Nel 2024 l’imposta di soggiorno ha portato nelle casse dei comuni più di un miliardo. Ha però vari difetti. Per esempio, non tutti gli enti possono introdurla. Servirebbe più omogeneità nelle regole e più trasparenza sulla destinazione del gettito.

Come funziona la tassa di soggiorno

Il settore turistico si prepara all’imminente stagione estiva, con l’obiettivo di consolidare e migliorare i risultati positivi del 2024 in termini di attrattività e introiti: 458 milioni di presenze, +6,8 per cento di presenze straniere, per un valore prodotto pari al 10,8 per cento del Pil). Per rendere le nostre località più sostenibili e resilienti, un ruolo non trascurabile è svolto dall’imposta di soggiorno. Il tributo comunale, ripristinato con il Dlgs 23/2011, ha infatti come obiettivo l’attuazione di politiche specifiche in materia di turismo, di ambiente, di recupero e fruizione dei beni culturali. E ha una duplice finalità, fiscale ed extrafiscale: contribuire alla sostenibilità sia finanziaria, sia turistico-ambientale degli enti locali.

Ma l’imposta di soggiorno è pronta per la stagione estiva? Nelle figure 1 e 2 si possono vedere le dinamiche del gettito e del numero di comuni che hanno adottato l’imposta dal 2011 a oggi: dai 77 milioni di euro raccolti da tredici comuni nel 2011 agli attuali 1.010 milioni, riscossi da 1.315 comuni. Rimangono tuttavia aperte alcune questioni economico-giuridiche nel disegno e funzionamento dell’imposta.

Figura 1 – Evoluzione del gettito dell’imposta di soggiorno dal 2011-2024 (milioni)

Fonte: Osservatorio nazionale JFC sulla tassa di soggiorno

Figura 2 – Evoluzione nel numero di comuni che ha adottato l’imposta (2011-2024)

Fonte: Osservatorio nazionale JFC sulla tassa di soggiorno

Quali sono gli spazi di autonomia dei comuni?

L’imposta di soggiorno è stata disegnata dal legislatore come un’imposta di consumo, da applicare secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo pagato per il pernottamento, individuato come indice mediato della capacità contributiva del pernottante (comma 1, Dlgs 23/2011). Nonostante i comuni abbiano la facoltà di decidere se introdurre il tributo e con quali aliquote, gli spazi di autonomia sono ridotti a causa dei vincoli sull’eleggibilità dell’ente e sull’imposta massima ammissibile. Possono infatti adottarlo i comuni a vocazione turistica o città d’arte inclusi negli elenchi regionali, nonché i capoluoghi di provincia, le unioni di comuni e gli enti amministrativi delle isole minori. Il “tax cap”, che dal 1° gennaio 2025 è innalzato di 2 euro, è stato fino all’anno scorso di 5 euro per pernottamento, con l’eccezione di 10 euro per comuni con una proporzione di turisti venti volte superiore ai residenti (storicamente Rimini, Venezia, Verbania, Firenze e Pisa).

Quando fu introdotto il tributo, si attendeva un regolamento nazionale che ne declinasse la disciplina attuativa generale, d’intesa con la Conferenza stato-città e autonomie locali. L’atto non è mai stato emanato e i comuni hanno introdotto l’imposta con regolamenti propri, seguendo criteri di semplificazione amministrativa, che hanno generalmente portato a un’articolazione delle aliquote diversificate non per prezzo, ma per tipologia e pregio della struttura (aliquote fisse crescenti con le “stelle” degli hotel, i “soli” per gli agriturismi, e così via). Questa declinazione elementare del tributo, applicata con i limiti imposti dal “tax cap”, ha generato gettiti che spesso non risultano neanche proporzionali alla base imponibile, come richiesto dalla normativa, soprattutto per le strutture di fascia alta.

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Il risultato complessivo è un quadro frammentato nell’applicazione dell’imposta, ulteriormente complicato da eccezioni (ad esempio, il comune di Bologna ha introdotto aliquote fisse crescenti per fasce di prezzo).

