuso obbligo di notifica nei casi indicati (oltreché in quelli di incerta applicazione della norma) e relativo aggravio di costi per gli operatori.
Infine – ma questa è un’osservazione legata non già in particolare al decreto legge in esame, bensì più in generale al nuovo “mercato del controllo” e degli investimenti su scala globale – va rimarcato il rischio che le misure adottate da diversi ordinamenti nazionali, in ordine sparso e con distinte gradazioni di intensità, in tema di golden power e simili previsioni protezionistiche non possano che delineare un quadro di riferimento disordinato e, per certi aspetti, instabile. Tale criticità è visibile anche all’interno dei confini dell’Unione europea, i cui stati membri, più che proteggersi l’uno dall’altro, farebbero bene a erigere un fronte comune verso minacce più serie, provenienti tanto da occidente, quanto dall’estremo oriente. In sintesi: meglio uno scudo unico e condiviso che tante piccole trincee, dal carattere pure un po’ démodé.
Considerazioni di sistema a parte, che lo stato decida di alzare il livello di protezione pare dunque essere condivisibile. Il giudizio, però, non potrà che cambiare qualora l’intervento in tema di golden power si riveli essere, nel tempo, non solo una misura provvisoria e indirizzata alla difesa contro acquisizioni predatorie, bensì un più ampio e indeterminato “colpo di coda” del pubblico nei confronti di un privato in taluni settori frutto di un’opera privatizzatrice portata faticosamente a termine (e sempre che sia stata raggiunta).
In conclusione, è buona cosa che lo stato, entro certi limiti, difenda le imprese strategiche. A patto, tuttavia, di difenderle anche e soprattutto da sé medesimo, ancor più una volta passato l’attuale momento di emergenza.
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franco
Perchè solo da scalate ostili?
In realtà, se non ho Cairo male, il golden power vuole anche impedire offerte accettate.
Grazie
Ermanno Bianchera
Al di là dei tecnicismi, la discussione sul cd. golden power meriterebbe una più corposa trattazione sulla sua legittimità giuridica e i suoi confini. Proteggere infatti una impresa considerata strategica impone una duplice questione? Primo: quali settori devono essere considerati strategici? Solo l’energia, le telecomunicazioni, le banche o le assicurazioni? E perchè non l’auto, la chimica o l’eletronica o altro ancora?? Secondo: in che misura debba essere attuata tale protezione? Impedendo l’acquisizione da parte di un concorrente ostile oppure da parte di un raider finanziario o piuttosto da parte di una società insediata in un paese straniero? La quotazione in borsa così come, più in generale, la liberta di circolazione dei capitali potrà sempre esporre ogni impresa, al di là di ogni contingenza straordinaria, al rischio di qualsivoglia acquisizione. Chi potrà stabilire allora quale compratore debba essere autorizzato e quale no e in base a quali criteri? Di bandiera, di colore politico o piuttosto di razza o di religione? In sostanza, se una cosa è privata, è ammissibile in linea di principio che lo Stato possa impedire al suo proprietario di farne quello che vuole? Qui si pone la questione fondamentale del confine tra sfera pubblica e sfera privata. Se qualcosa è considerato “bene pubblico” ha senso allora che stia sul mercato? A nessuno, infatti, credo verrebbe in mente di quotare le dolomiti o di mettere in vendita le spiagge. D’altra parte, se il mercato è aperto, è giusto allora porre limitazioni e barriere all’ingresso?? Se sì, allora queste andrebbero stabilite e dichiarate a priori, prima della quotazione. Infatti, se io dovessi decidere di investire in qualcosa che, in qualsiasi momento, potrebbe essere sottratto – in tutto o in parte – alla mia libera disponibilità, ci penserei forse anche dieci volte. Per questo, certe regole, dovrebbero essere stabilite in tempi non sospetti, in modo che ognuno possa avere la possibilità di fare le proprie opportune valutazioni in modo consapevole. In definitiva: patti chiari, amicizia lunga.