Le zone 30 esistono da decenni in varie città europee, ma anche in Italia. E sono state analizzate sotto i più diversi profili. Presentare come estemporanea la scelta del comune di Bologna significa ignorare sperimentazioni a livello internazionale.
Quali indicatori per valutare le zone 30
Si può certo concordare che le scelte strategiche sulle politiche pubbliche debbano essere assunte anche sulla base di adeguate evidenze scientifiche a sostegno di valutazioni ex ante e siano poi sottoposte a monitoraggio accurato in modo da pervenire a valutazioni ex post. Tuttavia, occorre anche che gli indicatori utilizzati siano pertinenti, in relazione ai fattori rilevanti sul piano scientifico, e basati su serie di dati adeguate a sostenerli, pena l’insorgere di errori prospettici anche vistosi.
Da questo punto di vista, l’intervento di Guglielmo Barone, Emma Manneschi e Giulia Romani sulle zone 30 bolognesi non riesce a cogliere il punto, e ciò almeno per tre ordini di ragioni.
In primo luogo, gli indici di incidentalità più pertinenti per il caso in esame dovrebbero essere costruiti considerando non soltanto il numero dei sinistri – da molti anni oggetto di accurate rilevazioni statistiche – ma anche i corrispondenti livelli di traffico – spesso meno noti, quanto meno al livello di dettaglio richiesto da questo genere di analisi. In altre parole, gli indici più efficaci sono espressi in termini di sinistri occorsi per veicolo-km, cioè per il numero totale di chilometri percorsi dai veicoli all’interno del perimetro di studio in una certa unità di tempo. Ne consegue che, in taluni casi, il numero di incidenti può aumentare anche con tassi di incidentalità stabili o decrescenti, semplicemente a causa di un aumento del traffico. È quanto è avvenuto negli ultimi anni: il repentino ritorno ai livelli di traffico pre-pandemici si è accompagnato, a scala nazionale, all’interruzione della tendenza alla diminuzione del numero di incidenti, che si era manifestata da inizio secolo. Così, il fatto che tra il 2014 ed il 2016 il numero di incidenti sugli archi stradali bolognesi presi in esame sia risultato costante potrebbe anche rimandare a un miglioramento della situazione, perché nel frattempo i corrispondenti volumi di traffico potrebbero essere aumentati. E in ogni caso, vista la natura delle conseguenze studiate, sembrerebbe opportuno non limitare le conclusioni ai soli effetti di breve termine (biennio 2015-2016), ma estenderle all’intero periodo 2017-2022, i cui dati sono certamente disponibili.
In secondo luogo, e come richiamato dagli autori stessi in conclusione, l’ampia evidenza scientifica sugli effetti delle zone 30 indica che essi consistono in una riduzione non tanto del numero degli incidenti, quanto della loro gravità, comunemente misurata in base al numero di persone che hanno riportato danni (morti o feriti), se non addirittura al numero di giorni di prognosi indotto dai sinistri. Gli indicatori più pertinenti sono rappresentati, in questo caso, dagli indici di lesività (numero di morti o feriti per sinistro) e di letalità (numero di morti su totale persone coinvolte), generalmente più facili da determinare degli stessi indici di incidentalità, in quanto non richiedono l’incrocio con dati di altra fonte (i volumi di traffico), ma unicamente di informazioni normalmente raccolte in occasione dei sinistri stessi. Tutti gli esperti del settore sanno molto bene che le zone 30 sono oggetto da almeno quarant’anni di approfondite analisi e che su questo punto la letteratura scientifica offre evidenze ampie e concordi, basate sia su valutazioni teoriche, sia su osservazioni empiriche. Purtroppo, però, su questi aspetti cruciali l’intervento relativo al caso bolognese non ci dice nulla.
La questione della sperimentazione
In terzo luogo, l’affermazione secondo la quale il comune di Bologna, prima di attuare il limite generalizzato a 30 chilometri orari, avrebbe dovuto sperimentare la misura su piccola scala, è contraddetta dalle stesse osservazioni degli autori che, appunto, fanno riferimento a sperimentazioni di questo genere effettivamente avviate dall’amministrazione bolognese quasi dieci anni fa. Per poter trarre conclusioni circostanziate, dovrebbero entrare qui in gioco considerazioni ulteriori, relative alle modalità di implementazione delle misure nelle zone studiate, che possono andare da un semplice adeguamento della segnaletica a una completa riprogettazione dello spazio stradale, con esiti a loro volta ampiamente variabili in termini di effettivo rallentamento dei flussi veicolari: infatti, tutti gli studi seri condotti negli scorsi decenni, oltre agli incidenti e ai volumi di traffico, si sono preoccupati di misurare anche le variazioni di velocità effettivamente indotte dalle misure adottate.
