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L’occupazione tiene, ma i salari sono in affanno

I dati confermano che almeno per il momento l’occupazione non subisce le conseguenze del rallentamento dell’economia. L’andamento demografico renderà però difficile incrementarla. Intanto, i salari sono ancora alla rincorsa dell’inflazione.

Non c’è il ripiegamento dell’occupazione

La frenata del numero di occupati segnalata a settembre dai dati della Rilevazione Istat sulle forze di lavoro, a differenza di altre intervenute in precedenza (almeno un paio ogni anno, anche nelle congiunture migliori), era stata interpretata come il riallineamento logico e atteso, solo fisiologicamente ritardato, con altri importanti parametri: in primo luogo, la produzione industriale (segnata dalla crisi dell’automotive) ma anche l’export, il turismo (-1,4 per cento le presenze rispetto al terzo trimestre 2023), o il volume di ore autorizzate (45 milioni a settembre). La curva dell’occupazione, dopo aver recuperato le perdite dovute al Covid e superato la barriera dei 24 milioni di occupati (medi mensili destagionalizzati) era prevedibile imboccasse la via del ripiegamento, auspicabilmente lentissimo, o della stagnazione. Ad ostacolarne la crescita ulteriore congiurava – oltre che la situazione economica complessiva e in particolare il contesto geopolitico sempre meno rassicurante – la penuria di manodopera, conseguente alla riduzione della popolazione in età lavorativa, resa visibile dal continuo declino del tasso di disoccupazione (5,8 per cento a ottobre).

L’aggiornamento reso noto lunedì 2 dicembre, con dati aggiornati a ottobre, smentisce però che il ripiegamento sia iniziato: gli occupati – per il quarto mese consecutivo sopra i 24 milioni – hanno segnato il nuovo massimo storico (24,092 milioni, valori destagionalizzati), mentre i disoccupati sono scesi, per la prima volta, sotto 1,5 milioni: una differenza gigantesca rispetto agli oltre 3 milioni del periodo 2013-2015.

La crescita degli occupati, come ben si ricava dalla figura 1, non risulta trainata dal lavoro a termine (un’approssimazione, seppur imprecisa, del precariato) – che anzi, vede ridursi continuamente la sua quota: sul totale degli occupati è poco sopra l’11 per cento (attorno al 15 per cento sui dipendenti). E non risulta trainata neanche dal lavoro indipendente, che appare al massimo, negli ultimi mesi, aver arrestato il ripiegamento che l’ha portato dal 28 per cento del 2004 all’attuale 21-22 per cento.

E non è nemmeno imputabile al part-time, certo ancora consistente, ma non più di quanto lo fosse prima della pandemia, anzi: oggi riguarda il 18-19 per cento dei dipendenti contro il 20-21 per cento del 2018-2019. Non sono dunque le varie declinazioni del lavoro povero a spiegare la dinamica occupazionale, come già argomentato anche qui.

Pure i dati di contabilità nazionale, che propongono altre metriche – oltre agli occupati (teste) anche le posizioni di lavoro (posti), le unità di lavoro (o unità equivalenti), le ore lavorate –, vanno nella medesima direzione: il tendenziale delle ore lavorate nel terzo trimestre 2024 (+1,5 per cento, dati destagionalizzati) è allineato a quello degli occupati. 

Il problema di domani

Fin qui la situazione restituitaci dai dati Istat più aggiornati, in attesa che le fonti amministrative confermino e qualifichino questo quadro, illuminandolo ulteriormente.

Oltre all’ovvio interrogativo congiunturale – quando la domanda di lavoro registrerà i segnali di difficoltà provenienti dalla produzione? – due altre questioni, in sede di analisi, appaiono cruciali: la prima riguarda il presunto “tetto occupazionale”, la seconda chiama in causa i salari.

La prima è così formulabile: data la tendenza prevista (e in essere già dal 2014, salvo qualche aggiustamento) alla riduzione della popolazione in età lavorativa, com’è possibile – qualora la domanda si mantenesse elevata – conservare i livelli occupazionali? La risposta usuale è: il tasso di occupazione italiano è ancora molto inferiore a quello europeo (circa 7-8 punti in meno) e c’è quindi ampio spazio per la crescita, in particolare per i tassi di occupazione femminili e giovanili.

Ciò è statisticamente vero, considerando le medie nazionali, ma va aggiunto che i tassi di occupazione nel Centro-Nord sono già di livello europeo e quindi lo spazio (eventuale) di crescita è quasi esclusivamente al Sud. Non è pensabile che i tassi di occupazione al Nord aumentino ancora sensibilmente: come si può andare, nel Nord-Est, oltre il 94-95 per cento dei maschi in età 35-54 anni? Anche crescere molto oltre l’80 per cento delle donne appare difficile. Dunque, gli andamenti demografici attesi non troveranno compensazione in variazioni del tasso di occupazione.

Il peso significativo della demografia, del resto, lo si vede bene confrontando la dinamica recente degli occupati per grandi classi di età con quella dei loro corrispondenti tassi di occupazione.

