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Tfr nei fondi pensione, un gioco delle tre carte

La Lega propone di destinare automaticamente un quarto del Tfr alla previdenza integrativa. Per un modesto aumento del vitalizio, la manovra penalizzerebbe i lavoratori più fragili e le imprese, trasferendo liquidità dalle casse aziendali a quelle statali.

La proposta di Calderone

La ministra Marina Calderone (Lega) ha presentato una proposta per il trasferimento automatico del 25 per cento del Tfr (il trattamento di fine rapporto) alla previdenza integrativa. Stando alle informazioni ad oggi disponibili, il trasferimento dovrebbe riguardare gli accantonamenti Tfr sui redditi successivi all’introduzione della norma, e non quanto già versato, e sarebbe obbligatorio per i neoassunti, mentre i lavoratori con contratti già in essere avrebbero a disposizione sei mesi per opporsi, trascorsi i quali la scelta diventerebbe irreversibile anche per loro.

La possibilità di fare questa scelta esiste da tempo e gode di un trattamento fiscale agevolato, ma sono solo un terzo i lavoratori che finora hanno deciso di usufruirne. La nuova manovra interesserebbe i lavoratori del settore privato e non comporterebbe alcun esborso da parte dello stato, in quanto il beneficio in termini di pensione integrativa verrebbe interamente finanziato dal lavoratore stesso.

Cosa cambierebbe per i lavoratori

L’obiettivo dichiarato è quello di garantire ai lavoratori pensioni più alte. È tuttavia sufficiente qualche calcolo per quantificare il modesto effetto dell’operazione sull’assegno pensionistico. Prendiamo ad esempio un lavoratore di 56 anni con un reddito lordo annuo di 30 mila euro e al quale mancano dieci anni alla pensione. L’accantonamento Tfr è di circa 2 mila euro annui, mentre i contributi pensionistici ammontano a circa 10 mila euro. La proposta leghista prevede semplicemente di destinare un quarto dell’accantonamento Tfr (500 euro annui nell’esempio) alla pensione integrativa. Al momento della pensione, tenendo conto delle rivalutazioni, il risultato sarebbe in questo caso di alleggerire il Tfr maturato nei dieci anni di circa 6 mila euro (da 24 a 18 mila euro in valore attuale) per un aumento della pensione attualizzato di 23 euro al mese (lordi).

La norma comporterebbe chiaramente cambiamenti più sostanziali per i giovani che devono ancora entrare nel mercato del lavoro. Per questi ultimi, la decurtazione del 25 per cento del Tfr si tradurrebbe in una pensione integrativa pari al 5 per cento dell’importo della pensione pubblica.

Lasciando da parte le probabilmente trascurabili differenze tra il rendimento degli accantonamenti Tfr e quello dei contributi integrativi (e i diversi trattamenti fiscali), le due situazioni ipotetiche sono identiche da un punto di vista attuariale. Tuttavia, non sono necessariamente equivalenti dal punto di vista del lavoratore. Il Tfr è infatti una fonte di liquidità immediata nel momento in cui, per dimissioni, licenziamento o pensionamento, il rapporto di lavoro si interrompe. Il datore di lavoro può inoltre decidere di anticipare parte del Tfr al lavoratore in qualsiasi momento, possibilità che spesso viene concessa dalle imprese anche quando il lavoratore non possiede i requisiti per richiederlo. Il Tfr rappresenta dunque una preziosa fonte di liquidità per molti lavoratori in stato di bisogno, e dopotutto è proprio questa la sua funzione primaria.

Ovviamente, il lavoratore che al termine del rapporto di lavoro riceve il Tfr non è obbligato a spendere subito la somma e può sempre convertire questo capitale in una rendita, o risparmiarlo.

Viceversa, la conversione della pensione integrativa in liquidità immediata non è sempre possibile. Se è vero che in molti casi si possono riscattare i contributi versati per la pensione integrativa, il processo è comunque più lento e macchinoso rispetto all’anticipo del Tfr da parte del datore di lavoro. Fra l’altro, è possibile solo nei casi esplicitamente previsti dalla legge, ad esempio alla nascita di un figlio, per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa, o quando l’importo della pensione integrativa risultante è inferiore a determinate soglie. Stanti le soglie attuali, la maggior parte dei lavoratori che versassero esclusivamente la quota obbligatoria nei fondi dovrebbero rientrare in quest’ultimo caso, ma non è possibile escludere con certezza ulteriori cambiamenti normativi da qui a quando i lavoratori si troveranno a scegliere, visto il continuo susseguirsi di interventi normativi in tema di previdenza e gli obiettivi dichiarati della proposta, che sembra voler in qualche modo indurre i lavoratori alla scelta della rendita pensionistica integrativa.

In altre parole, se è sempre possibile convertire un capitale in rendita, il contrario non è garantito, ed è forse il motivo per il quale la maggior parte dei lavoratori oggi preferisce non destinare i fondi Tfr alla pensione integrativa. La proposta leghista sembra dunque basarsi sull’assunto che i lavoratori debbano essere spinti a scegliere meglio. Ovviamente, nel loro interesse.

Si tratta dunque di una mossa fortemente paternalistica, che si basa implicitamente sul presupposto che i lavoratori non siano in grado di gestire in maniera lungimirante i propri risparmi. Se è vero che è anche l’assunto sul quale si fonda qualsiasi sistema pensionistico, la domanda da porsi è se la destinazione di un terzo del reddito a questo scopo non sia già sufficiente. Ossia se davvero sia necessario forzare tutti, a prescindere dalle situazioni individuali, dai contributi già versati e dall’entità della pensione già maturata, a rinunciare a una potenzialmente salvifica fonte di liquidità per ottenere un trascurabile aumento del vitalizio.

Cosa cambierebbe per le imprese

Un altro aspetto da tenere in considerazione è l’impatto che la manovra avrebbe sulle piccole e medie imprese, che possono utilizzare gli accantonamenti Tfr come fonte di liquidità contro il riconoscimento di un interesse per il lavoratore. La proposta leghista sottrarrebbe loro una parte importante di questa liquidità per reindirizzarla verso i fondi pensione, che investono largamente in titoli di stato italiani e contribuiscono dunque al finanziamento della spesa pubblica.

Tenendo conto che un terzo dei 17 milioni di lavoratori del comparto privato ha già optato per questa possibilità, l’obbligo interesserebbe circa 11 milioni di lavoratori e un capitale stimabile intorno ai 4,5 miliardi di euro annui.

Al di là dello scopo dichiarato di garantire ai lavoratori pensioni più generose, il vero beneficio di questa manovra sembra dunque per lo stato, con un notevole trasferimento di liquidità dalle piccole e medie imprese ai fondi pensione, e dunque indirettamente a sostegno della spesa pubblica. Con un altro obiettivo goffamente nascosto: mascherare il mancato mantenimento delle inattuabili promesse leghiste sul fronte pensionistico.

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  1. Savino

    Non si può imbrogliare le persone con il silenzio-assenso su questa materia. Molti italiani in difficoltà riceverebbero volentieri una parte del TFR nello stipendio mensile, figuriamoci se vorrebbero destinarlo a fondi di natura privatistica. Il silenzio-assenso confonde le idee e garantisce furbamente l’intervento su giacenze dovute al silenzio. Eticamente, non è così che ci si comporta nei confronti dei lavoratori.

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