Le difficoltà sulla vicenda della revoca della concessione ad Aspi affondano le radici nel complicato rapporto tra diritto privato e diritto pubblico nei contratti pubblici. Forse è il caso di dare più fiducia agli strumenti di tutela privatistici.
Procedura e condizioni della revoca dimenticate
La vicenda della “revoca sì-revoca no” della concessione di Anas ad Aspi per la gestione della rete autostradale italiana è stata dominata dalla grave apprensione per le conseguenze abnormi e disastrose che una soluzione caducatoria (nelle varie modalità prospettate dal governo) avrebbe avuto sull’economia pubblica del paese, con ripercussioni a pioggia sulle migliaia di dipendenti della società, sulle banche, sulle aziende a loro volta concessionarie di Aspi o con gare in atto, sulla platea di piccoli risparmiatori, sulle casse erariali e, quindi, sui cittadini.
Se, però, lo spauracchio della revoca ha assunto la parte di attore protagonista nella contesa stato-Aspi (o, forse, si dovrebbe dire stato-Benetton), la revoca in sé, nei suoi contorni strettamente giuridici, è stata relegata al ruolo di una mera e accidentale “comparsa” in tutta la recita in atto: svuotata della sua identità di strumento a tutela dell’interesse pubblico nelle mani del concedente, si carica di un significato tutto politico, volendo essere al contempo simulacro di potere, da un lato, e cura contro il rancore popolare, dall’altro.
Così colma di simboli altri, la revoca finisce per perdere le proprie coordinate di riferimento: dietro le quinte finiscono tanto la procedura che alla revoca conduce, definita dall’articolo 176, commi 4°-6° del Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 50/2016) e, più in dettaglio, dall’articolo 9 della Convenzione unica Anas-Aspi (che, in realtà, volendo imprimere una sfumatura sanzionatoria allo strumento autoritativo della revoca per motivi di pubblico interesse, fa riferimento all’istituto della “decadenza”, che nel linguaggio amministrativo è intesa nel significato, appunto, di “fenomeno estintivo sanzionatorio”); quanto le condizioni cui la revoca soggiace (anch’esse contenute nelle norme indicate).
Né l’una né le altre, tuttavia, possono essere dimenticate in un’analisi “tecnica” delle conseguenze dei gravi inadempimenti di Aspi nella gestione del proprio tratto di rete autostradale.
La procedura prevede, in sequenza, (i) una grave e perdurante inadempienza da parte del concessionario, (ii) la diffida ad adempiere entro un congruo termine non inferiore a 90 giorni, (iii) la possibilità per il concessionario di presentare memorie scritte e documenti a sua difesa, (iv) un ulteriore termine non inferiore a 60 giorni e, al trascorrere inutilmente di quest’ultimo, (v) il provvedimento di “decadenza della [rectius, dalla] concessione”, assunto con decreto dal ministero delle Infrastrutture di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze (art. 9 Convenzione unica Anas-Aspi); e che contempla la prosecuzione degli obblighi di gestione del concessionario “uscente” fino al passaggio delle consegne al nuovo (art. 176, comma 5-bis, cod. contr. pubbl.).
Né, allo stesso modo, possono essere ignorate le condizioni cui la revoca è sottoposta, ovverosia che (ex art. 9 Convenzione unica e in linea con le previsioni dell’art. 176, comma 4°, Dlgs 50/2016) il concessionario riceva dal concedente un indennizzo pari a “un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione prevedibile dalla data della decadenza sino alla scadenza della concessione al netto dei relativi costi (…) prevedibili nello stesso periodo (…) decurtato (…) dell’indebitamento finanziario netto assunto dal concedente alla data di trasferimento dello stesso (…)”, il tutto ancora “(…) decurtato, a titolo di penale, di una somma pari al 10 per cento dello stesso, salvo il maggior danno subito dal concedente per la parte eventualmente eccedente la predetta penale forfetaria” (da cui la contesa tra stato e Aspi sull’importo indennitario per la fine del contratto).
