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Breve storia del referendum all’italiana

L’8 e 9 giugno si tengono in Italia cinque referendum abrogativi su materie che riguardano il lavoro e la cittadinanza. Ecco come l’Assemblea costituente arrivò a prevedere l’istituto del referendum abrogativo e le regole del suo funzionamento.

Il referendum in Assemblea costituente

L’8 e 9 giugno si svolgono in Italia cinque referendum abrogativi su materie che riguardano il lavoro e la cittadinanza. Il loro contenuto è analizzato in vari contributi pubblicati su lavoce.info. Qui ci concentriamo invece sulla storia del concepimento dell’istituto nell’Assemblea costituente, l’origine anche delle regole di funzionamento tuttora in vigore.

Il referendum abrogativo è previsto nel nostro ordinamento dall’articolo 75 della Costituzione. La lettura degli atti della Costituente, così come tutta l’attività politica che ne seguì, ci fanno capire come fosse una materia sin dall’inizio molto scivolosa. E non è probabilmente un caso che la legge che “determina le modalità di attuazione del referendum” (comma quinto art. 75 Cost.) sia stata introdotta solo ventidue anni dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale (legge 25 maggio 1970 n. 352), segno che la questione non appassionava né il legislatore né il corpo elettorale. Non solo: la lettura degli Atti dell’Assemblea costituente mostra come il sentimento generale su questo strumento fu piuttosto contrastato.

Innanzitutto, l’Assemblea bocciò la proposta di introdurre nel nostro ordinamento il referendum sospensivo (chiamato anche preventivo), quello, cioè, che blocca l’entrata in vigore di una legge approvata dal Parlamento. Infatti, il primo comma della proposta di articolo 72 (che introduceva l’istituto del referendum e che è poi diventato il 75) all’inizio recitava in questo modo: “L’entrata in vigore di una legge non dichiarata urgente a maggioranza assoluta, o non approvata da ciascuna camera a maggioranza di due terzi, è sospesa quando, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, cinquantamila elettori o tre consigli regionali domandano che sia sottoposta a referendum popolare. Il referendum ha luogo se nei due mesi dalla pubblicazione della legge l’iniziativa ottiene l’adesione, complessivamente, di cinquecentomila elettori o di sette consigli regionali”.Si trattava, sostanzialmente, di un diritto di veto assegnato a un esiguo numero di elettori e di consigli regionali. Per questo motivo, venne ritenuto eccessivo nel contesto di una democrazia parlamentare dove l’organo legislativo risulta “eletto con suffragio universale diretto è il vero ed unico rappresentante della volontà popolare” (Atti, p. 1261). Non solo: si ritenne che il referendum sospensivo, grazie alla capacità organizzativa dei partiti, avrebbe potuto diventare uno strumento di “ostruzionismo extraparlamentare”. Ci fu inoltre esplicito riferimento al fatto che “il giudizio sulla legge richiede una competenza tecnica, sia pur elementare, che non risiede nella massa del popolo” (Atti, pag. 1269). Nonché al fatto che assegnare questo potere a soli cinquantamila elettori o a tre consigli regionali avrebbe svilito l’attività del ben più rappresentativo Parlamento. Dopo una lunga discussione, giovedì 16 ottobre 1947 il primo comma fu eliminato, mentre l’istituto del referendum fu confermato per la sua parte abrogativa.

Genesi del referendum abrogativo

I commi secondo e terzo della proposta di articolo 72 recitavano rispettivamente così: “Si procede altresì a referendum quando cinquecentomila elettori o sette consigli regionali domandano che sia abrogata una legge vigente da almeno due anni”; e “In nessun caso è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione dei bilanci e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali”. Il referendum abrogativo venne approvato, seppur con modifiche. In termini generali, l’istituto fu ritenuto “una delle caratteristiche innovative del nuovo stato italiano, in un senso ormai [ritenuto] indispensabile in una nuova democrazia”. Tuttavia, il suo utilizzo avrebbe dovuto essere piuttosto vincolato, affinché l’attività del Parlamento, organo sovranamente deputato all’attività legislativa, potesse essere certa e, entro limiti ragionevoli, immutabile. Cosa che invece il principio del referendum abrogativo metteva – e mette – in discussione. Qualcuno propose che una legge non potesse essere sottoposta a referendum abrogativo prima di cinque anni dalla sua approvazione, perché, altrimenti, non si sarebbe potuto giudicare se avesse funzionato oppure no. Qualcun altro, invece, proponeva che dopo sei mesi dall’entrata in vigore nessuno avrebbe più potuto farlo. La Costituente decise di rimuovere il vincolo dei due anni, presente nella proposta di secondo comma. Per quanto riguarda il terzo comma, da segnalare il dibattito sull’inserimento, tra le materie non sottoponibili a referendum abrogativo, sia delle leggi di amnistia e indulto sia elettorali. Sul primo tema, anche se da alcuni ritenuto inutile (“dopo che i detenuti sono stati posti in libertà non si può verificare il caso che debbano essere nuovamente arrestati”; Atti, pag. 1288), si preferì evidentemente rendere esplicito il divieto. Per quanto riguarda le leggi elettorali, invece, prima ne venne approvato l’inserimento, che però fu poi revocato. Una decisione che, nei primi anni Novanta del secolo scorso, ebbe in effetti forti conseguenze.

