Anche in Italia si osserva un aumento del numero di dimissioni, con molte possibili spiegazioni: dimissioni del 2020 rimandate al 2021, paura di contrarre il Covid sul posto di lavoro, la possibilità di lavoro in remoto. I dati non sembrano però supportare queste ipotesi.
Le ipotesi sul campo
Il fenomeno delle “grandi dimissioni” in Italia si è consolidato nel corso del 2021, con un tasso di dimissioni (il numero di dimessi sul totale dei lavoratori dipendenti) che ha superato il 3 per cento nel quarto trimestre dell’anno passato, un numero mai visto nell’ultimo decennio. Se è vero che il fenomeno in Italia ha proporzioni molto più contenute rispetto alla “versione originale” statunitense (circa un terzo), allo stesso tempo, la tendenza è chiara anche nel nostro paese e dunque interrogarsi sulle sue cause è utile e importante. In un recente contributo su questo sito, è stato proposto un “identikit” dei lavoratori dimessi. Per aggiungere un tassello alle riflessioni proviamo a vagliare ora altre tre diverse ipotesi: 1) le dimissioni del 2021 sono dimissioni che avrebbero dovuto aver luogo nel 2020 e sono state semplicemente rimandate di un anno 2) le dimissioni si spiegano con la paura di contrarre il Covid-19 sul posto di lavoro 3) le dimissioni hanno a che fare la possibilità di lavorare da remoto.
Le dimissioni rimandate
Per quanto riguarda l’ipotesi “dimissioni rimandate”, è ovviamente difficile capire se effettivamente chi si è dimesso nel 2021 avesse in programma di dimettersi già nel 2020: non possiamo infatti sapere, per ogni lavoratore, quali fossero le reali intenzioni e quali le motivazioni dietro alla scelta di dimettersi effettivamente nel 2021. Possiamo però ragionare per gruppi di lavoratori e ipotizzare che, se l’ipotesi “dimissioni rimandate” fosse corretta, dovremmo osservare un aumento maggiore di dimissioni nel 2021 nei gruppi che hanno sperimentato un calo maggiore nel 2020: in altre parole, quei gruppi in cui “mancano” dimissioni nel 2020 sono gli stessi dove dovrebbero “comparire” più dimissioni nel 2021, quelle rimandate appunto. In termini più tecnici, dovremmo osservare una correlazione negativa tra l’entità delle dimissioni nei due anni. I grafici della Figura 1 provano a esplorare quindi la relazione tra le dimissioni del 2020 e quelle del 2021 (entrambe espresse come variazione percentuale rispetto al 2019) rispetto a: i) settore del lavoratore ii) professione iii) età iv) anzianità di servizio. In tutti i casi, la relazione è invertita rispetto a quella predetta dall’ipotesi “dimissioni rimandate”: i settori (o professioni, gruppi d’età, e di anzianità di servizio) che hanno visto calare maggiormente le loro dimissioni nel 2020, sono gli stessi in cui le dimissioni sono rimaste a livelli relativamente inferiori anche nel 2021. Non emerge nessun “rimbalzo” da dimissioni rimandate.
La paura del Covid-19 e il lavoro in remoto
Per verificare le altre due ipotesi ci affidiamo invece al lavoro di tre economisti italiani (Teresa Barbieri, Gaetano Basso e Sergio Scicchitano) che hanno elaborato un indice di esposizione al Covid-19 e un indice di lavoro in remoto (relativo alla possibilità o meno di svolgere un determinato lavoro da remoto) per ciascuna professione lavorativa in Italia (qui maggiori dettagli). Ciò ci consente di indagare eventuali correlazioni tra il numero dei dimessi e le caratteristiche di gruppi di lavoratori, in questo caso la loro professione lavorativa e gli indici ad essa associati. Se una delle ipotesi fosse corretta dovremmo osservare come un aumento del numero di dimissioni (di nuovo calcolate come variazione percentuale tra il 2019 e il 2021) al crescere del valore dell’indice (maggiore esposizione al Covid-19 o maggiore possibilità di lavorare in remoto), ovvero una correlazione positiva tra i due valori. I grafici della Figura 2 mostrano il risultato di questo esercizio. In tutti i casi, non si osserva nessuna relazione specifica tra le variabili: la variazione del numero di dimissioni a livello di professione sembra non seguire a livello macroscopico nessuno degli indici utilizzati. Non si osserva neanche una relazione negativa tra il numero di dimissioni e l’indice di lavoro in remoto, che avremmo potuto interpretare come una minore propensione dei lavoratori a dimettersi da occupazioni che consentono loro di lavorare in remoto.
Conclusioni
Le evidenze presentate in questo articolo non sono certamente una prova definitiva che le ipotesi avanzate non abbiano alcun riscontro nella realtà: fenomeni complessi e multidimensionali abbisognano di un ventaglio di spiegazioni, più che di una singola, e probabilmente sia le dimissioni rimandate, sia le dimissioni da paura del Covid-19 che quelle da lavoro in remoto, rappresentano parte della motivazione di alcuni lavoratori. Quello che però emerge è che queste ipotesi non sono quelle che trainano il fenomeno: avremmo altrimenti avuto segnali più chiari nelle correlazioni presentate.
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Savino
Alla base c’è anche una cattiva selezione delle HR. Le aspettative di chi oggi si dimette erano evidente altre, soprattutto con riferimento a conciliazione tempi vita-lavoro e, più in generale al tempo libero. E’ un peccato, inoltre, che non ci sia più volontà di operare in ambito metropolitano, che tutti vogliano vivere nel borgo e nella casetta di un noto spot, salvo la mancanza di infrastrutture materiali e digitali e di ogni socialità e, quindi, di potenziale clientela. Le aziende avrebbero dovuto rivolgersi ad una platea di HR più motivata e più resiliente.
Giacomo
Visto che le 3 ipotesi investigate non danno risultati, forse valeva la pena di pensare anche a qualche ipotesi alternativa, possibile non ce ne sia nessun’altra?
Marcello
Un precedente studio pubblicato su lavoce.info sembrerebbe confermare che le dimissioni riguardano soprattutto maschi, anziani e poco qualificati. In base a queste evidenze, vorrei azzardare l’ipotesi che ci si attende un netto peggioramento del sistema pensionistico e un inasprimento fiscale. Il primo fattore spinge ad anticipare il pensionamento, ed entrami incoraggiano il nero.
Francesca M
E’ possibile che molti genitori (soprattutto donne) si siano dimessi per poter seguire i figli quando le scuole hanno chiuso?
Bruno Perin
Se permettete aggiungerei una ulteriore riflessione.
L’impatto del Covid ha generato un fortissimo impatto in quasi tutti i settori produttivi.
Moltissime sono state le imprese che hanno dovuto mettere in CIG nell’impossibilità di poter licenziare.
Lo stato di incertezza di poter riprendere il lavoro nella stessa impresa può aver generato la ricerca di alternative e quindi l’aumento di dimissioni.
Inoltre, la ripresa produttiva, ha visto settori con maggiore necessità di organici, elevando la domanda di lavoro, contro altri non altrettanto dinamici. Questo potrebbe spiegare anche la difficoltà di trovare personale idoneo/disponibile, troppo velocemente attribuito al reddito di cittadinanza come freno occupazionale
Chiara
Lo sblocco di molti concorsi pubblici ha avuto un qualche peso significativo in tutto ciò? Non ne ho mai trovato mensione in nessuna analisi su questo tema.