Come si può osservare nelle due figure, il tasso di occupazione è aumentato, tra il 2019 e il 2024, per tutte le classi di età e gli incrementi più significativi (circa sette punti in più rispetto al 2019) sono stati conseguiti dai giovani in età 25-34 anni, cui fa seguito la classe 50-64 anni. Ma la situazione è ben diversa nella variazione del numero di occupati perché in tal caso pesa il grande mutamento nella composizione della popolazione che va sotto il nome di processo generale di invecchiamento della popolazione: gli occupati adulti infatti (35-49 anni) sono significativamente diminuiti nonostante la crescita del tasso di occupazione, mentre l’aumento più consistente in valore assoluto è stato quello della classe 50-64 anni (+1,2 milioni di occupati), nonostante una crescita in termini di tasso di occupazione inferiore a quella dei giovani 25-34 anni.

La questione salariale

Se la demografia è il problema del futuro (annunciato), quello del presente è il salario. Sulla base dei dati riportati nell’ultimo Rapporto Inps, la situazione si può così sintetizzare:

  1. le retribuzioni lorde effettive dei dipendenti pubblici e privati (al netto di domestici e operai agricoli) sono cresciute in media, tra il 2019 e il 2023, attorno al 6-7 per cento; si tratta di una dinamica superiore di uno-due punti a quella delle retribuzioni contrattuali orarie, che hanno evidenziato un incremento appena superiore al 5 per cento;
  2. le retribuzioni nette sono mediamente aumentate in misura maggiore di quelle lorde per effetto soprattutto della decontribuzione e marginalmente delle riforme fiscali (modifiche alle aliquote e alle detrazioni): si può stimare un incremento medio ulteriore, rispetto a quello sotteso alla variazione della retribuzione lorda, di circa 3 punti (differenziato in base al livello del salario: più significativo per i redditi bassi e tendente ad annullarsi per i salari medio-alti);
  3. comunque sia misurata (con qualsiasi indice: Ipca, Foi o Nic), l’inflazione nel medesimo periodo si è attestata attorno al 17-18 per cento, superiore dunque di circa nove-dieci punti alla variazione del salario medio lordo e di sette punti alla variazione del salario medio netto. Se anziché agli indici generali dell’inflazione facciamo riferimento alla variazione dei prezzi dei soli prodotti alimentari, un’approssimazione dei beni che più contano per i lavoratori con basse retribuzioni, l’inflazione complessiva del periodo risulta ben più significativa – pari a circa il 25 per cento – e il confronto con la dinamica salariale diventa più triste.

Nel corso del 2024 ulteriori effetti positivi sulla dinamica del salario netto sono dovuti al mix rafforzato decontribuzione-riforme fiscali. Per quanto riguarda i salari lordi l’indice delle retribuzioni contrattuali segnala, a settembre, una crescita rispetto ai valori di fine 2023 di 3-4 punti. Data la contenuta variazione dei prezzi osservata nel 2024 (1-2 punti percentuali), risulta possibile che la dinamica media dei salari netti si sia significativamente avvicinata a quella dell’inflazione del periodo (2019-2024), rimanendo tuttavia ancora lontana dalla variazione dei prezzi dei beni di prima necessità.

Come tutti i problemi italiani, anche quello salariale si declina poi in modo diverso da territorio a territorio. Lo evidenzia plasticamente una semplice elaborazione sui dati Inps appena pubblicati dell’Osservatorio dipendenti privati extra-agricoli. Nella tabella sono riportate le provincie con, rispettivamente, la più alta e la più bassa crescita della retribuzione lorda media dei dipendenti full time full year: oltre alla consueta dicotomia Nord-Sud, si nota che anche nel caso più virtuoso (Bolzano), la distanza della dinamica della retribuzione lorda dall’inflazione è evidente.

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Il Punto

  1. Enrico

    Mi pare ovvio che occupati sempre più anziani (presumibilmente meno produttivi, innovativi e dinamici) possano aspirare solo a salari modesti e in declino. Ed è altrettanto ovvio che un tessuto produttivo dominato da microimprese non possa permettersi di assumere personale troppo qualificato offrendo salari adeguati. In questa situazione, perché mai un giovane PhD o un 40enne con esperienza dovrebbe rimanere in Italia? Da decenni i governi assecondano questo declino con sconti sul costo del lavoro per compensare la perdita di produttività, penalizzando le imprese più dinamiche, che subiscono la concorrenza di zombie che hanno bisogno solo di lavoro povero. Il recente taglio del cuneo fiscale (finanziato dalle imposte pagate dagli stessi lavoratori e dai pensionati) incoraggia queste tendenze regressive.

  2. Claudio Treves

    Come al solito Bruno è ineccepibile nell’analisi, aggiungerei però due osservazioni : la prima riguarda le ore lavorate, sarebbe bene tener presente anche l’andamento della CIG che nell’industria segna un nuovo picco (e forse iniziano a manifestarsi licenziamenti, vedi indotto automotive, per ora); la seconda i contratti a termine. E’ possibile spiegare da un lato la crescita degli occupati permanenti con la trasformazione di precedenti rapporti a termine a conclusione dei 24-36 mesi? e il nuovo dato, più basso, potrà segnare nuovi picchi alla luce dell’incertezza della domanda? materiale per un nuovo intervento…

  3. Giuliano Pierucci

    La ringrazio per l’analisi chiara, che spiega molto bene quali sono le vere criticità proprie del mercato del lavoro in Italia.

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