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In agricoltura lo sfruttamento non è un destino

Chi lavora in agricoltura è molto spesso sottoposto a condizioni di sfruttamento, specie quando si tratta di immigrati. La tragica vicenda di Latina ne è un esempio emblematico. Ma anche in questo settore si possono garantire legalità e diritti dei lavoratori.

Un settore frammentato

La tragica morte di Satnam Singh ha acceso i riflettori, non si sa per quanto, sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati in agricoltura, e su quanto l’eccellenza del cibo italiano dipenda sempre più da braccia straniere: un fatto costantemente ignorato dalla pubblicità patinata e dagli eventi ufficiali del made in Italy. Nel frattempo, si levano le proteste indignate, che identificano il lavoro immigrato con lo sfruttamento più bieco, mentre vengono ribaditi i rituali impegni a contrastare il caporalato in agricoltura. Discorsi già sentiti molte volte, puntellati da apposite norme di legge, ma sconfessati da intrecci di convenienze, tolleranza endemica verso il ricorso al lavoro irregolare, annosa debolezza del sistema ispettivo. Non è difficile immaginare che, passata l’ondata d’indignazione, tutto tornerà come prima. Nei giorni successivi a quanto avvenuto a Latina, altri tragici incidenti hanno portato a cento il numero degli immigrati morti sul lavoro in Italia dall’inizio dell’anno.

Il contenimento dei costi dei prodotti agricoli nel sistema distributivo esercita una pressione che risale nella filiera, traducendosi in compressione del costo del lavoro nei campi. I produttori, in gran parte del sistema agricolo nazionale, sono frammentati, arretrati e disorganizzati. Scarsa capacità contrattuale nei confronti della distribuzione e scarsa capacità d’innovazione tecnologica sono compensate dallo sfruttamento del lavoro, fornito oggi sempre più da immigrati in varie condizioni legali. Dove il lavoro umano non può essere sostituito dalle macchine, o non lo è per mancanza d’investimenti, la stagionalità delle produzioni richiede d’altronde grandi afflussi di manodopera per periodi molto brevi, senza che si presti sufficiente attenzione – e controlli dovuti – a come questi lavoratori vengano assunti, trattati e alloggiati. Va ricordato per contro che vi sono regioni in cui i pomodori non si raccolgono più a mano.

Lavori da immigrati

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati dall’Istat in 2,4 milioni circa, più del 10 per cento degli occupati. In agricoltura, però, il loro contributo è più rilevante: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362 mila alla fine del 2022, e coprono il 31,7 per cento delle giornate di lavoro registrate. Ma i dati non dicono tutto, essendo condizionati dalla mancata registrazione del lavoro sommerso e dalla registrazione fittizia di lavoratori (e lavoratrici) italiani per accedere alle risorse della protezione sociale destinata al settore.

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Va poi notato che la componente più importante è quella rumena, anche se in calo: da quasi 120 mila lavoratori registrati nel 2016 a 78 mila nel 2022. Contrariamente a quello che si è detto in questi giorni, la legge Bossi-Fini nello sfruttamento dei lavoratori agricoli c’entra solo parzialmente, così come c’entrano solo parzialmente i rifugiati arrivati negli ultimi anni. La cosiddetta “rifugizzazione” del mercato del lavoro immigrato è una tesi suggestiva, ma minoritaria. La tesi speculare, secondo cui lo sfruttamento è dovuto alla presenza di immigrati irregolari e richiedenti asilo, si allontana ancora di più dalla realtà. Finché hanno trovato disponibilità, molti datori di lavoro hanno preferito lavoratori provenienti dall’Europa comunitaria, evitando complicazioni burocratiche e il pur remoto rischio di accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Per lo stesso motivo, gran parte dei lavoratori, anche assunti senza contratto e sfruttati, hanno un qualche tipo di permesso di soggiorno. Frequente nelle campagne di raccolta, forse prevalente, è il ricorso al lavoro “grigio”: qualche giornata registrata regolarmente, per stornare accuse e ispezioni. La formazione di una popolazione di braccianti che ruota da un sito agricolo a un altro, a seconda dei periodi di maturazione dei prodotti e del fabbisogno di manodopera, tende a formare un sottoproletariato immigrato, spesso prigioniero di una marginalità permanente ma funzionale al sistema produttivo.

Zone dove non c’è sfruttamento

Una recente ricerca promossa dal centro studi Confronti per conto della Fai-Cisl ha tuttavia disegnato un panorama più variegato del lavoro immigrato nel sistema agro-industriale nazionale: Made in Immigritaly.

