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Lavoratori emigrati all’estero: le conseguenze sulle imprese*

La liberalizzazione della circolazione delle persone tra Svizzera e Unione europea ha aumentato il numero dei transfrontalieri. Con quali effetti sulle imprese italiane? Si perdono aziende e capitale umano. Con il rischio che si crei un circolo vizioso.

Gli italiani che lavorano in Svizzera

Il fenomeno degli italiani emigrati all’estero ha raggiunto dimensioni difficili da trascurare. Secondo le stime Istat, negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso circa 500 mila residenti (la metà ha meno di 35 anni), che si sono trasferiti all’estero principalmente per motivi di lavoro. Una fuga di lavoratori che rappresenta una perdita di competenze e di capitale umano per il nostro paese.

Un aspetto finora poco dibattuto e studiato riguarda come le emigrazioni si ripercuotono sulle imprese italiane, coinvolte per almeno due motivi: non solo perdono i lavoratori che si traferiscono all’estero, ma si ritrovano anche con un bacino di persone più esiguo da cui attingere nuove competenze.

Vi è una dimensione specifica dell’emigrazione che può aiutare a quantificare le ripercussioni a livello di impresa: il lavoro transfrontaliero.

I transfrontalieri prestano lavoro in una nazione diversa da quella di residenza dove rientrano quotidianamente (o settimanalmente). In Italia questo tipo di lavoro si concentra principalmente nelle regioni del Nord che confinano con la Confederazione elvetica, la cui ricca economia attira da più di cinquant’anni i lavoratori italiani. La concentrazione dei frontalieri nei territori di confine con la Svizzera, insieme alla liberalizzazione del mercato del lavoro tra Berna e l’Unione europea negli anni Duemila, permette di far luce su quali possano essere le conseguenze dell’emigrazione per le imprese che perdono questi lavoratori.

L’adesione della Svizzera alla libera circolazione delle persone ha prodotto un incremento senza precedenti nel numero di lavoratori frontalieri. Confrontando le aziende italiane collocate in comuni più vicini al confine con quelle più lontane, prima e dopo la liberalizzazione del mercato del lavoro, è possibile studiare l’effetto sulle imprese della perdita di personale e della riduzione dell’offerta di lavoro nelle aree in cui queste imprese operano.

Il contesto italo-svizzero tra il 1994 e il 2015

Oggi lavorano in Svizzera circa 300 mila italiani. Tra il 1994 e il 2015, i lavoratori frontalieri sono passati da poco più di 20 mila a quasi 80 mila unità.

La graduale eliminazione delle barriere legali ha permesso a un maggiore numero di lavoratori italiani di accedere ai salari più elevati pagati in Svizzera. Nel periodo 1994-2015, infatti, il salario medio è stato di 1.800 euro nelle aree di confine italiane, mentre nei cantoni svizzeri, a pochi chilometri di distanza, era di circa 4.200 euro. L’incremento nel numero di frontalieri è stato particolarmente marcato per i lavoratori più qualificati e con istruzione terziaria: per questi il gap salariale è ancora più forte, 2.200 contro 6.000 euro. I transfrontalieri risiedono in gran parte in comuni dai quali è possibile raggiungere in auto il confine entro trenta minuti. Nei comuni che distano più di 30 minuti dalla frontiera, invece, la percentuale di lavoratori frontalieri è prossima allo zero.

La distribuzione nelle aree di confine permette di stimare il deflusso di lavoratori dalle aziende italiane prossime al confine e la performance economica di queste ultime, confrontandola nel tempo con quella di aziende collocate in comuni limitrofi più distanti dalla frontiera (cioè a oltre 30 minuti).

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La perdita di produttività delle aziende italiane

Analizzando i dati Inps sulla totalità delle aziende e dei lavoratori nelle aree di confine, emerge come, a seguito delle liberalizzazioni, le aziende italiane delle aree di confine abbiano subito un deflusso di forza lavoro. Le imprese a meno di 15 minuti dal confine hanno perso ogni anno circa mezzo punto percentuale in più della loro forza lavoro originaria rispetto a quelle oltre 30 minuti.

In circa 15 anni le imprese più vicine al confine hanno perso almeno 12 punti percentuali in più della loro forza lavoro – 4 punti percentuali per le imprese tra 15 e 30 minuti – e subito un turnover quasi doppio rispetto alle imprese oltre 30 minuti.

Figura 4 – Uscita dei lavoratori dalle imprese italiane

Fonte: Elaborazione su dati Istat.

Per quanto riguarda la natalità e la mortalità delle imprese, l’entrata netta delle aziende nelle aree entro 30 minuti è stata inferiore di 2 punti percentuali rispetto alle aree oltre 30 minuti, con una perdita di circa un centinaio di aziende.

Le imprese rimaste sul mercato hanno cercato di mantenere costante il numero di occupati reclutando nuovi lavoratori a stipendi mediamente più bassi (meno 1,4 per cento) e aumentando gli investimenti in capitale fisso (più 4 per cento). Ne è comunque risultato un calo nella produttività (valore aggiunto per addetto e produttività totale dei fattori) dell’8 per cento, rispetto al gruppo di imprese più distanti.