Per ovviare al disallineamento tra normativa nazionale e comunale, nell’estate 2024 è stata proposta una bozza di legge, che prevedeva aliquote fisse crescenti per classi di prezzo applicabili per camera e non per turista (fino a 5 euro per una camera con un prezzo fino a 100 euro a notte e fino a  25 euro per una camera con un prezzo superiore a 750 euro). La riforma è stata però rinviata perché rimanevano comunque alcune criticità.

In primo luogo, all’interno di ogni classe, il tributo risulterebbe inevitabilmente regressivo, sollevando questioni redistributive. Perché se l’unità della base imponibile è la camera, a parità di prezzo, l’entità pro capite del gettito dipenderebbe dal numero dei turisti pernottanti, violando il principio di equità orizzontale. L’articolazione per classi non è neutrale rispetto alle decisioni di prezzo da parte degli operatori turistici, creando così inefficienze nella commisurazione del gettito. Inoltre, l’ampia variabilità dei prezzi dei pernottamenti creerebbe difficoltà nella fase di accertamento della base imponibile per il comune. Infine, secondo gli albergatori, il carico fiscale sul pernottamento risulterebbe eccessivamente elevato, con ripercussioni negative sull’attrattività della destinazione turistica.

Considerata l’eterogeneità dei flussi turistici tra le diverse località, i comuni hanno avanzato la richiesta di maggiore flessibilità per la fissazione delle classi di prezzo e delle aliquote, per superare le rigidità distorsive di questo “modello unico”.

È un’imposta di scopo?

Un tema ricorrente è poi la destinazione del gettito raccolto dall’imposta di soggiorno, che dovrebbe “finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali e ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali” (art. 4, comma 1, Dlgs 23/2011). Recentemente il vincolo è stato esteso anche al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (art 1, comma 493, legge 213/2023), facendo prevalere l’accezione di compensazione per i costi esterni creati dai turisti sui residenti. Si è anche proposto di ampliare le finalità di destinazione del prelievo, come la possibilità di utilizzare il gettito degli airbnb per calmierare l’eccessivo aumento degli affitti degli studenti universitari.

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Sebbene siano presenti alcune caratteristiche proprie dell’imposta di scopo, come il prelievo legato al beneficio e le finalità nella gestione del gettito, l’incisività del vincolo di destinazione è allentata a causa della mancanza di una procedura contabile minuta che identifichi precisamente le modalità di utilizzo dei proventi del tributo. Recenti pronunce della Corte dei conti hanno evidenziato la necessità di una correlazione esplicita e non mediata tra l’utilizzo del gettito e le spese indicate dal legislatore.

Cosa c’è da cambiare

Considerata l’importanza dell’imposta di soggiorno per gli enti locali, ci auguriamo una ripresa del dibattito che trovi una sintesi tra le diverse parti, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza e l’equità del suo prelievo.

Per allineare il tributo al principio della gradualità rispetto alla base imponibile, si potrebbe valutare l’introduzione di un’imposta ad valorem sul prezzo, con aliquote percentuali da calibrare, nonostante le difficoltà riscontrabili in fase di accertamento della base imponibile. Come già contemplato nella bozza della riforma, sarebbe opportuno eliminare gli elenchi regionali, rendendo eleggibili tutti i comuni con strutture ricettive. Per sollevare il gestore dalla responsabilità contabile della riscossione del tributo, si potrebbero introdurre pagamenti con meccanismi e piattaforme digitali. Sarebbe utile anche l’inserimento di strumenti di controllo economico-giuridici per definireprocedure a garanzia dell’ottemperanza delle finalità previste dalla normativa.

La trasparenza nella destinazione del gettito è importante anche per rendere più partecipi i cittadini alla gestione della finanza pubblica locale, contribuendo a consolidare la tax morale delle comunità locali e il capitale sociale dei territori.

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