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Ma il Pil è un alleato del buon clima

Secondo Giorgio Parisi, il Pil non è una buona misura dell’economia e la sua crescita è in contrasto con la lotta al cambiamento climatico. Però sviluppo e riduzione della vulnerabilità agli eventi meteorologici estremi dipendono dal reddito dei paesi.

Un problema del breve periodo

Pochi giorni dopo essere stato insignito del premio Nobel per la fisica, Giorgio Parisi è intervenuto alla riunione parlamentare pre-Cop26 esprimendo anche una considerazione di natura economica: “il prodotto interno lordo dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentare il Pil il più possibile, obbiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico”. È così. O per meglio dire, è così nel breve periodo, considerando invariati tutti gli altri fattori che influiscono sul livello di emissioni di gas serra. A parità di energia utilizzata e a parità di “intensità carbonica” ossia di quanta CO2 si produce per unità di energia consumata, quanto più cresce la produzione tanto più aumentano le emissioni e, quindi, tanto più si altera il sistema climatico. Vale anche l’opposto: se il Pil si riduce, calano le emissioni e il clima ne beneficia. Ne abbiamo avuta una chiara conferma nel corso del 2020: la forte limitazione delle attività economiche e della mobilità con le misure predisposte per limitare la diffusione del Covid-19 hanno determinato una riduzione del Pil mondiale di oltre il 3 per cento; nello stesso anno le emissioni di CO2 in atmosfera sono calate, come mai era prima successo, del 6,7 per cento.

Le conseguenze umane, oltre a quelle dirette della pandemia, sono state drammatiche: per la prima volta negli ultimi decenni è aumentato (di 120 milioni) il numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta.

Pil e sviluppo umano

Parisi ha altresì sostenuto che “il Pil non è una buona misura dell’economia. Cattura la quantità ma non la qualità della crescita. Sono stati proposti molti indici diversi, tra cui l’indice di sviluppo umano”. Tuttavia, i due indicatori, se non proprio gemelli, sono parenti molto stretti: la correlazione tra di essi è molto forte.

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Figura 1 – Indice di sviluppo umano e Pil pro capite, 2015

Una delle ragioni è che, accanto alle misure relative all’aspettativa di vita e al livello di istruzione, l’indice di sviluppo umano ingloba anche il livello del reddito. Ma, anche qualora si ricalcoli l’indicatore escludendo quest’ultimo fattore, il quadro che emerge rimane in larga misura invariato. Si vive meglio là dove il Pil è più alto e viceversa.

Figura 2 – Indice di sviluppo umano (Pil escluso) e Pil pro capite, 2015

Il ruolo della conoscenza scientifica

Che si viva meglio dove il Pil è più alto è una considerazione generale valida anche in riferimento alla vulnerabilità climatica. Se da un lato, l’immissione in atmosfera di gas serra nel corso degli ultimi centocinquanta anni ha incrementato la frequenza di alcuni eventi estremi, dall’altro la crescita economica e lo sviluppo della conoscenza scientifica si sono rivelati vaccini efficacissimi nel ridurne l’impatto umano: al crescere del Pil, il numero di vittime si riduce drasticamente. Esemplare al riguardo è il caso del Bangladesh, uno dei Paesi ritenuti più a rischio a causa dell’aumento del livello del mare: mezzo secolo di sviluppo economico e buon governo lo hanno reso molto più resiliente di quanto non fosse fino agli anni Settanta. E negli Stati Uniti dagli anni Sessanta a oggi, grazie soprattutto alla diffusione degli impianti di condizionamento, la mortalità per eccessi di calore è diminuita del 75 per cento.

Il premio Nobel ha evidenziato la necessità di maggiori investimenti scientifici: non c’è dubbio che un paese ricco abbia la possibilità di destinare a tal fine maggiori risorse di uno povero. Ed è proprio grazie alla innovazione che i paesi ricchi hanno già fortemente ridotto le emissioni di inquinanti locali e, in misura più limitata, quelle di CO2 mostrando come si possa continuare a crescere e, al contempo, inquinare di meno. Un altro fronte che ha fatto registrare un’inversione di tendenza in alcuni dei paesi più ricchi è quello della biodiversità: mentre a livello globale tra il 1970 e il 2010 si è registrato un trend di forte peggioramento, in Europa occidentale il numero delle specie è cresciuto del 36 per cento.