In generale, comunque, l’istituzione di “zone 30” estese a interi quartieri è attuata in molte città italiane da almeno vent’anni, e in quelle europee da quaranta, se non cinquanta. Si è trattato spesso di situazioni ampiamente monitorate, in particolare rispetto ad aspetti, come la sicurezza stradale, che sono oggetto di sistematica rilevazione statistica, tanto da far entrare questi sistemi all’interno della normativa tecnica della maggior parte dei paesi europei, inclusa l’Italia (seppure in modo un po’ confuso). Aprire oggi un nuovo dibattito sul tema ripartendo praticamente da zero è come sostenere che prescrivere l’aspirina a un paziente di Forlimpopoli non è giustificato, dato che i corrispondenti trial, pure accurati, hanno coinvolto solo persone residenti in altre località dell’Emilia-Romagna.
Pertanto, per gli esperti del settore fa veramente un po’ specie assistere a una discussione pubblica nella quale sembra quasi che la scelta del comune di Bologna caschi dal cielo e vada imputata a una delle solite iniziative estemporanee e frettolose di amministratori avventati. Agli occhi di chi da decenni progetta e realizza strade a velocità moderata, un dibattito di questo tenore tende forse a evidenziare, più che gli effetti (ampiamente noti) delle “zone 30”, il livello di ignoranza (ahimè ancora non pienamente noto) di molti commentatori italiani.
Tutto questo non vale certo a sostenere che la scelta bolognese della “Città 30” sia di per sé adeguata e priva di effetti sistemici anche indesiderati, ma richiama la necessità di improntare il dibattito sui migliori standard internazionali, evitando il rischio del provincialismo, sostenuto in questi giorni da molti interventi assai poco informati, provenienti purtroppo anche da alcuni massimi esponenti di governo.
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Francesco
Il cinico in me crede che chi contesta l’adozione di estese zone 30 sia sufficientemente ben informato. Torna alla mente una ironica lezione del prof. Michael Sandel a proposito delle analisi costi-benefici e del loro uso strumentale; raccontava di uno studio di una nota multinazionale del tabacco che dimostrava i vantaggi economici per un governo europeo di non disincentivare il fumo. I vantaggi consistevano sostanzialmente nella maggiore e prematura mortalità dei fumatori, con risparmi per la collettività in termini di minori spese pensionistiche. Qui i termini del dibattito sembrano simili. Purtroppo ogni paese ha la classe politica che si merita e che è capace di esprimere.
Andrea Debernardi
Buonasera, grazie del contributo. Non sono un politologo, e dunque non credo di essere in grado di valutare se l’Italia ha la classe politica che si merita. Nel contributo mi limito ad evidenziare alcuni aspetti potenzialmente fuorvianti nella scelta di indicatori riferiti a politiche di regolazione del traffico inserite in contesti sociotecnici complessi. Seppur come practitioner, mi occupo del tema da molti anni ed ho spesso toccato con mano come la semplice ricerca di correlazioni, senza il supporto di modelli cognitivi che consentano di interpretare i dati, possa dar luogo ad errori di valutazione anche vistosi. Questo chiaramente non significa che le Città 30 siano una panacea (io stesso nutro alcune riserve su alcuni punti specifici), ma solo che sarebbe responsabilità di tutti cercare di informare il dibattito ad un livello adeguato ad un tema importante, come quello della sicurezza stradale. Da tecnico, devo purtroppo rilevare che le stesse direttive ministeriali emanate proprio oggi rivelano un approccio del tutto autoreferenziale: basare le proprie considerazioni su una circolare ministeriale del 1979, senza dar conto alcuno di mezzo secolo di studi, dibattiti, sperimentazioni, valutazioni ex ante ed ex post sul tema, evidenzia quanto in questo campo la strutturazione delle policy da parte delle tecnostrutture ministeriali sia fantasmagoricamente lontana dalle migliori esperienze europee.
