Lavoce.info

Le crisi finanziarie come canale di diffusione del populismo*

Le crisi finanziarie colpiscono in maniera indiscriminata colletti blu e colletti bianchi, riducendo la loro sicurezza economica e aprendo le porte al populismo. È stato così per la Grande Recessione e la crisi dei debiti sovrani in Europa.

Le crisi finanziarie hanno gravi costi economici. In questo articolo mostriamo che comportano anche costi politici importanti. La crisi finanziaria globale e la relativa Grande Recessione hanno rappresentato uno spartiacque per il populismo in Europa, cambiando le opinioni dei cittadini e la retorica di tutti i partiti. La crisi ha portato insicurezza economica alle classi medie, che erano rimaste in gran parte indenni dagli shock della globalizzazione e dell’immigrazione. La disillusione nei confronti dello status quo ha spinto i partiti a entrare nell’arena politica con piattaforme populiste.

L’impatto dell’economia sulla politica

Le crisi finanziarie sono un fenomeno ricorrente nella storia dei mercati emergenti e delle economie avanzate. Tuttavia, non sono state condotte molte ricerche sulle loro conseguenze al di fuori dell’ambito delle variabili economiche. In generale, le conoscenze sull’economia politica delle crisi finanziarie sono ancora limitate – fanno eccezione i contributi di Fernandez-Villaverde e coautori, McCarthy e coautori e Mian e coautori (per la bibliografia completa, consultare la versione originale dell’articolo).

In un recente lavoro, sosteniamo che la crisi finanziaria del 2008 e la relativa Grande Recessione sono state un fattore importante nella diffusione del populismo in Europa nel XXI secolo.

Molto è stato scritto sul ruolo svolto dall’inizio della globalizzazione e dell’automazione che, causando la perdita di posti di lavoro soprattutto nei settori poco qualificati, ha creato disillusione negli elettori delle democrazie liberali, modificando gradualmente la domanda di politiche. Per esempio, Rodrik fa risalire l’origine dell’odierno populismo alla globalizzazione, mentre Autor e coautori, Colantone e Stanig (qui e qui) e Jensen e Bang sono chiari esempi di effetti ben identificati dell’impatto cinese su manifestazioni specifiche come la Brexit.

In questi studi, la crisi finanziaria viene trattata come un altro fattore che ha aumentato ulteriormente l’appetito degli elettori per le politiche populiste, senza concentrarsi molto sull’esatto meccanismo e su quale segmento della società ne sia stato maggiormente colpito – si veda, per esempio, l’intervento di Dani Rodrik su VoxEU.

La differenza tra crisi finanziarie e shock causati da globalizzazione o automazione

Le crisi finanziarie sono diverse dalla globalizzazione e dall’automazione, che sono tendenze graduali e forse irreversibili. Le crisi finanziarie sono eventi acuti del ciclo economico – rotture improvvise che innescano conseguenze politiche più repentine, che si rivelano anche più pervasive. Ma soprattutto, le crisi finanziarie, pur generando forti flessioni che si attenuano nel medio termine, possono avere conseguenze politiche che durano più a lungo.

Se la globalizzazione e l’automazione creano dei perdenti, non c’è dubbio che ci siano anche dei vincitori. Inoltre, il commercio globale ha comportato non solo la distruzione di posti di lavoro e la riduzione dei salari per i colletti blu delle imprese colpite dalla concorrenza estera, ma anche la riduzione dei prezzi dei beni finali che entrano nel pacchetto di consumo dei consumatori (e dei fattori di produzione intermedi delle imprese). Questo non è vero per le crisi finanziarie. Le recessioni indotte da una crisi finanziaria sono in gran parte prive di effetti benefici – la maggior parte delle persone, in tutto lo spettro della popolazione votante, perde. Le perdite di reddito tendono a essere profonde e universali. Di conseguenza, il malcontento promosso dall’insicurezza economica che ne deriva tende a essere più pervasivo e quindi politicamente rilevante.

Leggi anche:  Il sindaco verde mantiene le promesse*

La Figura 1 mostra una misura dell’evoluzione dell’insicurezza economica media nei 28 Paesi europei coperti dall’indagine sociale europea (ESS), fissando il suo livello a uno nel 2002 (il primo anno di campionamento). Mentre l’insicurezza economica era già aumentata negli anni precedenti alla crisi finanziaria, quando la globalizzazione era in atto, essa aumenta negli anni della Grande Recessione e della crisi del debito sovrano europeo, per poi diminuire bruscamente dopo la crisi del 2014. La globalizzazione e la robotizzazione, che sono tendenze secolari e non fenomeni congiunturali, non possono spiegare questo calo.

Figura 1 – Indice di insicurezza economica (2002 = 100)

Nota: Il grafico mostra l’evoluzione di una misura dell’insicurezza economica media (e del suo intervallo di confidenza al 95%) nei 28 Paesi europei coperti dallo European social survey.

