Il Tar della Lombardia ha stabilito che i benefici fiscali previsti per i canoni concordati siano riconosciuti anche ai contratti di locazione che applicano accordi territoriali diversi da quelli sottoscritti dal comune. I vantaggi sono spesso tutti dei proprietari.

La sentenza del Tar

I proprietari che vogliono stipulare un contratto di locazione a canone concordato (tassato con un’aliquota della cedolare secca del 10 per cento) delle loro abitazioni ubicate nel comune di Milano possono scegliere tra due accordi territoriali, usufruendo in entrambi i casi dello sconto sull’Imu previsto dalla normativa statale. Il comune di Milano avrebbe voluto limitare l’agevolazione solo ai contratti stipulati applicando l’accordo territoriale da esso approvato (d’ora in avanti accordo 1). Ma il Tar della Lombardia con la sentenza 2005/2024 ha invece stabilito che il comune non può negare il beneficio ai contratti che applicano l’accordo territoriale sottoscritto da organizzazioni rappresentative diverse da quelle che avevano partecipato al tavolo del comune (accordo 2). La ragione, dice la sentenza, è che la legge che regola gli accordi attribuisce al comune solo un’attività di stimolo, volta a favorire la conclusione di accordi, senza alcuna possibilità di sindacare sul loro contenuto. Pertanto, anche i contratti di locazione conclusi nel rispetto di un accordo sottoscritto in autonomia dalle rappresentanze della proprietà e degli inquilini possono accedere alle agevolazioni fiscali comunali e statali. L’Agenzia delle entrate aveva già riconosciuto l’ammissione al beneficio fiscale del proprietario dell’abitazione che aveva applicato un accordo territoriale concluso senza la partecipazione del comune.

A chi conviene avere due accordi

Le differenze più rilevanti tra i due accordi riguardano i valori massimi e minimi dei canoni definiti sulla base della localizzazione e delle caratteristiche delle abitazioni.

Nella tabella 1 sono riportati i canoni mensili calcolati applicando gli importi a metro quadro/mese degli accordi, per un’abitazione di 70 metri quadri di superficie (la metodologia di calcolo è riportata in calce alla tabella). Solo in un caso il canone minimo dell’accordo 2 è più basso di quello dell’accordo 1. Per il resto, i proprietari hanno sempre convenienza ad affittare le loro abitazioni calcolando il canone con i parametri dell’accordo 2.

Ci si può chiedere quali siano le ragioni che spingono un sindacato degli inquilini a promuovere e sottoscrivere un accordo palesemente sfavorevole agli interessi dei soggetti che dovrebbe tutelare. Poiché manca qualsiasi criterio di rappresentatività delle organizzazioni che possono sottoscrivere gli accordi, non è da escludere che nel mercato della locazione a canone concordato possa ripetersi il fenomeno già sperimentato nel mondo di lavoro: la nascita di organizzazioni di comodo. Se ci sono due accordi, i proprietari delle abitazioni scelgono, razionalmente, di applicare quello per loro più vantaggioso.

Un ancoraggio per i canoni concordati

Notevoli differenze si ripropongono anche confrontando i canoni degli accordi e quelli rilevati dall’Omi, che possiamo ritenere rappresentativi di quelli di mercato. I dati raccolti si prestano a considerazioni che valicano il caso specifico di Milano.

I valori lordi dei canoni dell’accordo 2, sia minimi sia massini, sono più elevati di quelli Omi in sette dei quindici possibili incroci localizzazione-fascia di appartenenza; la maggiorazione oscilla tra il 12 e il 77 per cento. Gli importi dell’accordo 1 solo in tre casi superano quelli Omi, mentre in circa quindici casi sono più bassi di almeno il 30 per cento. Per quanto riguarda l’accordo 2, i contratti a canone concordato sarebbero convenienti per gli inquilini solo in una minoranza di casi. Specularmente, sono vantaggiosi per i locatori. Lo sono ancor più confrontando i canoni al netto delle imposte.

Per giustificare il regime fiscale di favore previsto, i canoni concordati lordi, cioè quelli che gli inquilini pagano, dovrebbero essere più bassi di quelli di mercato di un importo un po’ più elevato del risparmio d’imposta che i proprietari delle abitazioni ottengono applicando l’aliquota della cedolare secca del 10 per cento anziché quella del 21 per cento (che è l’aliquota minima applicata ai canoni di mercato, nel caso si opti per la cedolare secca in alternativa all’Irpef). Lo scarto dovrebbe essere di almeno un 15-20 per cento, calcolato orientandosi sui canoni Omi riferiti al momento della sottoscrizione degli accordi territoriali.

Potrebbe essere opportuno un ancoraggio dei canoni concordati a quelli Omi (che ovviamente richiederebbe una modifica della legge 431/1998 che li disciplina) anche per evitare che i criteri di calcolo previsti dagli accordi territoriali siano in via teorica molto favorevoli agli inquilini, ma non vengano applicati per l’indisponibilità dei proprietari ad accettare canoni ritenuti troppo bassi.

Per esempio, è quanto successo proprio a Milano prima della sottoscrizione del nuovo accordo 1. Nel 2023, il numero di contratti a canone concordato sottoscritto è stato molto basso, intorno ai 2mila, cioè lo 0,5 per cento delle abitazioni disponibili in città per l’affitto, perché i proprietari consideravano molto poco convenienti le condizioni stabilite nell’unico accordo territoriale allora vigente. Che i bassi livelli dei canoni siano stati di ostacolo alla diffusione dei contratti a canone concordato, hanno dovuto riconoscerlo anche gli stessi sindacati degli inquilini, che nel rinnovo di quell’accordo hanno accettato di aumentarli. Un raffronto puntuale tra i vecchi e i nuovi canoni non è agevole, a causa della diversa ripartizione della città per aree territoriali omogenee e del differente raggruppamento in fasce degli attributi degli alloggi. È certo, però, che il canone massimo a metro quadro per anno è passato da 180 a 330 euro.

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