I settori più colpiti

Analizzando i risultati per diversi settori di attività economica, si scopre che la perdita di produttività si concentra nel manifatturiero e soprattutto nelle industrie ad alto contenuto tecnologico (per esempio, farmaceutiche e chimiche). Queste ultime mostrano una riduzione del salario medio tramite una crescita salariale inferiore per i neoassunti, che però non risultano meno qualificati per sé. Di conseguenza, la perdita di produttività è verosimilmente attribuibile a una carenza di personale con capitale umano specifico per l’azienda. In altri termini, vi è una carenza di lavoratori con competenze acquisite sul campo, che richiedono tempo per essere assimilate e che risulta difficile formare e trattenere in un contesto di elevato turnover. Gli effetti appaiono più mitigati per le imprese del manifatturiero tradizionale (per esempio, tessile e legno), dove le perdite in produttività non si ripercuotono sui salari, ma solo in termini di valore aggiunto.

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Non si riscontrano effetti negativi, invece, nel settore dei servizi tradizionali (alberghiero, commercio, ristorazione, servizi della persona). Le imprese hanno anzi una probabilità più alta di entrare in questi settori a più basso valore aggiunto a seguito della liberalizzazione del mercato del lavoro.

Gli effetti negativi dell’emigrazione dei lavoratori sembrano quindi agire principalmente attraverso due canali: una diminuzione del numero di imprese che operano sul mercato e una perdita di produttività, che si traduce anche in minori salari. L’evidenza empirica suggerisce che l’apertura del mercato svizzero ha comportato una perdita di capitale umano specifico all’impresa, scarsamente reperibile sul mercato del lavoro, generando perdite in termini di produttività e salari, solo in parte compensate dai maggiori investimenti in capitale fisico.

Il rischio è di instaurare un circolo vizioso, dove la perdita di lavoratori con elevate competenze conduce a un ulteriore deterioramento del sistema produttivo, sempre meno in grado di attrarre lavoratori qualificati per i quali diventerà più probabile il trasferimento all’estero.

Le prospettive

L’emigrazione può avere effetti molto positivi se temporanea e finalizzata ad accumulare nuove competenze all’estero. La letteratura mostra come gli incentivi al rientro sono più forti, specialmente per i professionisti più qualificati, quando la nazione di origine ha ampie prospettive di crescita.

Al fine di mitigare le conseguenze negative dell’emigrazione sulle imprese è essenziale ridurre il gap salariale (con altre nazioni) dei lavoratori, specie quelli più qualificati, e incentivarne il rientro e l’assunzione da parte delle imprese.

In questo senso, due vie sono percorribili in parallelo. Da un lato, può essere efficace potenziare e spronare le aziende a sfruttare le recenti misure di incentivo all’innovazione per favorire aumenti di produttività attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, nella digitalizzazione e nell’efficientamento dei processi, permettendo alle aziende di pagare salari più elevati. Dall’altro lato, può essere efficace potenziare gli incentivi per i lavoratori che rientrano in Italia o più in generale per aumentare il flusso di lavoratori ad alta qualifica dall’estero, e allo stesso tempo, pur preservando i saldi di finanza pubblica, offrire sostegno alle imprese che li assumono.

* Le opinioni espresse sono quelle dell’autore e non impegnano l’istituzione di appartenenza.
L’articolo è apparso contemporaneamente anche sul Menabò di EticaEconomia.

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  1. giorgio sacerdoti

    interessante. Avrei pensato che le aziende italiane vicine al confine svizzero dovessero aumentare ( e non diminuire) i salari pagati per trattenere i lavoratori e resistere all’attrazione del vicino mercato elvetico.

    • Emanuele

      Impossibile, è evidentemente ideologicamente impossibile per le aziende italiane pagare meglio, anche a fronte dell’evidenza e della necessità più smaccate.
      Molto meglio piagnucolare con lo stato e continuare a lamentarsi della mancanza di personale.
      Sarò semplicistico, ma se un’impresa svizzera può pagare un ingegnere 5000€ al mese, potrebbe farlo anche una lombarda: invece stipendi inchiodati ben sotto i 2000€ anche a fronte di ricavi stratosferici.
      E via con le scuse riguardo le tasse, le condizioni, i sindacati… come se tutte queste cose non esistessero negli altri paesi.

  2. Jeriko

    Sono un expat, non in svizzera ma piu a nord (di poco). Vi assicuro che il divario salariale e di opportunita e´ abissale. Roba che si colma in 50 anni (per usare un eufemismo).
    Per rendere l´idea e riferendomi a grandi aziende (tra l´altro quella italiana precedente era famosa per pagare bene), si ha un 40% in piu netto per un lavoro di minore responsabilita.
    In un commento precedente sono citati 5K€ per un ingegnere….e´ la norma.

    L´Italia e´in declino da 20 anni, ed il mondo sta accelerando

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