L’impatto sulla classe media

La composizione di coloro che soffrono di grave insicurezza è cambiata anche dopo l’inizio della crisi nel 2008 e si è estesa a segmenti della popolazione meno colpiti dallo shock della globalizzazione. La Figura 2, pannello A, mostra la quota di colletti blu (operai e assimilati) e non blu (impiegati e assimilati) nel primo quartile di insicurezza economica in ogni anno del nostro campione. Prima della crisi finanziaria, negli anni dell’ondata di globalizzazione, l’incidenza dei colletti blu tra coloro che sperimentano un’elevata insicurezza è dominante (66% in media); negli anni successivi al 2008, la quota dei non colletti blu aumenta sostanzialmente, di oltre otto punti percentuali rispetto agli anni precedenti la crisi finanziaria. Il pannello B mostra che la crisi finanziaria ha generato insicurezza economica anche nella classe media (definita come persone che si collocano nel 50% medio della distribuzione dei redditi in ciascun paese). La quota di elettori della classe media che soffrono di grave insicurezza (cioè nel primo quartile di insicurezza) sale rapidamente negli anni della Grande Recessione. Pertanto, la crisi finanziaria non solo ha aumentato l’insicurezza tra gli strati sociali che erano già angosciati dalla globalizzazione e simili prima della crisi (tipicamente i colletti blu e i lavoratori poco qualificati nella parte inferiore della distribuzione del reddito), ma ha anche esteso l’insicurezza a segmenti della popolazione che erano stati più protetti dalla globalizzazione.

Figura 2 – Quota di persone nel primo quartile (maggiore insicurezza) nell’indice di insicurezza economica per colletti blu e classe media

A. Colletti blu

B. Classe media

I vincoli all’indebitamento sono fondamentali

Per economie come quelle dei paesi occidentali avanzati, dove sia le imprese che le famiglie dipendono fortemente dalla finanza, i crolli finanziari sono particolarmente difficili da affrontare. Un meccanismo importante per tamponare gli shock di reddito in queste economie – l’assunzione di prestiti sul mercato – è ostacolato dalle crisi, poiché i mercati finanziari smettono di funzionare senza problemi e i vincoli finanziari diventano più stringenti. Inoltre, il crollo dei prezzi degli asset causato dalle crisi impoverisce i risparmi precauzionali che i lavoratori possono aver accumulato, limitando la loro capacità di affrontare l’insicurezza economica.

Il nostro punto principale è che la crisi finanziaria europea ha creato nuove classi di elettori disillusi. L’insicurezza economica innescata dalla crisi finanziaria ha avuto un effetto causale sulla fiducia degli elettori nei partiti politici, sull’affluenza e sulle scelte di voto. Documentiamo anche un aumento dell’astensione, soprattutto tra coloro che non erano già stati colpiti duramente dalla globalizzazione.

Leggi anche:  Un quorum grande così

Evidenze dal lato dell’offerta

La nostra analisi suggerisce che la crisi finanziaria ha ampliato il bacino di elettori delusi, spingendo, dal lato dell’offerta, i partiti politici a entrare nell’arena politica con piattaforme che offrono agli elettori disillusi una nuova speranza di protezione semplice e monitorabile. In effetti, il momento di massima entrata e trasformazione dei partiti in Europa si colloca in questo periodo.

La Figura 3 mostra il numero medio di partiti populisti che si sono presentati alle elezioni fino al 2008 e negli anni successivi all’inizio della Grande Recessione. È chiaro che la Grande Recessione segna uno spartiacque in termini di offerta di partiti populisti in competizione per i voti. Fino al 2008, il numero di partiti populisti in corsa alle elezioni era di circa 1,7, senza una chiara tendenza. Negli anni successivi al 2008, il numero medio di populisti disponibili per il voto balza a 2,4 – un aumento del 33% rispetto alla media pre-crisi – con un picco nelle elezioni del 2012. Anche in questo caso, la crisi finanziaria sembra costituire una rottura strutturale nell’offerta di piattaforme populiste.

Figura 3 – Numero assoluto (linea blue) e medio (linea rossa) di partiti populisti alle elezioni

Un’analisi inedita delle dinamiche dell’offerta di populismo in Europa, esaminando i manifesti di tutti i partiti europei e distinguendo i partiti longevi (presenti sia prima che dopo la crisi finanziaria) da quelli non più esistenti o nati con la crisi, conferma che gran parte dell’uscita dei vecchi partiti e dell’ingresso di nuovi partiti populisti, così come gran parte della trasformazione delle piattaforme dei partiti che sono diventati populisti ma che prima non erano considerati tali, è avvenuta dopo la Grande Recessione.

Conclusioni

Sosteniamo che la crisi finanziaria abbia rappresentato un punto di svolta che ha trasformato la politica in Europa, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Il fatto che dopo la crisi (cioè dopo il 2014) il populismo sia persistito in Europa suggerisce che ha creato una rottura strutturale – un punto di svolta da cui è difficile riprendersi – cambiando le opinioni dei cittadini e la retorica di tutti i partiti. Resta da vedere se questa ondata di populismo trasformerà la politica in Europa in modo permanente – una possibilità che gli studi sugli episodi storici passati suggeriscono di non escludere.

*Le opinioni espresse in questa rubrica sono quelle degli autori e non rappresentano necessariamente le opinioni delle istituzioni di appartenenza. Tradotto dall’inglese da Massimo Taddei. La versione originale uscita su VoxEU è disponibile qui.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Un quorum grande così

Precedente

Di inflazione non ce n’è una sola*

Successivo

Carriere universitarie: è tempo di riforma

  1. Savino

    Siamo riusciti a vedere l’oligarchia lontana migliaia di chilometri e non stiamo vedendo l’oligarchia a casa nostra. Le differenze sociali evidenti creano un certo sentiment.

  2. Stefano Scarabelli

    Forse più che le crisi finanziarie in sè, è il tipo di risposta alle crisi finanziarie che ha generato il populismo. Dopo la crisi degli anni 70′ sono nati partiti populisti in Italia? Dopo quella del 29′ in America si è forse visto un Trump?

    • giancarlo

      si, il trump del post crisi del 29 in america è stato roosewelt

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén