L’aspetto fisico sembra contare nella probabilità che un uomo commetta una violenza sessuale nei confronti di una donna. Essere poco attraente può dar luogo a frustrazione e comportamenti violenti nelle relazioni di coppia. La famiglia ha un ruolo chiave.
L’espandersi delle culture misogine
Il tema della violenza sessuale contro le donne ha assunto ancora maggiore rilevanza con l’emergere del movimento MeToo, esploso negli Stati Uniti nel 2017 dopo le denunce di molestie sessuali nel settore cinematografico. Sull’onda di questo movimento, anche nella letteratura scientifica il dibattito si è intensificato, dando vita a un filone di ricerca relativo alla relazione tra essere vittime di violenza e vita lavorativa. (vedi anche Caroline Coly). La maggior parte degli studi si basa su dati auto-riportati dalle vittime di violenza.
Pochi studi, invece, analizzano i fattori che spingono gli autori a esercitare la violenza sessuale, principalmente a causa della difficoltà di reperire dati sul tema. Da un lato, quelli ottenibili dai registri di polizia forniscono informazioni solo sui casi denunciati, e tendono quindi a rappresentare una sottostima delle violenze sessuali perpetrate, spesso riguardano le forme più gravi. Dall’altro, le informazioni raccoglibili tramite questionari, sebbene garantiscano l’anonimato agli intervistati, soffrono quasi sempre di un basso tasso di risposta per la riluttanza dei partecipanti ad ammettere comportamenti socialmente inaccettabili e potenzialmente rilevanti dal punto di vista penale. Tuttavia, comprendere chi sono coloro che esercitano violenza nella sfera intima e in quali circostanze essa si manifesta è una questione cruciale per formulare politiche efficaci nella prevenzione del fenomeno e nella costruzione di una società più consapevole.
È un aspetto diventato ancora più rilevante negli ultimi anni, alla luce della crescente diffusione di movimenti misogini legati al suprematismo bianco (la cosiddetta manosphere). Tra questi spicca il movimento incel, consolidatosi sulle piattaforme online negli ultimi due decenni.
Secondo la cultura incel, gli uomini che non riescono a trovare una compagna sarebbero “celibi involontari”, vittime della loro scarsa attrattività e impossibilitati a cambiare la propria condizione a causa di uno stato di natura sfavorevole. L’unica soluzione, secondo questa visione, sarebbe un ordine sociale in cui le donne siano subordinate ai bisogni (sessuali e non) degli uomini.
Queste idee, che trovano un terreno fertile sul web, non restano sempre confinate alla dimensione virtuale, ma possono tradursi in azioni concrete. Per esempio, negli Stati Uniti, l’autore dell’attacco terroristico avvenuto nel 2014 nei pressi del campus dell’Università di Santa Barbara, in California, era uno studente aderente alla cultura incel. Prima della strage, aveva pubblicato online una serie di video in cui esprimeva il suo risentimento per essere stato rifiutato dalle donne, dichiarando di volerle “punire tutte”. Da allora, gli episodi di violenza legati agli incels, pur pochi nei numeri, sono aumentati sensibilmente, testimoniando l’espansione di una cultura misogina che trova sempre più consenso.
Lo studio su chi ha commesso una violenza sessuale
Un nostro studio si propone di indagare chi siano gli autori di violenza sessuale, utilizzando i dati longitudinali statunitensi Add Health (National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health). In particolare, esaminiamo la relazione tra l’(in)attrattività fisica (misurata tra i 12 e i 17 anni) e la probabilità di aver avuto o aver tentato di avere un rapporto sessuale con il partner contro la sua volontà (misurato tra i 18 e i 40 anni). Per attenuare il rischio che l’intervistato ometta comportamenti passati perché non desira confessarli a un intervistatore, la domanda sulla violenza sessuale viene presentata in modalità privata, ossia l’intervistato la legge su un computer e risponde in autonomia. Di conseguenza, il tasso di risposta è pressoché massimo e prescinde dal livello di attrattività fisica del rispondente.
L’attrattività fisica, invece, è valutata dall’intervistatore per ciascun rispondente su una scala da 1 (molto poco attraente) a 5 (estremamente attraente). Per mitigare l’influenza della soggettività degli intervistatori nell’assegnazione dei punteggi, adottiamo un modello di regressione con effetti fissi a livello di intervistatore, così da controllare la variazione sistematica dovuta alle differenze individuali nella valutazione.
I nostri risultati mostrano che, per il campione degli uomini, l’aumento di 1 punto nel beauty rating riduce in media di 1,3 punti percentuali la probabilità di aver avuto o provato ad avere rapporti sessuali contro la volontà del partner (figura 1). La correlazione è in parte mediata da fattori come i tratti della personalità (personality traits) e l’inclusione sociale, misurata come il grado di integrazione dell’intervistato a scuola e nella società durante l’adolescenza.
Il ruolo dei genitori
I nostri risultati mostrano anche come l’investimento genitoriale, misurato attraverso il grado di coinvolgimento dei genitori a scuola durante l’adolescenza, rappresenti un canale efficace per attenuare la correlazione per il sotto-campione di uomini molto poco attraenti(figura 2). In particolare, gli uomini con bassi livelli di attrattività che ricevono un elevato investimento genitoriale hanno una probabilità ridotta di riportare episodi di violenza. Al contrario, gli uomini poco attraenti con un basso livello di investimento genitoriale presentano le più alte frequenze di violenza riportata. L’effetto rimane invariato quando si utilizza una misura esogena dell’investimento genitoriale, ovvero l’ordine di nascita (figura 3).
Nel complesso, il nostro studio evidenzia come una scarsa attrattività fisica possa essere associata a frustrazione e comportamenti violenti nelle relazioni sentimentali, invitandoci a riflettere sul peso che la società attribuisce all’aspetto fisico. Tuttavia, i nostri risultati suggeriscono anche che l’investimento emotivo e di tempo da parte dei genitori possa agire come fattore protettivo, sottolineando l’importanza della famiglia nel mitigare tali dinamiche.
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E’ Professoressa Ordinaria in Economia Politica presso il Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis” dell’Università di Torino. E’ Fellow del Collegio Carlo Alberto, e Associate Researcher del Frisch Center for Economic Research a Oslo. In precedenza ha lavorato come College Lecturer in Economia presso il Robinson College e Research Associate nel Department of Applied Economics dell’Università di Cambridge. I suoi principali interessi di ricerca sono nel campo dell’economia di genere e femminista. I progetti di ricerca attuali includono le differenze di genere nell’istruzione e in particolare nello studio della matematica e delle scienze in Italia (progetto MathGenderGap), le conseguenze del COVID-19 sulle disuguaglianze educative, la valutazione di incentivi economici per l’integrazione dei migranti in Norvegia.
Professoressa Associata in Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Economico-Sociali e Matematico-Statistiche dell’Università di Torino . E’ Fellow dell’ Institute of Labor Economics (IZA) e Research Affiliate del Life Course Centre dell’ University of Queensland. In precedenza, ha lavorato come Senior Lecturer in Economics presso l'Università di Wollongong e come Lecturer in Economics presso il Department of Economics e Health Economics Research Unit dell’ University of Aberdeen. I suoi principali interessi di ricerca sono nel campo dell’economia della salute e dell’istruzione, con un focus particolare sul benessere della famiglia e dei bambini. I progetti di ricerca attuali riguardano le differenze di genere nella salute mentale dei bambini e degli adolescenti, gli effetti di politiche anti crimine sulla salute mentale, e le diseguaglianze di genere nello studio della matematica.
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