La ricerca ha analizzato nove studi di casi locali. Nelle realtà del Mezzogiorno analizzate (Foggia, litorale domizio, in parte a Vittoria-Ragusa) la situazione non è molto dissimile da quella scoperta a Latina, con l’aggravante della formazione e riproduzione d’insediamenti informali di vario tipo, dove i lavoratori immigrati trovano alloggio, molti per le campagne di raccolta, alcuni ormai stabilmente. Sono emblematici i casi in cui istituzioni pubbliche e soggetti della società civile installano ambulatori e servizi igienici in prossimità dei cosiddetti “ghetti” o costruiscono tendopoli, ma non riescono a incidere sui rapporti di lavoro e a convincere i datori di lavoro ad applicare i contratti. L’economia di interi comprensori di produzione agricola si regge sullo sfruttamento degli immigrati, il loro confinamento e l’alloggiamento in condizioni che vanno dall’indecente al minimalista.

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Anche a Saluzzo, in Piemonte, lavoro irregolare e precarietà alloggiativa sono problemi annosi, almeno per gli africani ultimi arrivati, malgrado i progetti d’intervento di vari soggetti pubblici e non profit. Altrove però le cose vanno diversamente. In Trentino migliaia di lavoratori stagionali ogni anno arrivano, soprattutto dall’Europa orientale, sono assunti quasi sempre regolarmente e alloggiati dignitosamente. Oggi il problema è che non ne arrivano più a sufficienza. In provincia di Bergamo, come in altre province della Valpadana, gli indiani sikh – coetnici di quelli sfruttati a Latina – lavorano nell’industria zootecnica, con impieghi stabili, contratti regolari, alloggi decenti. Semmai patiscono l’isolamento nelle campagne. In Veneto le produzioni di eccellenza richiedono anch’esse manodopera straniera che riceve trattamenti adeguati. L’industria delle carni in Emilia-Romagna offre lavori pesanti e sgradevoli, ma applica i contratti e stabilizza i lavoratori, pur con stratificazioni etniche e rivalità. I paesi spopolati degli Appennini stanno trovando nuovi abitanti e il tessuto cooperativo favorisce l’integrazione.

In definitiva, dove le parti sociali contrattano e raggiungono intese soddisfacenti, e le istituzioni pubbliche esercitano i loro compiti sia di contrasto dell’illegalità, sia di promozione dello sviluppo, le condizioni d’impiego dei lavoratori, immigrati compresi, sono meglio tutelate, e anche le condizioni contrattuali accessorie, come le sistemazioni alloggiative, sono meglio garantite. Lo sfruttamento non è un destino, e le produzioni del made in Italy possono ricorrere al lavoro degli immigrati anche riconoscendolo e tutelandolo.

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Il Punto

  1. Firmin

    Non capisco la difficoltà di controlli sovietici sui lavoratori irregolari in agricoltura (di qualsiasi nazionalità). Oggi con un drone da poche centinaia di euro e software gratuiti si possono contare i lavoratori nei campi (con tecnologie militari alla portata perfino degli Houti) e verificare se le aziende li hanno regolarmente a libro paga. Se poi preferiamo pagare poco frutta e verdura e non vogliamo disturbare chi “ha voglia di fare” è un altro paio di maniche.

  2. Savino

    Italian job. E’ la pessima ed indifendibile classe imprenditoriale italiana.

    • Fabrizio

      buonanotte. Pochi sfruttatori indecenti e criminali non sono affatto un “classe imprenditoriale”. E’ lo Stato che fa finta di nulla lo scandalo vero.

  3. Dino Marino

    Servirebbe un patto tra imprenditori agricoli e Regioni per implementare un codice etico e marchi di qualità dei prodotti del Made in Italy. Occorrerebbe individuare risorse per far emergere il lavoro nero, intervenendo sul costo. del lavoro, ma anche con interventi mirati delle istituzioni per imporre alla grande distribuzione di accorciare la filiera, così che ci potrebbero essere produttori che raddoppiano il valore deli loro profotti ma applicano un cod. etico….

  4. Ho letto con molto interesse la sua analisi sullo sfruttamento di manodopera extracomunitaria nell’agricoltura italiana,mi permetto,da persona non esperta del settore ,di aggiungere un mio pensiero di ottantenne che mi è passato per la mente leggendola.
    Quando ero bambino mio nonno mi spiegava il significato di certe parole: i “mobili ” si chiamavano così perche le famiglie dei contadini si spostavano coi poveri averi da un paese all’altro,caricandoli sui carri e cercando lavoro secondo stagionalità precise; una data triste era quando si faceva San Martino ,sinonimo di sfratto!
    Che dire poi del trattamento riservato a coloni e mezzadri descritto nell’ALBERO DEGLI ZOCCOLI?

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