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Se anche i dividendi vanno in quarantena

La Bce ha “raccomandato” alle banche europee di congelare i dividendi fino a ottobre 2020. Un’iniziativa motivata più da ragioni di politica industriale che di vigilanza, oltre che problematica nell’applicazione. Con possibili conseguenze indesiderate.

I dubbi di principio

La Banca centrale europea ha indirizzato a tutte le banche “significative” dell’Eurozona (tra cui 12 gruppi italiani) la raccomandazione di non distribuire dividendi per gli esercizi 2019 e 2020, astenendosi inoltre dall’effettuare riacquisti di azioni mirati a remunerare gli azionisti; ciò fino al 1° ottobre 2020, quando – si presume – il contesto emergenziale si sarà attenuato. La Banca d’Italia ha poi esteso la raccomandazione a tutte le altre banche italiane sottoposte alla sua vigilanza diretta.
“Alte” le ragioni del provvedimento: il fieno deve restare in cascina perché le banche possano “assolvere al loro ruolo” di sostegno al finanziamento di famiglie e imprese, oltre che per assorbire le perdite. Inutile precisare che la raccomandazione è poco meno di un ordine: le banche che non ritenessero di conformarvisi “sono tenute a contattare immediatamente” l’autorità di vigilanza “per spiegare le loro motivazioni”. Insomma, gli azionisti resteranno a bocca asciutta nei prossimi mesi e forse per altri ancora: non già perché questo o quell’istituto in cui hanno investito non siano sufficientemente solidi ma a seguito di decisioni dell’autorità rivolte all’intero settore.

Nella situazione che viviamo può apparire bizzarro preoccuparsi di chi ha investito denari in azioni di banca. A ben vedere, però, la raccomandazione Bce proietta segnali di portata più ampia. Tralasciamo il tempismo dell’intervento, che piomba a stagione assembleare iniziata, quando molte banche hanno già reso note al mercato le proprie proposte di distribuzione degli utili. Il dietrofront comporta non poche complessità informative e organizzative, a carico tanto degli istituti quanto dei loro azionisti.
Il punto è un altro. Discostandosi dalle consuete indicazioni in tema di dividend policy, Francoforte sembra abbandonare – anche se non dichiaratamente – il campo suo proprio della vigilanza prudenziale (cioè il controllo mirato all’adeguatezza del capitale delle banche) per avventurarsi sul terreno dell’indirizzo dell’attività di impresa dei propri vigilati, in un’ottica di marcata “funzionalizzazione” del credito al servizio di interessi generali. Che un’autorità intervenga sull’allocazione del capitale (privato) di rischio, vincolandolo al sostegno della cosiddetta “economia reale”, pare un passaggio di principio non da poco, per di più sancito da un provvedimento che neppure ha rango di legge.

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Gli ostacoli pratici

Passando all’applicazione concreta, la direttiva produce conseguenze che destano dubbi sul raggiungimento dei suoi scopi. Anzitutto, nella realtà italiana storicamente caratterizzata da una forte presenza delle fondazioni bancarie nell’azionariato di molti istituti di credito, la stretta sui dividendi si riflette in un minore afflusso di fondi nelle casse delle fondazioni, con il rischio di una riduzione delle erogazioni di queste ultime nei territori di riferimento: una sorta di boomerang, quindi, per l’economia reale.
Per gli investitori istituzionali, poi, il pagamento del dividendo rappresenta ormai un sine qua non dell’investimento in una banca, dati i ristretti margini di crescita del settore in questa fase storica. Se gli investitori che detengono nel complesso la maggioranza delle azioni degli istituti quotati dovessero fare un passo indietro, dirottandosi su investimenti più remunerativi (per capitale o dividendo), il maggior costo della raccolta di capitale per le banche finirebbe per ipotecare il raggiungimento degli obiettivi di sostegno a famiglie e imprese. E in questo senso i primi segnali provenienti dai mercati sono tutt’altro che incoraggianti.

Senonché, con una comunicazione interpretativa della sua stessa raccomandazione, la Bce pare mettersi in parziale retromarcia lasciando le banche libere, se lo vogliono, di deliberare una distribuzione di dividendi purché la eseguano dopo il 1° ottobre e a condizione “che si siano dissipate le incertezze causate dal Covid-19”. Nel frattempo, gli utili da distribuire non potranno essere computati nel capitale di vigilanza, evidentemente perché già considerati un debito da pagare agli azionisti.
Per la gioia degli avvocati, l’indicazione della Bce assume i contorni di un rebus. Si rimette al consiglio di amministrazione la responsabilità di decidere quando distribuire il dividendo deliberato, ma il parametro decisionale (il sussistere o meno delle incertezze dell’epidemia) è talmente vago da trasformarsi nei fatti in una nuova decisione degli amministratori se distribuire o meno l’utile: competenza, questa, che negli ordinamenti dell’Europa continentale è saldamente nelle mani degli azionisti e non può essere delegata al consiglio, pena l’invalidità della delibera. Senza contare che, ove il pagamento dovesse essere rinviato nel tempo, gli azionisti potrebbero avanzare pretese su somme di cui si ritengono già creditori. Viene da chiedersi quale banca quotata si assumerebbe un rischio simile nel contesto attuale.
Un rattoppo, insomma, che rischia di complicare l’attuazione di un provvedimento dai presupposti concettuali già poco convincenti.

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  1. Gustavo De Pas

    Stando al contenuto dell’articolo, che mi sento di condividere, e alla recente gigantesca “gaffe” della presidente BCE, mi pare che l’era Lagarde non si stia avviando sotto i migliori auspici.

  2. Salvatore

    Una importante omissione dell’articolo è la condizionalità dell’intervento dovuta agli eventi straordinari dell’ultimo periodo. Certamente, l’autore non ignora che, ad esempio, ricevere liquidità a tassi agevolati dalla BCE per poi pagare i dividendi o ricomprare azioni bancarie non è certo cosa auspicabile. Dunque, la misura è giustamente pensata che con soldi e aiuti pubblici si paghino azionisti e management delle suddette istituzioni.

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