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Figura 3 – Indice della biodiversità

L’importanza del clima e quella del Pil

Si può quindi concordare con Parisi quando dice che l’obiettivo dei governi non può essere quello di “aumentare il Pil il più possibile” ignorando tutto quello che l’indicatore non misura. Lascia assai perplessi invece l’affermazione che “se il Pil rimarrà al centro dell’attenzione, il nostro futuro sarà triste”. Accettare una diminuzione del nostro reddito per ridurre le emissioni è necessario, ma altrettanto importante è non dimenticare che anche in futuro le condizioni complessive di vita, soprattutto per i paesi più poveri, dipenderanno molto di più dalla crescita del reddito che non dalla evoluzione del clima.

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Quell’irresistibile voglia di muri

  1. Luca Nobile

    Le fonti più autorevoli (EEA 2021, IPCC 2021) dicono che la crescita è incompatibile con il contenimento del riscaldamento climatico sotto gli 1,5°C e difficilmente compatibile con i 2°C, temperatura oltre la quale si rischia entro 30 anni un crollo delle risorse alimentari, idriche e di abitabilità per circa un miliardo di persone (non escluso il Mediterraneo). I dati ONU (UNEP 2020) precisano inoltre che la metà delle emissioni in questione provengono dal 10% più ricco della popolazione mondiale, cioè con redditi superiori a 38.000$ l’anno, mentre il 50% più povero, con meno di 6.000$, vive in modo perfettamente sostenibile. La soglia dei 38.000$ è del resto molto vicina a quella oltre la quale, secondo Kahneman e Deaton (2010) gli aumenti di redditi non accrescono la felicità percepita (75.000$ per nucleo). Altrimenti detto, la metà del problema sono consumi superflui. Del resto, anche il secondo grafico del HIHD, qui sopra, mostra che c’è una soglia, proprio attorno ai 40.000 $, oltre la quale l’aumento del reddito non produce aumenti del HIHD. Inoltre, paesi come Cuba o il Costa Rica mostrano che un HIHD comparabile con quello USA si può raggiungere con livelli di reddito pari a circa un quinto di quelli USA, cioè praticamente sostenibili (con un minimo di innovazione tecnologica). I calcoli più affidabili (per esempio quelli dello Shift Project francese) suggeriscono che la soglia di 2°C richiede di ridurre i consumi in Occidente di circa un fattore 6 in 30 anni, e che di questo, solo un fattore 2 sarà raggiungibile con l’innovazione, mentre il restante 3 dovrà consistere in una riduzione dei consumi.

  2. Giacomo

    Da scienziato, il Prof. Parisi probabilmente ha provato a tradurre i concetti espressi dalla Kaya Identity in un linguaggio non tecnico e diretto ai decisori politici. Secondo la Kaya Identity (citata implicitamente nell’articolo), uno dei fattori di crescita delle emissioni dell’anidride carbonica è il PIL mondiale.
    Molto condivisibili gli argomenti ed i ragionamenti espressi in questo articolo, ma fino ad oggi gli sforzi per ridurre gli altri fattori non hanno portato a risultati capaci di compensare l’aumento dell’anidride carbonica dovuto al PIL. E più passa il tempo, più l’intensità degli interventi di riduzione delle emissioni dovranno essere forti. Se la riduzione delle emissioni fosse iniziata nel 2010, sarebbe bastato un taglio del 3,7% l’anno per raggiungere gli obiettivi di Parigi; iniziare nel 2020 avrebbe comportato un taglio del 9% annuo (ovviamente si tratta di dati IPCC da stime e proiezioni).

  3. Antonio Massarutto

    Che il PIL non sia un indicatore adeguato per tenere conto delle questioni ambientali è ben noto da tempo. Ma non perché il PIL sia di per sé “cattivo”. Il problema del PIL è, semmai, quello di essere “neutro”: si può aumentare il PIL sia bruciando carbone per produrre elettricità, sia producendo la stessa elettricità usando il sole e il vento. Sia producendo automobili, sia pagando un’orchestra sinfonica.
    Che senza PIL lo scenario sia quello di maggiore povertà per tutti, è altrettanto noto, e se non lo fosse la pandemia ce lo ricorda. Il debito che abbiamo contratto per sostenere la botta del COVID, peraltro, lo pagheremo solo con un maggiore PIL nei prossimi decenni.
    Quel che ci serve non è “meno PIL”, ma un “PIL diverso”. Dobbiamo fare attenzione non solo al livello del PIL, ma anche alla sua composizione.