Firmin
Supponiamo che il limite dei 30 kmh riduca davvero gli incidenti (calcolati e ponderati correttamente). Ci si dovrebbe chiedere se il limite migliori anche la mobilità in termini di tempi di percorrenza e volume di traffico, visto che in fondo le strade e i mezzi di trasporto sono fatti per questo. Sarebbe troppo facile azzerare gli incidenti stradali restando tutti fermi, come durante il lockdown. Tralascio gli effetti del limite sull’inquinamento e i consumi di carburante, visto che le auto attuali sono ottimizzate per viaggiare a velocità più o meno doppie. La verità è che non ha senso valutare un fenomeno intrinsecamente multidimensionale come la mobilità utilizzando un solo indicatore. Sarebbe come utilizzare il rapporto tra debito e PIL come unico target di un governo, trascurando bazzecole come il PIL, i conti con l’estero, l’occupazione, l’inflazione, ecc.
Pietro
Bravo! Concordo!
Qui sembra che l’unico problema ha di fronte una progettazione urbana sia ridurre i morti e i feriti…
A quale prezzo si giunge a tale scopo non ci è dato di saperlo. Né ci è dato di sapere come misurare e prezzare entità diverse come 7 morti in meno l’anno (nel 2023 in un semestre ce ne sono stati in tutto 7, ipotizzando un dimezzamento su base annua siamo lì) a fronte di svariati milioni di ore di vita perse nel traffico ogni anno da parte di alcune centinaia di migliaia di persone (anche qui il calcolo è facile se su 400.000 bolognesi anche solo 100.000 perdono nel traffico 30 minuti in più al giorno per 200 giornate lavorative l’anno siamo a 10 milioni di ore perse ogni anno).
Vaste programme, certo, ma senza questo confronto riduciamo le statistiche di 50 anni di mobilità lenta a bandierillas da infilzare sul toro di chi non è d’accordo, di fatto facendo ricadere le stesse statistiche nella celebre triade “Lies, damned lies, and statistics”,
In altri termini, senza che siano resi chiari i vantaggi misurabili di un progetto a fronte di costi altrettanto misurabili, e senza che chi paga in prima persona questi costi sia chiamato a esprimersi, il dibattito resta puramente ideologico.
Anche in presenza di dati seri. Perché i dati non sono mai bruti, ma sono sempre interpretati e l’interpretazione è la cosa più difficile in assenza di protocolli chiari e condivisi.
Andrea Debernardi
Mi sembra che siate entrambi poco informati. Proprio nel caso di Bologna, è stata fatta una valutazione ex ante che tiene conto di tutti questi fattori (ne trovate cenno qua https://facta.news/articoli/2024/01/25/bologna-30-disinformazione/), ed i perditempo per gli automobilisti sono di tutt’altro ordine di grandezza. Certo, si può non essere d’accordo con le conclusioni, ma forse prima di esprimere opinioni “a sentimento” è meglio informarsi: come diceva un famoso politico americano: ciascuno ha diritto alle proprie opinioni, ma nessuno ha diritto ai propri fatti. Perdonate il tono brusco, ma credo che sia arrivato il momento, per il bene del paese intero, di abbandonare questi eccessi di semplificazione e di cercare di tenere il tono del dibattito pubblico un po’ più elevato: abbiamo bisogno di capire quali siano le soluzioni migliori ai tanti problemi che ci affliggono da tanto (troppo) tempo, e gli incidenti stradali sono uno tra questi.
Pietro
Che investire a 30 faccia meno danni che investire a 50 è un truismo.
Mi sta citando uno studio in cui si parla della mortalità in Italia (su tutte le strade), non della mortalità a Bologna, o sbaglio?
Gianluca
Chiedo scusa, ma se vuole contestare l’intervento precedente, basato su numeri e una sia pur parziale verifica scientifica (d’altronde non stiamo redigendo uno studio o un libro, lo spazio è quello che è), perchè non offre numeri e metodologie alternative, almeno con un link?
Dire che è tutto “sbagliato” perchè da cinquant’anni lo sanno tutti, mi perdoni ma è un po’ supponente. Quantomeno, parziale.
Grazie
Andrea
Beh, il link c’era…
Comunque, provo a fornire qualche indicazione più circostanziata e “scientifica” (nel senso che userò un po’ di numeri) sul tema “tempi di percorrenza”. Il punto di partenza è che il tema 30/50 km/h riguarda i limiti di velocità massima, mentre i tempi di percorrenza sono legati piuttosto alla velocità media degli spostamenti: nelle aree urbane i due valori sono di norma molto diversi tra loro, come risulta evidente considerando che, a velocità costante di 50 km/h, per percorrere i 10 km che separano Sesto San Giovanni da Milano sarebbero sufficienti 12 min, mentre i tempi di percorrenza reali, anche in ora di morbida, sono normalmente almeno doppi, il che significa che la velocità media non eccede i 25 km/h.