Un processo lungo
Sicché, da un lato, la cessazione dei rapporti con il concessionario non è pensata per essere repentina, ma, al contrario, per dilatarsi nel tempo in modo da ristabilire gli equilibri “rotti” dal provvedimento caducatorio, che, in assenza di una gestione accorta nel passaggio di consegne, travolgerebbe inesorabilmente troppi rapporti che alla concessione sono a doppio filo legati. E, d’altro lato, l’indennizzo è rappresentativo del valore di mercato delle strutture esistenti (e tributarie dell’opera del concessionario revocato), senza il quale – una volta tolto l’importo dovuto a ristoro del danno cagionato – si realizzerebbe un ingiustificato arricchimento a favore del nuovo concessionario e a detrimento del precedente.
Per questa ragione, sotto un primo profilo, la prospettiva di un decreto di revoca urgente, e con efficacia immediata, del presidente del Consiglio dei ministri, pur prospettata tra le alternative prese in considerazione dal governo, stride con la ratio stessa della natura (e della complessità) dei rapporti nascenti da contratti di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture tra la pubblica amministrazione e i privati. E, sotto un secondo profilo, altrettanto discutibile potrebbe apparire, in quest’ottica di ri-equilibrio tra le posizioni in contesa, la decisione di ridurre “con un colpo di spugna” l’indennizzo da parte del concedente, sì da tenere conto dei “soli costi di progettazione e [dei] diritti sulle opere dell’ingegno”, oltre al valore delle opere realizzate più gli oneri accessori e i costi effettivamente sostenuti (disposizione contenuta nell’art. 35 del decreto cosiddetto Milleproroghe, Dl 162/2019, che rinvia all’art. 176, comma 4°, alla sola lett. a del Codice contratti pubblici, che porterebbe l’esposizione dello stato a soli 7 miliardi di euro, dai 23 miliardi pretesi da Aspi per la caducazione del rapporto,).
Il disordine normativo
Facendo un passo indietro, un tale disordine nella fase rimediale affonda le sue radici nel disordine normativo, frutto del complicato rapporto tra il diritto privato e il diritto pubblico che si coglie in quelle materie, come appunto i contratti pubblici, in cui l’attività della pubblica amministrazione si svolge sul crinale tra i due ambiti di disciplina.
E certamente difficile sarà sciogliere il nodo gordiano fino a quando, pur nella fase negoziale propria dell’esecuzione di quei contratti, al contraente pubblico (concedente) sia dato rispondere all’inadempimento della controparte privata (concessionario) con un provvedimento autoritativo di revoca ancorato genericamente “a motivi di pubblico interesse” (art. 176, 4° comma, cod. contr. pubbl.) – in cui far rientrare in modo quasi “speciale” l’inadempimento del concessionario (vedi art. 9 Convenzione unica) – svicolando così dalle procedure privatistiche della risoluzione di cui all’art. 1453 codice civile (cui pure il Codice dei contratti pubblici rinvia), che invece terrebbero conto tanto delle tempistiche necessarie alla caducazione dei rapporti, quanto delle conseguenze, sia restitutorie a favore del concessionario, sia di quelle risarcitorie a carico del concessionario per i danni che il suo inadempimento abbia procurato al concedente e a terzi, sottraendo così terreno al mercanteggiamento dare-avere tra le parti in contesa.
Occorrerebbe forse, allora, dare più fiducia agli strumenti di tutela privatistici, se si vuole contenere – e regolare – l’influenza che i contratti di diritto pubblico (e la loro fine) hanno sull’assetto competitivo del mercato, in prima istanza, e sulla salute dell’economia pubblica, in seconda. E non v’è da stupirsi che al nodo dei rapporti tra diritto pubblico e privato si giunga, tanto velocemente, dalla prospettiva dei rimedi contro l’inadempimento di contratti di diritto pubblico: l’attenzione al momento esecutivo del contratto, e al permanere dei suoi equilibri nel tempo, è un angolo visuale privilegiato nello studio del ruolo della autonomia negoziale, e ciò particolarmente in un contesto in cui verrebbe più naturale pensare, invece, al peso dello stato sulla autonomia negoziale, come i fatti di questi giorni dimostrano.
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Savino
Giova ai veri responsabili del ponte Morandi e di altri crolli che si trovano al MIT, nei provveditorati alle opere pubbliche e nelle varie sedi del vecchio genio civile. Solo Toninelli e Di Maio non se ne sono accorti
bob
“Forse è il caso di dare più fiducia agli strumenti di tutela privatistici.” Gli strumenti privatistici prevedono in pieno l’assunzione di responsabilità. Chi è il responsabile del crollo del ponte?