    • Luca Nobile

      Niente affatto: è proprio il PIL il problema. L’attività economica cresce proporzionalmente al macchinario impiegato, e il macchinario consuma energia, che proviene per l’85% dalla combustione di fossili, cioè dall’ossidazione del carbonio che contengono, e dal suo rilascio in atmosfera sotto forma di CO2.

      • Antonio Massarutto

        Mi permetta di dissentire. Se invece che dalla combustione di fossili provenisse da fonti non fossili, cesserebbe di rappresentare un pericolo per il clima, ma non per questo smetterebbe di chiamarsi PIL! Il PIL misura il valore di ciò che produciamo. Il problema è che si dimentica di dirci come l’abbiamo prodotto. Se spendo il mio stipendio in benzina per viaggiare nei fine settimana, impatto sul clima. Se invece spendo per andare ad assistere a uno spettacolo a teatro, non impatto sul clima. Stessa spesa. Stesso contributo al PIL. La scelta sta a me, e a cosa decido di mettere nel mio “paniere” di consumi. Se domani dovrò pagare l’energia il doppio di oggi per poterla avere “carbon free” vorrà dire che dovrò rinunciare a qualcosa cui adesso destino il mio piccolo pezzettino di PIL, per comprare in cambio protezione contro i cambiamenti climatici. Ma sarà pur sempre PIL, darà da lavorare ai tecnici delle centrali eoliche e ai produttori di pannelli fotovoltaici invece che ai produttori di smartphone.

        • Luca Nobile

          Il problema è che purtroppo, tecnicamente, quell’85% di fonti fossili non si possono sostituire in 30 anni con fonti non fossili. Produrre abbastanza nucleare, solare ed eolico per riuscirci è impensabile e significherebbe in ogni caso un danno ambientale ancora maggiore. Inoltre, quello che impatta sul clima non sono i suoi viaggi del fine settimana, ma l’energia elettrica per far funzionare le case e i luoghi di lavoro (27%), la dieta carnivora e l’annessa deforestazione (22%), la costruzione e il riscaldamento degli edifici (14%), la produzione e il trasporto dei beni di consumo (14%) e i tragitti in auto o in aereo per andare al lavoro (8%). La sua scelta tra il teatro e la gita peserà sì e no per l’1% di quello che non è sostenibile. Se poi lei vuole dire che, nominalmente, un tenore di vita 5 volte più basso di quello attuale si può misurare con un PIL uguale o più alto, posso concederglielo sulla fiducia, ma la sostanza del problema non cambia: l’attività economica (produzione, distribuzione, consumo) è direttamente proporzionale alle emissioni a causa del macchinario, e non può crescere, se queste devono diminuire.

  4. Marcello

    Non credo che il problema sia il PIL! La sostenibilità in economia vuol dire una cosa molto semplice e inequivocabile: un tasso di consumo pro-capite non decrescente nel tempo: si chiama regola aurea. Quindi il tema è il consumo, cioè le prefernze, non la produzione, La sostituibilità dei fattori di produzione, sia quella diretta che quella indiretta, rende sostituibile l’impiego di capitale naturale con il capitale man-made. Quindi il problema non è il PIL, ma per essere chiari, lo stile di vita. Così come il problema del cambiamento climatico è il costo della transizione: quanto si paga e soprattutto chi paga. Le cose stanno così e lo sappiamo da anni. Quindi di cosa si parla quando si dice transizione se nessuno vuol mettere mano ai propri standard di vita?
    Vorrei aggiungere una semplice considerazione: tutti gli scenari sulle emissioni definiti Shared Socioeconomic Pathways (SSP) prevedono per il 2040 un aumento medio delle temperature di 1.5°C, peccato che nell’ultimo decennio le temperature medie siano cresciute di 1.2°C e oggi come ci ricorda Draghi le emissioni sono maggiori che nel 2019. Vorrei anche ricordare che secondo molti climatologi ci sono evidenze per il raggiungimento dei Tipping Points di alcuni ecosistemi tra 1.5°C e 2°C, non tra 2°C e 4°C come speravamo. Sovrapponete questi scenari e avrete un bel problema, Altro che temperature a +1.5°C nel 2050. I sistemi complessi e l’isteresi rendono questi discorsi sul PIL veramente oziosi.

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