In generale, nelle nostre città, la velocità media degli spostamenti in auto difficilmente supera i 30-35 km/h, come si può osservare in https://www.tomtom.com/traffic-index/ranking).
Infatti, nel determinare la velocità media, non conta solo il tempo trascorso viaggiando a velocità “di crociera”, ma anche le fasi di accelerazione e decelerazione, nonché il tempo trascorso fermi al semaforo od in coda. In prima approssimazione, queste fasi possono essere descritte, nel piano cartesiano tempo-velocità, da un tipico diagramma “trapezoidale”, che descrive il valore assunto dalla velocità istantanea del veicolo in ogni fase dello spostamento (non riesco purtroppo ad inserire uno schema grafico, ma volendo lo si può trovare qui: https://ville30.org/le-concept-de-ville-30/30-kmh-et-temps-de-parcours/ ).
Ora, con calcoli algebrici abbastanza semplici è possibile verificare che percorrere una tipica distanza fra due successive intersezioni urbane (ad esempio, 600 m) con velocità massima 50 km/h, accelerazioni/decelerazioni nella norma (ad es.1 m/s2 che significano da 0 a 100 km/g in 27 sec), e 30 secondi di fermata alla fine di ciascun ciclo, la velocità media dello spostamento è di poco inferiore ai 25 km/h. A parità di ogni altro fattore, ridurre la velocità massima a 30 km/h fa scendere la velocità media a circa 20 km/h. Il tempo di percorrenza su una distanza dell’ordine dei 5 km passa pertanto da 5 : 25 = 0,2 ore = 12 minuti a 5 : 20 = 0,25 ore = 15 minuti.
Tutto questo beninteso che in ogni ciclo trapezoidale le condizioni di traffico consentano effettivamente di raggiungere una velocità di crociera di 50 km/h. Normalmente i perditempo risultano anche inferiori perché gli intervalli temporali in cui i 30 km/h vengono effettivamente superati sono relativamente ridotti.
Per una spiegazione meno “algebrica”, e più “istituzionale”, rimando ad esempio a: https://www.gov.wales/evidence-about-20mph-journey-times
Incidentalmente, tutta questa analisi spiega anche per quale motivo i consumi e le emissioni non siano troppo influenzate dal limite di velocità a 30 km/h. Infatti, se è vero che in marcia stazionaria a 50 km/h un veicolo consuma meno carburante ed emette meno inquinanti per km percorso che in marcia stazionaria a 30 km/h, nel primo caso le fasi di accelerazione, molto energivore, durano più a lungo e tendono a neutralizzare l’effetto primario.
Bisogna infine ricordare che, sia nel modello basato sulle cosiddette “isole ambientali” (cioè “Zone 30” istituite in ambiti urbani delimitati) che in quello della “Città 30”, le strade principali restano regolate a 50 km/h: tipicamente si parla del 20/30% della rete su cui si concentra però il 70/80% del traffico. Tutto questo si riverbera, evidentemente, sui tempi di percorrenza complessivi.
Riassumendo, la maggior parte delle valutazioni fatte sul tema evidenziano come introducendo il limite a 30 km/h la sicurezza stradale migliora, i tempi di percorrenza subiscono incrementi molto limitati, i consumi e le emissioni variano poco, e non necessariamente in aumento. Tutti fattori che mi risultano essere stati presi in esame nella valutazione socio-economica effettuata per la Città 30 a Bologna.
Francesco
Provincialismo dei commenti (pure preconizzato nell’articolo) di chi pensa che esista soltanto il trasporto individuale su gomma per muoversi, e il proprio tempo passato in coda vale anche più della vita, ovviamente altrui
Pietro
Guardi casca proprio male perché appena posso uso i mezzi pubblici e odio guidare (perché sui mezzi pubblici si legge un libro, in auto no). Forse una maggior conoscenza dei tempi di percorrenza dei mezzi pubblici che dall’hinterland portano in Bologna aiuterebbe a intuire maggiori dettagli di una triste necessità qual è l’uso dell’auto in Bologna.
Quanto al principio di massima precauzione è quello che fa si che in Italia non sia possibile nessuno sviluppo tecnologico con le conseguenze che vediamo sulla produttività, sul Pil, sulle pensioni e di conseguenza anche sulla spesa medica. Va bene, ma solo cum grano salis.