La questione del quorum

La questione del quorum venne affrontata nella discussione della proposta di articolo 73 che, al secondo comma, prevedeva: “La proposta soggetta a referendum è valida se hanno partecipato i due quinti degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”. La discussione era più che altro indirizzata a negoziare un livello di partecipazione che soddisfacesse la maggioranza dell’Assemblea. Con un linguaggio molto esplicito, un deputato sentenziò: “Sarebbe, a mio avviso, veramente deplorevole l’abrogazione di una legge con il 17, 18, 20 per cento di voti rispetto agli elettori iscritti” (Atti, pag. 1290). Era una possibilità concreta, derivata dal fatto che a partecipare fosse appunto solo il 40 per cento degli aventi diritto (i “due quinti”) e che, come da statistiche del tempo, almeno il 5 per cento dei voti fossero schede bianche. Si propose quindi un quorum del 60 per cento (“tre quinti”). Al quale, si contropropose la misura che poi venne approvata, vale a dire quella della maggioranza degli aventi diritto.

L’articolo 75

Il testo definitivamente licenziato come articolo 75 stabilisce che possa essere “indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali” (comma primo). Proprio per la loro importanza nella vita del paese, nonché per il fatto che su tali materie il sentimento popolare potesse essere non sufficientemente oggettivo e lungimirante, vengono escluse dal referendum “le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali” (comma secondo). Possono “partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati” (comma terzo), vale a dire tutti coloro che hanno raggiunto la maggiore età (oggi 18 anni). Infine, la questione più delicata e fonte di polemiche a ogni tornata referendaria, quella del cosiddetto “quorum”: “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi” (comma quarto). Insomma, per diverse ragioni, il costituente decise che la votazione avrebbe dovuto interessare un numero sufficiente di elettori per essere ritenuta valida. Come del resto la discussione avvenuta in costituente chiarisce bene. Tuttavia, forse per inconscia volontà di chi lo approvò, il meccanismo finisce per favorire i sostenitori del “no”, che hanno due strumenti per far fallire un referendum: fare campagna per il mantenimento della legge (cioè chiedere di votare “no” alla sua abrogazione) o, in alternativa e più semplicemente, invitare all’astensione. Un meccanismo forse brutale ma perfettamente legale e valido. Certo, anche riformabile, se un legislatore lo volesse davvero e non solo quando ciò aiuta la propria campagna.

In un altro articolo tracciamo un quadro delle legislazioni sul referendum abrogativo all’estero, per capire quanto il quorum previsto dalla legge italiana sia un’anomalia o, al contrario, una regola.

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  1. Savino

    Parole di grande saggezza quelle dei Padri Costituenti, sia sulle caratteristiche dell’istituto, sia sulla proponibilità, sia sul quorum.
    La presenza autorevole e credibile di Assemblee elettive e rappresentative, appositamente per discutere, legiferare e abrogare le norme, rende il referendum e gli istituti di democrazia diretta qualcosa di ottriato, come un “di piu ‘ “, con solo apparenti caratteri di modernità. In realtà, ci si poteva benissimo risparmiare di affermare che il referendum è indispensabile per una democrazia contemporanea, mentre occorre ancor oggi (soprattutto in epoca di stupidità da social network) rimarcare che il sentimento popolare, su materie tecniche e legate ai doveri di ogni cittadino nei rapporti con lo Stato, può essere non sufficientemente oggettivo e lungimirante.

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